La zoppa

di
Cesare Pavese

tempo di lettura: 13 minuti


Un mattino tiepido di settembre Masin sbucò, da un sentiero, sulla strada di Alba. Era tutto sporco e strappato, specialmente la sua camicia nera scolorita.

Sullo stradale c’era un vecchio con una grossa barba sporca, che piluccava lentamente un grappolo d’uva. Masin si fermò lí a un muretto e gli chiese se aveva un po’ di tabacco. Il mendicante senza rispondere si mise in tasca il grappolo non finito e poi cominciò a rovistare nel pastranaccio verde-bruno che lo copriva fino ai piedi.

Tirò finalmente fuori una pipa. — Il tabacco c’era ieri, – cominciò a dire con una voce acuta e annusò la pipa, – se volete sentire, giovanotto, il profumo è ancora buono.

Masin non rispose e chiese: — L’è ancôra lôntàn Alba?

— Secondo la salute, – continuò l’altro, – un’ora e mezzo o i tre quarti. Io attendo un carro e mi faccio portare in due ore e non fo la fatica.

Masin aveva fame. Non stava piú in piedi. Non disse nulla. Guardò la costa della collina da cui era sceso e si esaminò la mano destra. C’era sul dorso una scorticatura che dava ancor sangue. Cominciò a leccarsela.

— Non c’è lavoro, eh? – chiese a un tratto il mendicante.

Masin guardò tutt’intorno le colline con aria critica e disperata. — A sôn pais ’d le bale –. Poi tornò a guardarsi la mano. Aveva lí tutti i guadagni della Langa. Quel colpo battuto l’ultimo giorno nella bottega del lattoniere di Santo Stefano un mese prima, gli aveva lasciato il segno. Ma ieri sera s’era conclusa la faccenda. Aveva incontrato in una cascina di Barbaresco quel tal Talino colla sua chitarra. E s’eran presi e insultati e picchiati. I contadini del luogo avevano difeso Talino. Masin aveva menato un po’ in giro i pugni come una furia, poi era stato gettato fuori sulla strada, colle ossa rotte. Ma soddisfatto. Talino era caduto al terzo colpo. E la chitarra era sfondata.

La scorticatura s’era riaperta nella lotta. Masin la considerava attento.

— Non è ancora la vendemmia, – disse a un tratto il mendicante, – e i carri non passano. Di qui c’è sempre molto traffico di navazze d’uva.

Masin non lo ascoltava. Aspettava soltanto Masin che passasse un’auto per farsi portare fino ad Alba. Pensò a un tratto che se restava lí col vecchio, nessun padrone si sarebbe fermato a raccoglierli. Come levarsela d’intorno quella piattola? L’altro sembrava pratico e si distese sul muretto sonnecchiando.

— Arvedse, – fece Masin e attaccò lo stradale.

Dopo un po’ che camminava sotto il sole, tornò a sentir fame. Si guardò attorno. Piú avanti, c’era una vigna. Vi arrivò e fece per entrare. Un vecchio uscí dai filari e gli chiese che cosa cercava. Masin vide dei peschi. — Vôria ceuje ’d feuje ’d perse da fumé, – disse innocente. – Oh è gieugh, – strillò l’altro, – ciapè sa strâ e côre, plandròn —. Far forza non si poteva: scendeva un altro piú giovane dal sentiero della vigna. Masin non disse nulla, uscì e riprese a camminare.

Era ormai mattino alto. Qualche nuvola leggera ingombrava il cielo, ma l’aria era tiepida, matura. Masin cercò di fischiettare e non riuscì. Aveva ancora troppo nel sangue l’ira del giorno prima. Ma era andata come si deve, botte, denti, sangue. Se non glielo avessero cavato dai pugni, l’avrebbe strozzato. Pesce una volta, ma poi basta.

Lo stradale svoltava. Masin pensò: «ma non passa proprio nessuno?» e a un tratto vide a un cento metri innanzi una macchina ferma con intorno persone affaccendate.

L’istinto del collaudatore gli gridò nelle vene. Fece l’ultimo tratto quasi correndo.

Automobili cosí ne aveva toccate di rado. Era una macchina straniera dalla lunga carrozzeria, bella – pensò – quasi come i suoi scheletri di motore in collaudo.

S’avvicinò. C’era intorno un giovanotto sportivo tutto imbrattato, colla testa nel cofano. All’interno, sui cuscini, colla faccia spaventata, stava seduta una signora d’età, colla testa scoperta e vestita di chiaro, che aspettava. E a mezzo sportello una ragazza dall’aria seccata, che parlava alla signora e parve a Masin una bella ragazza. Ma non stette a pensare.

Girò avanti all’automobile e lesse Chrysle.. La signora diceva al giovanotto: — Vedi, Giulio, l’ho detto: se avessimo preso Enrico non ci sarebbe toccato di fermarci in quest’orribile luogo –. Perché orribile?

Masin stava per parlare all’uomo, quando gli venne da ghignare: s’era accorto di un mucchio di letame affiancato alla strada. La signora si faceva fresco con un fazzolettino.

Masin allora attaccò: — Ha bisogno d’un aiuto d’un meccanico, signore?

L’altro alzò la testa congestionato, guardò Masin in fretta e rispose: — No, grazie, – e tornò a pasticciare.

Le due donne osservarono Masin che ebbe paura per i suoi abiti frusti e la faccia affamata. Poi, la signora: — Giulio, lascia che ti aiutino: quest’uomo ne saprà certo piú di te –. Masin parlò non interrogato e disse: — Sono stato quattro anni collaudatore alla Fiat –. Giulio s’era alzato.

— Non c’è proprio niente da fare, – disse, – dev’esserci una fuga di gas –. Masin tentò: – No, signore, non si ferma allora: ci è sempre la candela sporca in questi casi qui –. Saltò su la ragazza: – Se lo fa dir da tutti, Giulio, e lei se la prende colla fuga.

Masin si abbassò sul motore. — Lascia fare, Giulio, – insisté la signora severa e Giulio con un mezzo inchino si tirò da parte malcontento.

In un attimo Masin aveva veduto. Non era la candela, era il filo rotto. Ma tacque, non si rialzò, maneggiò i pezzi, prese un filo alla cieca tra gli strumenti sparsi sul predellino, picchiò, sveltissimo e tutto fu a posto. Rialzandosi disse: — Provi un po’ il motore adesso –. Giulio era incredulo. Volle aiutare a chiudere il cofano e poi salí. La ragazza rimase a terra.

Masin guardava sicuro. Avrebbe dato chissà quanto pur di stringere lui il volante e sentirsi ronzar sotto i comandi.

Il motore rispose. Tutti diedero un grido di soddisfazione e Giulio si piegò sul sedile, coll’aria attenta di un corridore.

Masin s’accorse in quel momento che la ragazza zoppicava. Era un po’ piccola, ma nervosa di corpo. Peccato, zoppicava. Una faccia chiusa, bella.

Giulio chiamava: — Signorina, salga che siamo in ritardo per il pranzo –. La ragazza aprí lo sportello svogliata. Giulio chiamò Masin e fece per tirar fuori il portamonete. Masin tentò il colpo.

— No, non voglio niente. Magari se sapesse un posto da trovar lavoro. Magari da meccanico, lo faria volentieri.

— Presto, Giulio, – disse la signora, – andiamo via da questo luogo.

— Sí, – disse Giulio, – ma prenda qualcosa per l’aiuto –. E non tirò fuori niente.

La signora interloquí: — Digli che venga a Alba a cercare di te, ne parlerà con Bernardo. Va’, Giulio.

Niente automobile. — Indirizzo di chi? – gridò Masin alla macchina che già muoveva e fissò la ragazza. — Conti Celano, – fu la risposta, strozzata dal motore e dal balzo. – …Celano.

E Masin rimase solo sulla strada e senza un soldo.

Per farsi accettare dallo chauffeur di casa Celano Masin aveva dovuto rivelargli che era senza patente. Cosí lo chauffeur poteva star tranquillo che il meccanico non l’avrebbe in futuro soppiantato e avendo le spalle al caldo gli fece alcune confidenze sulla calma indispensabile a guidare, sulla vecchia scuola francese, sulla dignità di aprire lo sportello, arte ignota ai moderni volgari rompicollo e concluse aggiungendo che l’automobile era un salotto da governarsi colle cure di un domestico. Andasse quindi a pulire i vetri.

C’erano due automobili in rimessa, la Chrysler coperta da viaggio e una piccola 509 per l’economia della benzina. C’era attrezzi, fucine e un impianto per il rifornimento. A Masin diedero un toni e uno sgabuzzino dietro la rimessa. Quello era il suo regno e di lí non avrebbe dovuto uscire. Gli tornavano le macchine impolverate e roventi, ed era affar suo rimetterle all’ordine. Quasi mai Bernardo – lo chauffeur – era soddisfatto. Nel garage non si doveva fumare.

Passò una settimana e Masin fece conoscenza col Signor Conte. Venne questi insieme a un gruppo di visitatori – due signore variopinte, un giovanotto mezzo tisico e un ossuto capitano ch’era stato in Africa – a farsi bello degli impianti del garage.

A Masin che da tre ore s’annoiava gironzando lí intorno e non vedendo nessuno, non parve vero. Si precipitò alla porta e l’aprí mettendosi poi sull’attenti vicino alla Chrysler. L’ufficiale salutò. Il Signor Conte guardò sorpreso e soddisfatto. Avesse saputo che Masin stava strozzando nella mano una sigaretta!

— J’e-lô Bernard? – chiese.

— No, Signore, è fuori colla macchina, – scattò Masin, – ma è tutto in ordine.

I visitatori passarono oltre. Le signore si estasiarono alla veduta verde del giardino, che s’apriva dai finestrini, il giovanotto aprí l’indicatore dell’impianto e poi non seppe piú chiuderlo.

II Signor Conte e il Capitano parlarono poco tra loro. Ma dicevano tutto oro.

— Son riuscito a eliminare coll’impianto anche quello spreco minimo di benzina dei bidoni, – osservò il Conte, un vecchiotto scarnito e giovanile che parlava meglio in dialetto e il capitano se ne accorse.

— A sôn ’d cose, – rispose asciutto.

Poi i visitatori se ne andarono e Masin seduto davanti al garage, li vide nel giardino col contino e la zoppa giocare a tennis. Era una cosa che lo incuriosiva il tennis, Masin. Mostrarsi tutti in bianco, su un rettangolo pulito a scambiare colpi netti, cacciando parole incomprensibili e strilli nervosi, gli pareva tutto ciò che sapessero fare quella gente. Quel diavolo di giovanotto mezzo tisico teneva l’anima coi denti e su quel campo diventava un altro – salti, colpi, comandi, era sempre in vista. La zoppa…

La zoppa faceva quel che poteva e giocava colle mani, ma era pietoso vederla arrancare per il campo a inseguire la palla.

Venne un giorno a sedersi su un tavolino in mezzo al giardino, coi capelli scuri in aria, tutta sudata e ansante dal gioco. Masin si fermò alla porta della rimessa per osservarla. Quella gli fece un segno. Mezzo stupito Masin guardò se era proprio lui.

— Avete un bicchier d’acqua?, – gridò la ragazza.

Masin si precipitò col secchio fresco, senza bicchiere e voleva andarlo a cercare, ma l’altra tagliò corto e bevette alle mani.

— Fumate? – chiese poi, vedendo la cicca.

Masin si nascose la faccia scherzando. — Vuole fumare, signorina? – rispose. E aggiunse: – Me le faccio da me, le sigarette.

— Un giorno o l’altro vengo a chiedervele, – canzonò l’altra e saltò giù dal tavolino.

Masin la guardò allontanarsi. Gli piaceva quella ragazza. Aveva un modo superiore di ubbidire al Signor Conte, che Masin dapprima non comprese, fin che non seppe il posto di lei in quella villa.

Glielo disse Bernardo: — La signorina è una maestra. È qui per preparare agli esami d’ottobre il fratellino del contino – Rodolfo. È una zucca Rodolfo, non ha la testa del Signor Conte –. Bernardo parlava sempre in italiano – per non perdere l’esercizio coi signori – che gli parlavano in dialetto.

Masin cominciò a pensarci intorno. Capiva adesso l’aria superiore della zoppa, era una che lavorava e che veniva su dal basso. L’idea gli era restata dai suoi studi alla scuola serale.

A questo punto cominciò a rimpiangere di non essere piú istruito. Avrebbe saputo cosa dire alla ragazza. E cosí si trovò a invidiare Giulio, che poteva averla sempre sottomano. «Maj pi, – pensò poi, – s’a l’è côme mi, j da ’n sle baie ’sti picieur». Ma le donne, chi può sapere.

Dal giorno dell’acqua la zoppa non aveva piú rivolto neppure un’occhiata a Masin e Masin ci pensava.

Una cosa li uní. Nella villa sovente si sentiva dal giardino suonare un grammofono. Quel che piacesse a Masin star lí tra l’erba ad ascoltare quella musica, non si dice. Per via del contino sportivo, quasi tutti i dischi eran di canzonette moderne e Masin le capiva e le seguiva. Tra le altre una – un tango – lo faceva godere e dopo due volte che l’ebbe sentito, lo sapeva già fischiare intero, con tutte le variazioni e gli strumenti.

Una volta che la zoppa e lo studente passarono lí davanti per andare al tavolo di studio, Masin dal garage fischiettava senza pensarci. E la zoppa si fermò e ascoltò attenta fino alla fine e Masin non ne avrebbe saputo nulla se Rodolfino non si fosse avvicinato cautamente alla finestretta scoppiando poi in una gran pernacchia e fuggendo. La zoppa gridò qualcosa al ragazzo. Alzando il capo Masin aveva veduto la zoppa colta in fallo fare un cenno distratto e poi andarsene in fretta.

Quella sera Masin in cucina s’informò, mangiando, di tutto quello che potè sul conto della zoppa, che pareva si chiamasse Roberta.

E seppe gran cose – segreti delle cameriere. Prima di tutto che Roberta e il contino si trovavano nel garage. — Cristô! Pa mai vistie! – gridò Masin –. Gran risata su tutta la tavola. – Apri l’occhio! – gridò il cuoco. E poi, che la zoppa beveva.

— Côme? – chiese Masin.

— Sí, beve, asciuga, schiarisce, – spiegò ancora il cuoco ammiccando al torinese. Una cameriera aveva ricevuto confidenze dalla zoppa, un momento che questa era sotto l’alcool. Roberta beveva per dimenticare. Liquori: di vino a tavola era astemia. Dimenticare che cosa? Che era zoppa e che era bella e che nessuno l’avrebbe mai sposata, ma che tutti la volevano. Per esempio…

Tutto questo aveva detto Roberta, da ubriaca.

E Masin continuava a pensare chissà quando s’eran visti nel garage.

Cominciò a vigilare. Evidentemente quando lui non c’era. E allora? Alle ore dei pasti senza dubbio. E mangiò in fretta e corse subito al lavoro. Per un po’ non serví a nulla. Una sera…

Quella sera c’era ricevimento in villa. Masin pieno di voglie e di idee comuniste, osservava avidamente dal giardino le finestre illuminate, sentiva la musica, le esclamazioni, le risate. Molte donne aveva visto entrare, una piú elettrica dell’altra, e tutte sdegnose come se non cercassero un uomo anche loro. Masin aveva quasi dimenticato la zoppa e ascoltava incretinito un dialogo di una vecchia signora col capitano d’Africa, su un balcone.

— Sí, marchesa, la contessina è incinta e quel che è peggio il mio ufficiale soffre di una grave malattia venerea. Ma questo scandalo non macchierà l’esercito, stia certa, marchesa, – diceva il capitano.

— Quand’una è figlia d’una crinaccia come sua madre, presto o tardi si rivela, – diceva la vecchia.

— Che vuole, marchesa, quand’uno ha la disgrazia di piacere alle donne…

A questo punto Masin piegandosi dalla sorpresa vide un’ombra nel giardino. Subito dimenticò il balcone. E gli parve di accorgersi che quell’ombra zoppicava. Corse allora tra gli alberi e attese un momento. Non sentí nulla. Si avvicinò alla finestretta del garage tenendo il fiato.

Il garage era buio. Ma sentí voci soffocate e, piú che voci, stropiccii. Sentí un gran schiocco di un elastico.

La rabbia gli diede alla testa. Che andasse a divertirsi colle sue donne, quel pistino. Ma riuscì a trattenersi. Fece solo qualche passo indietro e cominciò a fischiettare. Poi andò al garage, spalancò la porta, sempre fischiando, e tornò a allontanarsi. Attese tra gli alberi.

Dopo un po’ vide uscire un uomo, il contino, che prese in fretta un sentiero e sparí. «Vigliach!, – pensò Masin, – a scapa ’l prim». Poi, dopo una certa pausa si affacciò la donna. Nel buio Masin la vide avvicinarsi. Gli fu accanto.

Allora Masin si alzò nel buio, fece «sst» dolcemente per non spaventarla e le prese una mano. La donna si fermò e si dibatte senza parlare. Masin la cinse ai fianchi, se la premé al corpo, la baciò. Con energia. La donna non protestò piú. Gli mise lei la lingua in bocca.

Poi si staccarono. La donna fuggí. E Masin restò di nuovo istupidito. Non zoppicava, non era Roberta.

Di Roberta Masin ebbe notizie il giorno dopo. Era stata trovata al mattino ubriaca sconcia nella sua camera, mezzo vestita da sera, colle bottiglie di whisky nella valigia spalancata.

Il Signor Conte aveva fatto presto. — Finisca di chiudere la valigia e prenda il treno. Certe lande in casa mia non le voglio.

Roberta aveva fatto le valige. Cogli occhi impastati, il corpo fluttuante, aveva girato per la camera e detto addio alle cameriere. Poi scese nel giardino. Bernardo era via. Il contino volle esser cavaliere e si offrí di pilotare la Fiat fino alla stazione. La Contessa non volle. Condusse tutti dall’altra parte della casa e lasciò Roberta a sbrigarsela con Masin.

Masin tirò fuori la Fiat e fece salire la zoppa. Poi se la mise vicino al volante e filò verso la stazione. A metà strada disse: — Tota, son villani in quella casa, non bisogna pigliarsela.

Roberta alzò la faccia che teneva piegata a guardare fisso il radiatore e fissò gli occhi su Masin.

Masin continuò:

— Io sono trattato nella stessa maniera.

Roberta non disse nulla. Alzò le spalle e tornò a guardare la strada. Masin fischiettò. Roberta non si mosse.

A poca distanza c’era la stazione. Masin vide ch’era la fine. E gettò un braccio intorno alla ragazza, facendo per baciarla.

L’altra disse: — Seccante, via!, – e lo ributtò indietro. Aveva una voce dura. Poi: – Fermate, vado sola, – e Masin dové fermare. Cercò di guardare con baldanza quella faccia, sbattuta ancora dalla notte, ma non riuscí. Dove porgerle la valigia, voltando gli occhi.

— Buon viaggio, – disse.

Silenzio.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: La zoppa
AUTORE: Pavese, Cesare

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)