Le due mogli
di
Federigo Verdinois
tempo di lettura: 20 minuti
— E l’inferma guarirà? – domandai tutto trepidante al dottore.
— Guarirà di certo, se Dio vuole – rispose questi che già s’era levato da sedere e avea preso il cappello per andar via.
— Gli è che, vedete, tutta notte mi ha tenuto in pensiero con quella sua tosse ostinata. Ora però sta meglio. Non è vero che ti senti meglio, Emma?
— Oh sì! – rispose ella con la sua vocina sottile nella quale entrava una nota di fiduciosa allegria. – Non senti? da che il dottore è qui non ho tossito una volta sola.
— Brava! e non tossirete altro, ve lo garantisco – riprese a dire il dottore, seguendo sempre quel suo mirabile sistema curativo di non sentenziare in latino, di scrivere brevi ricette e di dare agli infermi suoi una perfetta sicurezza di guarigione – Il petto non è mica impegnato. Niente di grave. Con un po’ di cautela, vi do parola che fra cinque giorni sarete fuori di letto.
— Oh grazie, dottore! – esclamammo ad una voce Emma ed io.
— Niente, niente. Che merito è il mio? Ringraziate la gioventù che è più forte di tutte le nostre bobe. La gioventù vi fa ammalare, la gioventù vi guarisce.
E così dicendo, fece per uscire.
— Non gli dici quella cosa? – mi domandò Emma.
Davvero, io non ci pensavo più: una cosa da nulla, un vero capriccio di donna. Ora le tornava in mente, dopo che i timori del male s’erano dileguati. Risposi sorridendo che se ne sarebbe parlato altra volta e che anche troppo fastidio s’era dato al buon dottore.
— No, no! – insistette ella con quel tono bizzoso da bambina che le stava così bene. Il dottore s’era fermato sulla soglia a guardare verso la nostra parte. La sua persona alta e delicata, quella leggiera brizzolatura dei capelli che faceva così spiccato contrasto con le guance colorite, quegli occhiali d’oro di dietro ai quali splendevano due occhi vivaci e spiranti bontà, gli conferivano non so che forte simpatia senza nulla sottrargli della sua gravità serena di scienziato. Pareva una persona di famiglia. Si vedeva in lui l’amico, non il medico.
I medici, checché si dica e per quanto con l’arte salutare e col sacrificio si adoperino a lenire i mali dell’umanità sofferente, hanno sempre impresso nella persona un certo carattere sospettoso che li fa considerare dai più come nemici.
— Che cosa è che vuol sapere? – domandò dopo un poco.
— Niente, dottore; scusatela. Un desiderio infantile… No, non te l’avere a male… Dirò meglio, una curiosità femminile. Va bene così?
— Sentiamo la curiosità – disse il dottore.
— Egli non ve la vuol dire – venne su Emma, senza darmi tempo di mettere una parola, – non ve la vuol dire perché ha vergogna. O di che ti vergogni? Non c’è niente di male in fondo. Noi, donne, siamo più franche. Non ci preme niente affatto di parere istruite e spregiudicate. Che vuoi? Anche i pregiudizi son buoni a qualche cosa, e io ci ho i miei, e ce li voglio avere e ci tengo.
Disse tutto questo d’un fiato e con tutta la sua grazia imperiosa. Quanto mi faceva piacere di sentirla così ben disposta! Era già mezza guarigione, capite. E lo dissi anche al dottore. Il morale ha una enorme influenza sul fisico; il corpo è valido quando l’anima sta bene.
— Ed è proprio di questo che si tratta dottore, – riprese a dire Emma che non si lasciava svolgere dalla sua fissazione. – C’è l’anima o non c’è? Io so che c’è. Lui dice di no: io dico di sì. Sentiamo voi, ecco.
— No, badiamo – diss’io. – La questione non è proprio qui. Io non voglio passare per materialista…
— Ma se lo sei, Dio Buono!
— Adagio. Il dottore mi intende. Anche i medici sono un po’ come me; un poco o molto non importa. A certe cose io non vado in fondo, nessuno di noi va in fondo. Ci basta di credere a quel che vediamo…
— E a quel che sentiamo, no?
— Anche a quello, bambina mia; anche il sentimento è una cosa che si vede, che è tangibile nei suoi effetti, che si spiega egregiamente con le funzione dell’organismo. Parlo da profano, si sa: il dottore ha tutte le ragioni di sorridere sotto i baffi e dietro gli occhiali. Io dico dunque che, in punto di materialismo, non tocca a me pronunziare una sentenza terminativa. Né a me, né a tanti altri. La scienza assoda i fatti, noi gli accettiamo. Ecco tutto. In somma, sono e non sono materialista.
Il dottore disse semplicemente:
— Siete e non siete – e crollava il capo e seguitava a sorridere. – Di molte cose oggi si può dire lo stesso, di molti uomini anche; e di moltissime opinioni.
— Al Parlamento, per esempio?
— Lasciamo andare; ne torno or ora. Ma non si può dire lo stesso dell’anima. L’anima c’è o non c’è.
— E la scienza che dice?
— Che non c’è.
— E voi?…
Il dottore tacque e restò pensoso. Emma lo fisava con quegli occhi profondi e chiari che il viso pallido e smagrito pareva ingrandire.
Era ansiosa; anticipava la parola di lui.
— Sedete, dottore – pregò.
— No, grazie – rispose egli –. Ne parleremo un’altra volta. Per ora lasciatemi andare. Non mi piace fermarmi su certe questioni.
— Perché? Perché? sentiamo il perché, dottore; fatemi a me questo piacere.
Non è facile resistere a un desiderio di Emma. Quando vuole, non c’è verso di farla disvolere. Il dottore, nondimeno, non pareva darle ascolto: non udiva la melodia grave e insinuante di quella voce da fanciulla; prestava orecchio come a un suono lontano, a un ricordo, a un grido che il passato affievoliva. Gli occhi di lui, perduta un momento la limpidezza dello sguardo, si fisavano nel vuoto e nelle tenebre. Obbedì, senza saperlo. Si pose a sedere. Parlò dopo un momento, come a sé stesso, con lentezza grave:
— Io non vi dirò se l’anima esiste o non esiste. Dirò un fatto. La scienza non lo ammetterà mai, e nemmeno io lo ammetto. La cosa più difficile a giudicare, dice de Toqueville, mi pare, è il fatto. Ma si tratta della scienza. Il fatto è accaduto a me.
Tacque di nuovo, come raccogliendosi. Emma ed io pendevamo dalle sue labbra, quasi dominati da un senso misterioso di apprensione, da un’ambascia indefinibile. Si sentiva che il dottore avrebbe detto cose gravi; gravi e dolorose. Non volevamo turbarlo con le nostre domande. Prima ancora di sapere il fatto, eravamo con l’animo sospeso, ci sentivamo trasportati fuori di quella camera, in mezzo ad altra gente, in tempi già morti.
Debbo dire la verità? Ebbene, simpatia segreta o attrazione dell’ignoto o allucinazione, ci ha dei momenti in cui ha si un’anticipata visione di cose e di persone che non si vedono. Si ha conoscenza di sé e di quanto sta intorno; ma intanto lo spirito soggiace a una specie di sdoppiamento, e soffre o gode, aspettando istintivamente di godere o di soffrire. Questa strana condizione dell’animo è chiamata dagli uomini presentimento, e forse la parola è giusta; gli uomini, più spesso che non si creda, riescono a definire le cose che non sanno, e si figurano così di saperle. Che cosa è il presentimento? Tutti lo intendono, tutti lo provano, nessuno lo spiega.
Il dottore incominciò, animandosi nella voce e nel gesto, via via che la narrazione procedeva:
— Il fatto è accaduto dieci anni fa; eppure questi dieci anni non mi pare che siano passati. Pur troppo la vita precipita, il tempo succede al tempo sempre più rapido, s’invecchia di fuori e di dentro. In una notte si vive molto e si fanno i capelli bianchi. Eppure da quella notte io non sento che i dieci anni siano trascorsi e la vedo ancora e l’avrò sempre presente e terribile. Sentite. Voi forse sapete, e se non lo sapete ve lo dico io, che mia sorella Emilia volle sposare per forza un giovane di Atina che a me non piaceva e a nessuno della famiglia. Era agiato e godeva fama di galantuomo: ma non piaceva a noi, sì perché era vedovo ed aveva dodici anni più di Emilia, sì perché la povera mia sorella sarebbe stata costretta a vivere confinata in fondo ad un paesello, lei così gentile, così vivace, così usata alla vita e al movimento di una città come Napoli. Bene. Fatto sta che sposò, non giovando a nulla i consigli miei, quasi le minacce, e molto meno essendo ascoltate le esortazioni affettuose di tutti gli altri. Deliberai di non vederla mai più; così, almeno, dissi e promisi. Emilia pianse e si disperò, mi domandò perdono; ma sposò lo stesso e partì subito, insieme con lo sposo, per Atina. Io che le volevo molto bene, mi sentii come strappare un lembo di cuore; perché, si ha un bel dire e farneticare sulle tragedie della gioventù e dell’amore, certo è che le più fiere amarezze son quelle che ci vengono dalla famiglia, come anche le gioie più squisite. Son così saldi i vincoli del sangue, che ogni più leggiera scossa produce l’effetto di un laceramento. Serbavo il broncio ad Emilia e mi cruciavo meco stesso di doverle sembrare il broncio, pure amandola come prima e forse più di prima. Mai più nella vita l’avrei incontrata; eppure, se avessi potuto vincere un mio stolto sentimento, anzi una bizza di autorità offesa, sarei corso il giorno appresso ad abbracciarla come la più cara sorella. Siamo fatti così: senza contraddizioni, non saremmo uomini.
Così passarono tre anni. Venne l’autunno, che è la stagione in cui mi riposo un poco nella pace campestre e in mezzo ai miei coloni. Il sentimento della proprietà, così insito all’uomo, quando è tenuto desto della stessa realtà che lo circonda, ci dà un vero benessere; il verde dei campi è nostro, gli alberi secolari sono nostri, è nostra la stessa aria che si respira; ed allora è che il mondo, per una superbia che ci piglia, sembra proprio fatto per noi. Fatti i bagagli, partimmo, mia moglie ed io, per Isernia. Ci aspettavano quei della villa, ai quali avevo dato avviso due giorni innanzi; e prima di tutti mi si presentò quel buon uomo del mio fattore, una specie d’intendente o di segretario, con un monte di carte e di libracci. Dovete sapere che per mio sistema, nell’interesse della mia tranquillità, io fo mandare laggiù tutte le infinite stampe, le relazioni, le discussioni, tante altre inutilità, di cui sono felicitati da Roma i rappresentanti della nazione. Ne fo un archivio o piuttosto un magazzino, nel quale vivono allegramente i topi e si delizia il mio segretario. Scarta ordina, fa polizzini, cataloga, mi serba – dice lui – il fior fiore. Quando càpito ad Isernia, si fa un dovere di offrirmelo insieme con la posta, che è sempre molto voluminosa e spesso fastidiosa e includendente. Allontanai i fogliacci, presi le lettere, scorrendone rapidamente le soprascritte. Ad un tratto mi fermai, tenendo in mano una sola lettera, lasciando cadere tutte le altre. Avevo riconosciuto il carattere della mia povera sorella. Strappai la busta con un senso di fastidio, lessi con ansietà e con vera compiacenza. Mia sorella stava bene, era contenta del suo stato, viveva felice tra l’amore del marito e quello della sua bambina. Solo le mancava una cosa; e finché non l’avesse ottenuta, non avrebbe avuto pace: le mancava il mio perdono. Me lo chiedeva a mani giunte. Dopo tre anni di lontananza, si potea dimenticare e perdonare; ogni rancore si cancella. Desiderava tanto tanto rivedermi, conoscere mia moglie, tornare ad essere per me l’Emilia di una volta. Le scrivessi subito; rispondessi due sole parole; le dessi questa sola consolazione. Me ne pregava anche in nome del marito, che era in fondo un cuor d’oro benché piuttosto ruvido, e in nome della bambina sua, una vera angioletta bianca e bionda.
Che potevo fare? Del resto, in certi casi, non c’è modo di deliberare. Si crede di volere, quando è la passione che fa impeto dentro. Mostrai la lettera a mia moglie. Trovò subito, con la prontezza delicata che hanno le donne, le parole che io avrei dette se avessi potuto parlare. Tradusse il mio pensiero. Detto fatto, fu spedita la lettera ad Emilia. Venisse presto, in giornata possibilmente, l’aspettavamo a braccia aperte; venisse anche il marito; avremmo passato insieme una buona settimana.
Feci apparecchiare i letti nella camera più bella ed ariosa di tutta la villa. Mia moglie si diè attorno, perché, arrivando da un momento all’altro, potessero trovare un boccone.
La dispensa fu visitata tre e quattro volte, e una delle volte ci entrai anch’io e volli da me stesso spiccare un presciutto. Pareva che la distanza del tempo avesse anche accresciuta la distanza dei luoghi: avevo quasi l’impressione che la mia Emilia, anziché dal villaggio presso Atina, dovesse arrivare dagli antipodi –. Questo ricordo portò un sorriso sulle labbra del dottore; ma il sorriso si dileguò presto. Emma, che ascoltava con l’interesse di una bambina e che a quella scenetta del presciutto non s’era trattenuta dal batter le mani e dal ridere, tornò seria un momento e ravviò il racconto, domandando:
— E vennero poi la sera stessa?
Il dottore, stato un poco sopra di sé, rispose:
— No, vennero il giorno appresso, ben per tempo. Il fatto è che tutta la notte nessuno di noi aveva dormito, tanto ci tardava quell’incontro. È inutile che vi dica la festa che le facemmo a lei e alla bambina, la commozione, gli abbracci, l’allegria di mia moglie per quella benedetta pace che aveva tanto desiderata, benché non osasse dirmelo per il timore di farmi dispiacere.
— E anche il marito venne? – domandò Emma.
— No, il marito non avea potuto, per certi suoi conti da definire; prometteva di sbrigarsi sollecitamente; sarebbe stato con noi fra tre o quattro giorni. Per dire la verità, in quel momento nessuno pensava a lui.
— Nemmeno la moglie?
— Forse eravamo troppo contenti; avevamo da rifarci di tutto il passato, di tre lunghissimi anni. C’erano molte domande da fare, molte cose da dire, e tante e tante confidenze che Emilia e mia moglie, tutt’e due così buone, si doveano scambiare. Parevano fatte a posta per intendersi e per essere amiche tutta la vita; forse si dolevano di non essere state amiche molto tempo prima, fin dalla nascita. Le donne, anche fra loro, quando non si odiano a morte, hanno di queste affezioni violente che noi uomini non conosciamo e non ci spieghiamo.
Non vi starò a dire come passassero i primi due giorni e come le ore ci sembrassero brevi.
La notte ci sorprendeva, che non s’era fatto né detto niente di tutto ciò che si avrebbe voluto dire e fare. Arrivò il terzo giorno, quasi inaspettato, e doveva essere il più bello di tutti, perché lo avevamo destinato ad una scampagnata in uno dei miei fondi. Pochi e fidati amici; quattordici in tutti, noi compresi; una giterella in carrozza: una giratina pel bosco; una refezione sull’erba. Napoli e i miei ammalati, ve l’assicuro, erano molto lontani da me. Del resto, chi di noi era ammalato? Nessuno. Emilia aveva acquistato, dopo il matrimonio e per la vita calma del paesello, più sodezza di forme e un invidiabile rigoglio di vitalità; la bambina fioriva come una rosa in bocciuolo.
S’andò in campagna, si rise, si folleggiò come tanti ragazzi, si affrettò l’ora della refezione, e poco prima delle quattro, sotto il fogliame fitto delle querce che facevano un’ombra deliziosa sopra un pezzo di verde che pareva un tappeto orientale, ci mettemmo a sedere in giro, disfacemmo i canestri, e demmo l’assalto alle bottiglie e ai polli arrosto.
Chiacchierando o scherzando, felici di quella pace e di quell’affettuosa intimità, era così trascorsa un’ora e stavamo alle frutta. Di botto, Emilia che mi sedeva vicino, balza in piedi come spinta da una molla. Credo a uno scherzo, mi volto, fo per trattenerla, afferrandole il lembo della veste. Ma qual’è la mia sorpresa, quando alzo gli occhi a guardarla! Emilia stende le braccia in atto pauroso, guarda lontano aguzzando le ciglia, come se tra un albero e l’altro, dal lontano orizzonte, vedesse venire qualche cosa o qualcheduno. Guardo anch’io verso lo stesso punto; niente vedo.
«Che hai, Emilia?» le domando «Ti senti male? che cosa guardi?»
Emilia prima non risponde, poi dice come se parlasse sognando:
«Mio marito! mio marito! vedo mio marito!»
«Eh via!» ribatto io. «Dov’è che lo vedi?»
«Là, guarda. Esce ora dal villaggio… Ha lo schioppo a tracolla. Corre da questa parte».
«Dal villaggio! Ma se c’é più quindici chilometri. Orsù calmati. Si tratta di un’allucinazione».
«No, no! eccolo. Corre sempre. È affanoso. È strano che non mi veda, mentre è di me che cerca. Son qua, Roberto, son qua! Roberto!… Roberto!…»
E così chiamando ad alta voce, disperatamente, mi cadde convulsa fra le braccia e ruppe in singhiozzi.
Mi studiai in tutti i modi di farla tornare in sé e di calmarla. Tutti ci eravamo levati, tutti le stavano intorno con buone parole di persuasione. Anche la bambina, vedendo piangere la mamma, piangeva fra le braccia della balia. A poco a poco, mi venne fatto di scuoterla, di temperare la violenza di quella convulsione.
«Che scioccherie!» dissi, ridendo e carezzandola. «Tanto ti accora il non vederlo?»
Non dubitare, lo avremo qui doman l’altro. T’è passata adesso?
«Sí» rispose con una voce sottile e piena di tremito».
«Non lo vedi più?»»
«No, non vedo più niente.»
«Una bella vista davvero! Nemmeno un cannocchiale ci sarebbe arrivato, tanto più che v’è la collina di mezzo».
«No, te prego» disse «non scherzare lo so che hai ragione».
«Naturalmente».
«Eppure» disse dopo un poco «io l’ho visto. Era lui».
E così dicendo, ricominciava a tremare, ed era pallida come un cencio di bucato.
La ricondussi, facendola appoggiare al mio braccio, fino alle carrozze che ci aspettavano poco discosto. Riprendemmo subito la via di Isernia. Erano le cinque. Arrivammo a casa che la sera era già inoltrata. Ordinai un calmante per la povera Emilia, e dissi a mia moglie che al più presto l’avesse fatta andare a letto. Il riposo le avrebbe giovato.
— Sicché – interruppe Emma – non era vero che avesse visto il marito?
Io mi mise a ridere.
— Con tutto il bene che mi vuoi – dissi – scommetto che quindici chilometri di distanza sarebbero troppi per potermi vedere.
— Chi lo sa? – esclamò Emma. – Non hai inteso il dottore? Non è forse vero, dottore che la nostra Emilia avea visto il marito?
— Eh via! – le detti io sulla voce. – Non capisci che si trattava un un’allucinazione?… Dottore, scusate; non v’interrompiamo più.
Cercavo di assumere un tono leggiero e scherzoso. In fondo, mi tormentava un dubbio infantile e quasi avevo paura che il dottore continuasse a parlare.
Il dottore, che non mostrava essersi accorto di quella breve interruzione, raccolto com’era nei suoi pensieri, riprese a dire dopo un momento:
— Erano le dieci. Di lì a poco saremmo andati a letto, e intanto si discorreva sempre dell’incidente che avea disturbato la nostra gita della mattina. Io ne rideva, e la stessa Emilia, rassicurata in buona parte, ne rideva ogni tanto e si dava della scimunita. Quando siam lì per separarci e darci la buona notte, ci scuote d’improvviso uno squillo violento e prolungato del campanello. Una delle donne di casa corre a vedere chi mai può essere a quell’ora il disturbatore. Sentiamo un grido di esclamazione. L’uscio del salotto si spalanca e Roberto si mostra sulla soglia. Dico che Roberto entra in furia; è polveroso, trafelato, disfatto in viso. Ha lo schioppo a tracolla. Corre difilato verso la moglie. Nessuno di noi ha il coraggio di fiatare, tanta è la sorpresa e starei per dire lo spavento. Egli si china verso la moglie, le parla concitato e a bassa voce, non si cura di noi, in uno stato febbrile. Poi esclama ad un tratto:
«No ti prego, Emilia non dir niente. Sarà una fanciullaggine, ma tu non la dire, te ne supplico».
Emilia, se avesse voluto, non avrebbe avuto modo di dirla. Rideva con allegria sfrenata, tanto da averne le lagrime agli occhi.
«Che è? che è? – esclamammo in coro –. Vogliamo sapere di che si tratta».
«No, no – si opponeva Roberto –. Ma se vi dico che non ne val la pena! non voglio che ridiate alle mie spalle. No, Emilia, taci, Non ne parliamo più. Sarà servito per farmi venire più presto».
«Figuratevi – disse Emilia, frenando a fatica la sua ilarità e parlando a parole tronche – figuratevi ch’egli è venuto qui di tutta la carriera: non ha trovato carrozza pronta; a piedi; avea paura di non vedermi più, né me né la bambina; dice che non potea fare a tempo.
«Non capisco» dissi.
«E sapete chi l’ha fatto venire? – proseguì Emilia, ridendo sempre. – Ve la do a indovinare fra mille. Sapete che visita ha ricevuto ieri sera?»
E senza por mente all’impazienza del marito:
«Ha ricevuto – disse – sua moglie».
«Sì, lo spirito. Se l’è visto entrare in camera; non so davvero come non sia morto dalla paura. Gli ha detto di far presto, di non mettere tempo in mezzo. “Se non parti subito, se non arrivi laggiù prima di notte, non vedrai mai più né tua moglie, né la tua bambina…” »
Emilia rideva sempre, e noi tutti ci unimmo a lei. Il povero Roberto era mortificato. Diceva di tanto in tanto, come per schermirsi:
«Ma se vi dico che io l’ho vista! proprio io! con questi occhi!» Poi, si dava anch’egli a ridere, ma lo faceva, com’ebbi a notare, con un certo sforzo. Si protrasse così la nostra veglia fino alla mezzanotte. Il buon umore era tornato in tutti, meno forse in me, che non mi rendevo ragione sufficiente degli strani fatti della giornata. A mezzanotte in punto, ciascuno di noi prese la via di camera sua. Io lessi un poco, come ne ho l’abitudine, prima di addormentarmi. Ma ero stanco, con tutto che una certa inquietezza mi travagliasse. Non lessi che mezza pagina di un romanzo noioso. Richiusi il libro, spensi il lume e appoggiai la testa sul guanciale.
Erano forse passati dieci minuti o quindici, non so bene, né ancora ero bene addormentato, quando fui scosso di soprassalto da un violento bussare all’uscio di camera mia. Mi alzo nel mezzo del letto. «Entrate!» dico. S’apre la porta, entra in fretta con in mano una bugia una delle donne di casa, chiama con voce affanosa: «Dottore! dottore!» Non rispondo subito. Ho incatenato la lingua da una forza misteriosa. La donna insiste vuole che mi alzi subito, affolta le parole. Appena riesco a coglierne qualcuna, a indovinarne il significato. Rabbrividisco. La signora, la bambina… Chi signora? chi? Pare che si abbia bisogno di me. Credo di aver capito che si tratti di Emilia. In un lampo sono in piedi, mi precipito fuori della camera, traverso due o tre stanze, respiro. Emilia mi viene incontro, proprio lei. Mi afferra pel braccio, mi trascina verso il letto, dove la bambina era coricata. «Salvala! – dice – salvala! la mia angioletta se ne muore!»
Infatti, era ghiaccia. Avea livide le occhiaie, lividi i ditini. Si torceva in uno spasimo.
«Calma, calma! – pregai –. Speriamo che non sia nulla. Vedremo. A tutto c’è rimedio».
«Non sapevo quel che mi dicessi. La madre si curvava con tutto il corpo sul corpicino della sua creatura, quasi volesse scaldarlo con la violenza del suo amore. Non piangeva; tremava tutta da capo a piedi. Alle mie parole si scosse un poco, ma non le balenò sul viso nemmeno un pallido raggio di speranza. Roberto era accorso in quel punto; anche mia moglie; tutta la casa era sossopra con un andare e venire frettoloso e tacito.
Apprestavo le prime cure: della neve, del laudano. Ordinai un bagno caldo. I sintomi erano di un male terribile. Né il male mostrava di voler cedere. In uno dei più violenti parossismi della bambina, mi sentii prendere pel braccio. Mi voltai impaziente. Era Emilia. Mi disse con voce tranquilla:
«Sai, sono stanca. Qui c’è troppo fracasso. Mi duole il capo. Vado un po’ di là a riposare».
E senza aspettare altro, si allontanò con passo lento e abbandonato. La seguii con gli occhi, la vidi sparire in fondo al corridoio. Come mai, e perché e con che forza, s’era staccata dalla sua creatura morente? La bambina moriva; respirava appena; era irriconoscibile; me la sentii spirare fra le braccia. Eppure, non n’ebbi quel gran colpo che mi aspettavo. Mi tormentava non so che sospetto, mi bruciava una febbre. Domando di Emilia. La cerco per tutta la casa, la chiamo, sono guidato da un lamento fioco e lontano. Spingo un uscio, entro, la vedo giacente sopra un letto.
La terribile verità mi balena ad un tratto. Lo stesso male ha attaccato la mia povera sorella. Ho appena il tempo di abbracciarla, a stento le riesce di dirmi addio, sbarrandomi gli occhi in viso con un sguardo vitreo e profondo, pieno di spavento e di amore. La povera Emilia era morta.
Il dottore tacque asciugandosi una lagrima. Emma piangeva. Forse nella sua squisita suscettività, vedeva presente quel pauroso spettacolo di morte, e vedeva anche, mille volte più pauroso, quel marito che accorreva affannoso dal suo paesello, vedeva la stessa visione della povera donna, vedeva l’anima di quella prima moglie entrare silenziosa in camera di lui, fargli cenno, ingiungergli di partire all’istante. Era atterrita. Io non osavo aprir bocca.
Il dottore soggiunse semplicemente:
— E quelli furono ad Isernia i due primi casi di colera…Addio, figliuoli miei, mi sono trattenuto anche troppo. Gli ammalati mi aspettano.
Avrei voluto ringraziarlo e scusarmi. Non ne trovavo il modo. Lo rincondussi.
— Dottore – gli domandai – tornerete domani?
— Sì, sì a domani, a domani.
E il dottore Antonio Cardarelli mi strinse la mano con forza e si allontanò gravemente.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Le due mogli
AUTORE: Federigo Verdinois
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Racconti inverisimili di Picche (Federigo Verdinois) - Casa Editrice Artistico-Letteraria ; Napoli, 1886.
SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici