Il sepolto di Vodena

di
Carlo Dadone

tempo di lettura: 20 minuti


Carlotta Voulicevick, mia moglie, era allora mia fidanzata, quindici anni or sono. Io ne avevo ventidue, lei diciannove, e ci amavamo con tanto ardore, ed avevamo lottato con sì indefessa costanza per indurre i nostri genitori a fidanzarci, che, finalmente in procinto di essere uniti sposi per sempre, ci pareva di aver raggiunto ogni possibile felicità.

Ci vedevamo tutti i giorni; la signorina Carlotta veniva a casa mia, od io mi recavo a casa sua; però una volta alla settimana avveniva ch’io, per quasi un giorno intero non la vedevo, quando cioè lei tutta sola si recava lassù, lontano, alla Rocca Zombraja, sull’aspra montagna selvosa a far la consueta visita settimanale all’arcigno e misantropo suo nonno Mirku. Allora l’aspettavo verso sera in capo al monte sul Gorgonscìa, e facendo insieme il resto della strada, l’accompagnavo a casa attraversando la nostra cara, antica cittaduzza di Vodena.

Una sera l’aspettai invano: ella non ritornò. Quando anche i suoi parenti, trepidando ansiosi, risolvettero di uscire per andarle incontro, chè già eran sonate le ventidue, mi trovarono ancora là, in capo al ponte, ad aspettare, oramai vinto da una inquietudine tanto più dolorosa in quanto che, non sapendo prevedere per qual sentiero la fanciulla potesse ritornare, non avevo osato moverle incontro.

Certamente era accaduta una disgrazia; e la mamma di Carlotta, come fuori di sè e smaniando correva su pei sentieri scabri, nella notte buia, a mala pena illuminata da uno spicchio di luna pronto a tramontare, e noi, – il babbo della mia fidanzata, il fratello di questa, altre persone e me – la seguivamo su su, arrestandoci di tratto in tratto per gridare al vento il nome della smarrita figliuola.

Il babbo andava ripetendo:

— Se non fosse convenuto che la nostra Carlotta a nessun costo debba mai fermarsi, di notte, lassù dal nonno Mirku, non saremmo in così terribile ansia!

Dopo una febbrile, faticosa salita di tre ore, si giunse, ansanti, quasi sulla vetta estrema della rocca Zombraja, dove fra gli abeti, in un tugurio, viveva solitario il misantropo nonno Mirku. Svegliatolo e chiestogli di Carlotta, non dimenticherò mai quella sua faccia colpita da angoscioso stupore, quel suo volto terreo illuminato dalla lampadina ad olio che il vecchio teneva in mano.

Protestò subito che, come sempre, sulle ore sedici sua nipotina Carlotta se n’era partita scendendo il monte; e lui, con lo sguardo, l’aveva seguita per il sentiero fino al salto delle Linci.

Allora più nessuno dubitò che non fosse accaduta una disgrazia; e giù pel monte, in ogni forra, in ogni fratta, e nei crepacci e nei burroni, cominciammo le ricerche; e gridando e brandendo le improvvisate torcie resinose, le continuammo inutilmente fin che l’alba imbiancò il cielo e l’aurora ci vide stanchi e sfiniti.

Pur non ebbimo riposo tutto quel giorno, fin che potemmo dire con certezza: assolutamente nella montagna non c’è più, nè viva, nè morta.

Unico indizio del passaggio di lei, o che almeno ci parve tale, fu l’avere trovato, su l’orlo di un precipizio ed ai piedi di un rozzo, antichissimo tratto di muro ciclopico, un mazzolino di artemisie: gli umili fiori prediletti da Carlotta, forse còlti da lei stessa. Ma in fondo al precipizio, dove abbrividendo ci protendemmo a guardare, fortunatamente non vedemmo nulla.

Il mistero di quella scomparsa era tanto più terribile in quanto che non potevamo fare neanche la più lontana supposizione per avere speranza di spiegarlo! Sarebbe stato follìa immaginare che la mia fidanzata fosse fuggita; e più ancora supporre un rapimento; neanche ad un delitto si poteva seriamente pensare… e pure, e pure… vi fu un momento in cui pensai, con raccapriccio, a nonno Mirku, a quello strano e fosco misantropo che viveva lassù, solitario come un vecchio orso della foresta. Forse che egli non odiava implacabilmente, e per motivi ch’io allora non conoscevo, i suoi parenti? E la stessa cieca predilezione ch’egli mostrava per la mia Carlotta, non poteva sembrare equivoca? Ah, il nonno Mirku era creduto ricco; certo il solitario eremita doveva aver seppellito chi sa mai quali tesori nel suo tugurio! E la povera mia fidanzata, in predicato di presunta erede, con le sue visite settimanali, impostele dal babbo e dalla mamma, doveva conservare intiera per sè la benevolenza del vecchio misantropo.

Che giorni tristi furono quelli, Dio mio!

Avvertite le Autorità, il Mokarik con una squadra di Sapiek perlustrò la montagna, interrogò Mirku, fece una lunga e severa inchiesta, e non iscoprì nulla. Non dirò della disperazione dei parenti di Carlotta; quanto a me ero affranto; quel mistero pauroso era più forte della mia ragione, e furonvi momenti in cui temei d’impazzire.

Passarono così tre mesi. Non so come vivessi. Se prima i liquori mi facevano gola, ma da essi non mi lasciavo vincere che assai raramente, ora invece bevevo, bevevo sempre senza scrupoli e senza misura, e fuggivo la solitudine come tormento insopportabile, e con amici – ero pazzo, ero vinto dalla disperazione! – traevo di orgia in orgia consumando ogni mio avere, con infinito dolore della mia povera mamma.

Una notte, una sottile e tiepida notte di ottobre, dopo una delle solite orgie in casa di un amico, usciti tutti all’aperto, amici ed amiche, uno di noi gridò:

— Al cimitero! Una visita ai morti ci farà più lieti di esser vivi!

Qualcuno di noi forse trasalì, ma nessuno volle apparir pauroso; soltanto le donne – erano in quattro – via via che si attraversava la piccola città addormentata, rallentarono il passo e quindi scomparvero lasciandoci soli. Uscimmo così in aperta campagna, e per la stradetta costeggiante il Gorgonscìa, fra le quercie secolari, nel buio cupo, quasi a tentoni e barcollando, giungemmo al vetusto cimitero di Vodena. Esaltati dalle copiose libazioni come eravamo, volendo l’un l’altro emularci nell’impresa tristemente macabra che in quell’istante ci pareva eroica, scavalcammo i cancelli chiusi, ed entrammo nel cimitero.

Seduti in giro sui gradini di una vecchia tomba, tosto cominciammo a narrare storie lugubri di fantasmi, a ridere, a scherzare mostrandoci a vicenda immaginarie apparizioni, finchè illanguidendo poco a poco l’ebbrezza, morì la voglia di scherzare per far posto ad un principio di sgomento che finì col renderci muti.

E poi, e poi che cosa avvenne? Com’è che io mi addormentai su quei freddi gradini e mi svegliai poco dopo, tutto solo e spaurito di trovarmi fra quelle tombe, in quel vecchio cimitero, come se il luogo mi riuscisse nuovo ed il fatto impreveduto?

Non ricordavo nulla, o almeno un fitto velo mi nascondeva il recentissimo passato. Alzatomi tremante, pensai d’uscir subito di là; ma avvicinatomi ai cancelli non potei più capire come avessi potuto dare la scalata a quelle punte aguzze, minacciose come tante spade; e per quanto un’invincibile paura mi spingesse a fuggir subito, capii tosto che mi era impossibile.

Mi volsi. In fondo, nel buio, nell’angolo a tramontana dopo le tombe dei Zelima, e accanto al porticato in rovina dell’attiguo convento abbandonato, sorgeva la casupola del custode; ma questi sapevo che dormiva sempre in città, in casa d’un suo genero. Ad ogni modo risolvetti di entrare in quella casetta per vedere di trovare, se possibile, le chiavi dei cancelli; quindi, attraversato il cimitero fra le tombe, passato sotto il viale delle simmetriche conifere, non senza palpitare e raccomandandomi a tutto il mio coraggio accesi un fiammifero ed entrai.

Due piccole stanze: un contrasto rude di mobili antichi, ben conservati, e di picconi, vanghe, pale, seghe e funi; su d’un tavolo una brocca, due bicchieri, una candela spenta ed un mazzo di chiavi. Con il fiammifero ancora vivo accesi la candela, presi il mazzo di chiavi e stavo per uscire quando, in fondo allo stanzino, coperto quasi da alcune tavole appoggiategli contro, vidi un uscio, uno strano uscio rozzamente intagliato a bassorilievi di palme e teschi, che doveva essere l’ingresso ignorato o trascurato di qualche parte del convento antico, a ridosso dell’alloggio del custode.

Un’indicibile curiosità tosto mi vinse. In quella casupola avevo avuto occasione d’entrare parecchie volte, chè conoscevo molto bene Callupolo, il custode del cimitero; pure quell’uscio non lo avevo mai veduto quantunque le rovine del convento le avessi altre volte esaminate, studiate, quasi direi anatomizzate!

Senza darmi alcun pensiero, lusingato dalla speranza di poter fare qualche strana scoperta, rimossi le tavole appoggiate al vecchio uscio, e ne esaminai la massiccia serratura arrugginita provando se per caso vi fosse stata, nel mazzo preso poco prima da sopra il tavolo, la chiave adatta.

Non c’era; ma con una potei ad ogni modo forzare la serratura; poi con l’aiuto di un piccone che mi servì di leva scassinai l’uscio che cigolò spalancandosi sopra una scaletta nera, stretta, assai ripida. Mi sfiorò il viso un freddo umidastro, che mi fece rabbrividire; esitai un istante, perplesso, ma poi quel buio nero parve darmi le vertigini sì che, riesaminato l’uscio nella tema che potesse richiudersi da sè alle mie spalle e seppellirmi vivo, scesi con la candela accesa in mano per non so quanti scalini, giù, in una cripta nera, nelle cui pareti stavano infisse diverse lapidi mortuarie.

— Un sepolcreto! – mormorai deluso – forse quello dei padri priori del convento.

Alzai la candela e lessi qualche iscrizione…

Ad un tratto trasalii; una di esse in certo linguaggio misterioso, a chiave, ch’io solo ben conoscevo per averlo studiato e decifrato in un’altra iscrizione famosa del convento stesso, mi colpì come un’improvvisa rivelazione. La lessi meglio; palpitando la meditai un istante, e poi, rifatta in furia la scaletta, impadronitomi di un piccone e ridisceso nella cripta, senz’altro rimossi la tavola di marmo dell’iscrizione, staccandola: abbattei un tratto di sottile parete, e nel vano aperto, in un’ampia nicchia, scopersi una ricca bara di metallo grigio-piombo, con borchie dorate, che pareva stranamente nuova. Continuai allora più febbrilmente ad allargare l’apertura della parete, finchè scopersi intera la bara; e su questa, in una piccola targa, lessi un’altra iscrizione, interessantissima e straordinaria per me, come a complemento di quella letta poco prima nella parete.

Oh sì, lo confesso: rimasi in forse non so quanto tempo! Contemplavo quella bara, ed un misto di angoscia, di sgomento e d’invincibile curiosità mi conquise. Tremavo verga a verga…. Avrei voluto fuggire, come davanti ad un imminente pericolo; ma poi con risoluzione improvvisa mi provai a scassinare quella bara e ad alzarne il coperchio poco a poco, dopo aver rotte le arrugginite e debolissime cerniere.

Il coperchio, infine, cadde da un lato; alzai la candela illuminando l’interno della bara; guardai dentro, ed a traverso di un limpido cristallo vidi un uomo vivo, bello, roseo, con barbetta e baffi neri, che mosse gli occhi e mi guardò fisso.

I capelli mi si rizzarono, un freddo sudore mi bagnò le tempia, mi piegai, gemendo, e vidi rosso per un istante; poi, non so come, mi riebbi e di nuovo guardai nel sepolcro; ma, impressione strana che non mi saprei spiegare, ad un tratto non ebbi più paura, e riguardai a lungo quell’uomo che aveva completamente spalancati i grandi occhi neri. Affatto immobile, era vestito da capo a piedi alla foggia della prima metà del secolo decimottavo: cappello di velluto nero a tre punte, gallonato d’oro; mantello di scarlattino rosso, giustacuore di raso color oliva, camiciola di trine con bottoni d’argento, corpetto di bambace bianco, calzoni di velluto nero, calze nere, scarpe di marrocchino con fibbie d’oro ed una ricchissima spada al fianco. Non sapevo staccare lo sguardo, meravigliato di quella freschezza vivace di colori sotto al nitido cristallo, senza saper pensare a niente, come in un museo entro una vetrina avrei guardato un oggetto raro.

Ma poi, ritornando in me poco dopo, ripreso da ansia mortale mi sentii affascinato da quegli occhi spalancati, vivi, immobili, ansiosamente supplicatori; ond’io tremante mi ripiegavo sulla bara, quando il sepolto, alzata adagio adagio la mano destra, bianca, scintillante di anelli gemmati, con le nocche delle dita battè tre volte sul cristallo…

Chi può ridire le sensazioni infinite che in certi casi straordinarî può provare l’anima umana? Se dicessi che in quell’attimo feci cento e cento ragionamenti, non sarei creduto; e pure furono questi ad infondermi forza e coraggio, a far sì che subito comprendessi il richiamo del sepolto, interpretandolo come il principio di una risoluzione.

Così fu che febbrilmente cercai di aprire quel cristallo; tolsi quattro viti, feci scattare le molle e finalmente riescii ad alzarlo da un lato, lasciandolo ricadere sul coperchio della bara.

Come tocco da corrente elettrica il corpo del sepolto si riscosse in un lungo fremito; il suo volto si fece cadaverico; un poderoso respiro gli sollevò il petto, e poi, aspirando a pieni polmoni, per alcuni minuti fin che il roseo di prima gli tornò sulle guancie, senz’aiuto alcuno si alzò a sedere nella bara, guardandomi tranquillo, sebbene con molta curiosità, come se si fosse svegliato nel proprio letto dopo una lunga notte di riposo.

Ad un tratto quelle sembianze che riacquistavano intiera la loro vita le riconobbi: un lampo di luce improvvisa, e mormorai:

— Il principe Sako Romanovitk!

— Come, mi conosci tu?

— Ho veduto molte volte il vostro ritratto nel castello di Polnaja-Zobra: ho anche letto e spiegato il motto del vostro stemma… Foste alchimista celebre nella prima metà del secolo scorso… Ma come mai qui vivo?… Ditemi che non siete un fantasma…

Il risuscitato sorrise, benigno; e alzata la destra e posatala sulla mia spalla rispose:

— No, non sono un fantasma: sono perfettamente sano e vivo come te. E ora, dimmi: in che anno viviamo?

— Nell’anno milleottocentonovantacinque.

— Ho dormito dunque centoquarantaquattro anni; non è molto; nei rari momenti di veglia, nel torpore buio ma pur tanto tranquillo della mia tomba pensavo che gli anni a me sarebbero passati a migliaia prima che qualcuno, aprendomi la bara, potesse risuscitarmi e farmi uscire da questa cripta del convento di Vodena… poichè mi hanno sotterrato nel convento dei Misnùh di Vodena, non è vero? Ed i frati?

— Tutto in rovina: i frati non ci sono più… Ma come siete vissuto, voi? Non è un sogno il mio? E se non sogno com’è che mi conservo così tranquillo dinanzi a questo prodigio pauroso? Vi supplico, ditemelo: sono io desto, perfettamente desto?

Il principe di nuovo sorrise. Con molta leggerezza uscì dalla bara e dalla nicchia facendo tintinnare la spada, e in piedi a me dinanzi, più vivo che mai, fiero e bellissimo, mi domandò per qual ragione ero entrato là dentro, e per quale straordinaria ispirazione avuta lo avessi liberato dalla tomba.

Dissi ogni cosa, e quando seppe ch’io avevo interpretate e decifrate a maraviglia le famose iscrizioni sulla lapide e sulla bara, stupì grandemente.

— Ed ora, possiamo uscire subito all’aperto?

— Sì, Eccellenza… Ma dove andiamo? Ritornate nel mondo?

— Ah no! Anzi, nessuno dovrà vedermi, e tu stesso tacerai con tutti l’avventura. Io ritornerò invece nella mia diabolica officina sulla Rocca Zombraja, e annienterò in me ogni materia, non ripetendo più l’errore che mi valse centoquarantaquattro anni di tomba!

Non udii altro se non «Rocca Zombraja» e come ritornando alla vita vera, pur rimanendo stranamente in quella che mi pareva un sogno, ricordai ad un tratto lei, la mia Carlotta, la sua scomparsa; e poichè il dolore di quella perdita mi punse più vivo lacerandomi il cuore, con voce tremante ed impallidendo balbettai:

— Sulla Rocca Zombraja!…

— Sì, là, fin che ci protegge il buio della notte… Ma perchè hai trasalito? Perchè tremi ora? Di’, su: la mia officina… la Rocca Zombraja…

In poche parole narrai ogni cosa di me, e della scomparsa misteriosa della mia fidanzata.

Il principe Sako Romanovitk aggrottò le sopracciglia lisciandosi la barba nera, e mormorò:

— È necessario che andiamo subito là: hai detto che ai piedi del rozzo muro ciclopico, sopra l’abisso, trovasti un mazzolino di fiori di lei, e non la giovane?… Ah, credo d’intuire… Non sai niente altro? Non s’è mai saputo nulla… di alcun mistero, alla Rocca Zombraja?

— Non vi capisco: so di un mistero solo: della scomparsa di lei, della mia povera fidanzata!

— Usciamo subito subito. Prendi quel lume. Hai le chiavi? Per dove si esce?

— Attraversando l’antico cimitero.

Salimmo la scaletta, richiusi l’uscio con assai cura, mettendo ogni cosa a posto, tolsi il mazzo di chiavi, attraversammo le due stanzette del custode, e poi ch’ebbi spenta la candela mettendola in tasca, uscimmo all’aria aperta.

Credo sarà stata la una dopo mezzanotte.

Nell’azzurro cupo del cielo, quasi nero, scintillavano tremolanti innumeri stelle. Traversato il cimitero, apersi il cancello lasciando le chiavi nelle serrature.

Ah, quella fantastica marcia notturna! Lui, il principe Romanovitk, vestito a quella foggia pittoresca, scintillante di ori, mi camminava accanto come un fantasma, visione straordinaria di un tempo passato; ed io, pigmeo brutto e prosaico ne’ miei abiti moderni, umile e pauroso, non osavo guardarlo, non osavo parlare.

Girammo al largo la città, per sentieri nascosti, e passato il Gorgonscìa sopra il ponte di legno presso i molini di Zimba, cominciammo l’erta salita di Rocca Zombraja.

— Fai bene a tacere, – disse il principe. – Tu potresti dirmi i passi da gigante certamente compiuti dalla civiltà in questi centoquarantaquattro anni, ma io non voglio sapere nulla di nulla. Vedo bene quei lumi che brillano laggiù, come piccoli soli: è una luce nuova…. Quante, quante cose nuove ci saranno! Soltanto, se sai la storia del mio paese, – e la voce del principe-alchimista tremò leggermente – dimmi: come visse e come morì mio figlio Olenos-Xemusi?

— Visse male, e morì di veleno, senza figli.

— Ah, l’avevo preveduto! Estinti i Romanovitk! Ma che importa? Sono io forse estinto? È forse estinta l’anima mia possente, il mio genio audace che seppe conservarsi vivo nel corpo in cui s’era fermata la vita, il moto degli atomi e delle fibre, lo scambio incessante della materia? Un arrestarsi muto, saldo, come materia ferma fuori dal mondo! Tu non puoi comprendere il miracolo di scienza ch’io compii centoquarantaquattro anni or sono; e pure questo miracolo fu un errore. Non questo, non l’incorruttibilità vivente del mio corpo io volevo compiere, no: era invece la distruzione immediata di esso, sì che il mio spirito, la mia anima, immediatamente potesse trasmigrare purissima nel seme primo di un nuovo nato…. Il motivo? Ma non sai tu la verità infallibile che le nostre anime immortali trasmigrano sempre da un corpo umano in un altro, e via via trasmigrando più e più si purificano, s’innalzano ad intelligenza sempre più grande, fino al raggiungimento di un’alta genialità sublime? Ora io, che segretamente avevo fatto scoperte meravigliose, che sentivo grande l’anima mia e sapevo formidabile la potenza del mio genio, potevo io pensare che morendo sarei trasmigrato in un nuovo corpo diventando più grande e più geniale ancora, senza provare il desiderio frenetico di abbreviare la mia vita materiale per affrettare la rinascita?

«Ma intanto avevo scoperto e sapevo che per accelerare questo trapasso avrei dovuto distruggere il mio corpo ad un tratto, fulmineamente: così, e non altrimenti il mio spirito sùbito avrebbe trasmigrato nel germe iniziale di un bambino concepito in quell’istante in un punto qualsiasi del mondo; ed in grandezza geniale quel bimbo avrebbe superato me stesso…. Mi comprendi? Per giungere all’assoluto, istantaneo annientamento della materia dovevo trovarne il modo; e fu allora che mi dedicai tutto alla nuova idea, e scopersi il mezzo di farla trionfare… Un miracolo di alchimia scoperto il quale per poco non impazzii di gioia! Eppure all’ultimo istante, quando nel mio laboratorio, lontano dal mondo, mi immersi nel prodigioso etere di vita e di morte, causa un errore di calcolo che non seppi prevedere nè evitare, eternai invece la mia anima dentro l’involucro corporale diventato incorruttibile. Accortomi della trasformazione non voluta, pazzo d’angoscia, fuggii dalla mia officina e giunto sulla soglia del mio castello caddi morto, morto per gli altri, non per me, chè in me si era fermata la vita, fermata la corruzione, lo scambio di materia, il movimento molecolare… come una clepsidra che dopo secoli e secoli, capovolta, segnerà, ancora il tempo.

«Nella bara ch’io stesso in altri tempi mi ero fatta preparare, con l’idea che, imbalsamato, il mio cadavere si sarebbe potuto conservare intatto per sempre, nella bara a chiusura ermetica che tu hai visto, fui chiuso e sepolto; e se tu, interpretate le iscrizioni misteriose, non fossi venuto a me, io dormirei ancora….

«Ora, hai tu coscienza della terribile mia situazione? Se io non ritrovo la mia officina dovrò rivivere nel mondo, in un mondo nuovo che non conosco; dovrò rinascere… a quarantacinque anni! E per non mai più morire! Ma non voglio, no; ritroverò il santuario delle mie scoperte; non isbaglierò più di un solo atomo i miei calcoli, e con i tuoi occhi mi vedrai…

S’interruppe; eravamo giunti presso il tratto di muro ciclopico, sopra l’abisso, dove avevo trovato il mazzolino di Carlotta; il pensiero di questa più non mi aveva lasciato dal momento in cui, attraversato il Gorgonscìa, avevamo impresa la scabra salita della Rocca. Sempre come in sogno e senza quasi capir nulla avevo ascoltato la narrazione, che m’era sembrata pazzesca, del principe Romanovitk. Di essa mi restava negli orecchi solo un sordo ronzìo, e nel cervello un torpore di rassegnazione fatalista che non saprei definire.

— È qui – mormorò il principe-alchimista fermandosi. – Passiamo dietro al muro, così….. Guarda questo enorme macigno…. ecco, qui, sotto… non vedi questa fenditura? Ebbene, sta attento…

Come un incosciente aspettavo senza sapere che cosa; nella notte profonda, là, sulla tetra montagna, fra quei massi ciclopici, confusamente vedevo moversi e udivo ansare quel personaggio non di questo mondo: quel fantasma vivo, reale, che era mio innocuo compagno e mi aveva parlato, toccato….

— Qualcuno venne qui, cercò e forse entrò! – gridò con voce sorda il principe. Udii un suo gemito, lo vidi palpare più febbrilmente il macigno nella fenditura, e poi ritrarsi un momento, perplesso. – Oh, guai, guai se fosse accaduto quanto temo!

Ma nello stesso istante, ad un altro tòcco della mano di quell’uomo, il macigno scivolò dolcemente, non so come, da un lato, inclinandosi; e dinanzi a noi si aperse l’entrata di una caverna.

— Accendi il lume, presto! – m’impose il mio compagno. – Hai la pietra focaja e l’esca? Giù, troveremo ben altra luce!

Nemmeno pensai di rispondergli che pietra focaja ed esca eran diventati lontani ricordi; accesi la candela che avevo recata, e giù per rozzi scalini tagliati nel masso vivo, scendemmo guardinghi fino ad un breve corridoio facente capo ad una massiccia porticina spalancata, oltre la quale era buio nero, profondo.

Il mio compagno si arrestò di botto.

— Sì, qualcuno è entrato qua dentro, e di recente. Guarda lì, per terra, sul masso; ancora vi sono goccie di cera…

Mi afferrò per un braccio togliendomi di mano la candela, e varcammo la soglia.

Vivessi mill’anni non dimenticherò mai quanto vidi là dentro; gli ordigni più inverosimili ed incomprensibili, differenti l’uno dall’altro, con lunghe braccia e ritorte cannuccie e strani tentacoli, tutti appesi al masso della vòlta; poi nicchie nel masso delle pareti, ed in esse fiale, barattoli, alambicchi, vasche, cassette; ed in giro tre fornelli con suvvi molti crogiuoli, ed ancòra, sopra un tavolo di pietra, una specie di pila con rocchetti di forma più che insolita, originalissima, tutta munita di lunghe punte aguzze come un istrice.

— Niente di guasto, mi sembra, è ancora tutto in ordine, come ne fossi uscito ieri, – disse il principe con un sospiro di sollievo; – ora vediamo se ritrovo la mia luce.

Mosse ad un secondo tavolo, in un angolo; aperse una cassetta, e come se da questa avesse tolto per prodigio la luce del giorno, la buia caverna s’illuminò intensamente, meravigliosamente di una paurosa luce senz’ombre, che penetrava i corpi…

— È la mia luce fredda, il vero principio della luce eterna. Guarda: questo che è chiuso entro una fitta rete di metallo neutralizzato, ti pare un sasso, un ciottolo, non è vero? E neanche sembra troppo luminoso in sè, perchè la sua luce la espande indirettamente, per mezzo di raggi ignoti, dei quali cioè non conosco la natura; che attraversano i corpi opachi, se ne togli il rame foderato di steatite di cui è fatta la cassetta… Ma non ti voglio spiegare altro; è inutile sprecare un tempo prezioso. Dietro quella pesante portiera in maglie d’acciaio, è un’altra sala; in quella compirò il mistero sotto i tuoi occhi senza sbagliare; entrerò nel circuito che mio malgrado mi diede l’incorruttibilità fermando in me la vita per centoquarantaquattro anni, e questa volta invece fulmineamente mi darà la morte, eterizzando il mio involucro mortale. Così la mia anima, purificata e più grande e immensamente radiosa di genio, entrerà, istantaneamente, in un corpo nuovo: fra vent’anni poco più poco meno, tu saprai di un gran genio manifestatosi che meraviglierà il mondo, quel genio sarò io. Che cosa sono mai tutte le invenzioni e le scoperte da me fatte e rimaste qui ignorate in confronto di quanto farò poi? Un nulla! Ed ora vieni!

— Un momento! – gridai atterrito come riavendomi un istante dal mio sogno, non osando quasi guardare il principe che pareva, trasfigurato, grandeggiare in quella luce senz’ombre. – Come farò poi, io, ad uscir di qui?

– È vero: tu sei ancora di questo mondo. Vedi quella piattaforma di rame, poco alta dal suolo? Vi salirai sopra e ciò basterà per ritornare nel mondo. Ed ora, ti ripeto, vieni.

Tolse in mano la lampada a luce fredda, alzò con fatica la portiera a maglie d’acciaio, ed entrammo in una seconda sala.

Ma ancora non avevo varcato la soglia che un grido pazzo di gioia mi uscì dalla strozza.

Carlotta era là, viva, bella, rosea, in piedi sopra un cerchio che sembrava di metallo; era là, immobile come una statua… Nel vedermi non mosse fibra e neppure gli occhi…

Me le sarei precipitato contro se il principe-alchimista non mi avesse trattenuto a viva forza, gridandomi imperiosamente:

— Pazzo che sei! Hai ritrovato la tua felicità ed altro non curi, in questi istanti che per te dovrebbero essere sublimi? Dì, vuoi tu, come lei, che è entrata qua dentro per un caso inconcepibilmente straordinario, vuoi tu come lei immaterializzarti, pur conservando la tua materia diventata incorruttibile ed eterna?

— No, no! – risposi, fuori di me. – Voglio lei viva, mortale quanto me; la voglio come prima! La voglio mia, mia!

— L’avrai.

E sorridendo mosse verso il cerchio magico, dopo aver posta sopra un tavolo di pietra la lampada a luce fredda. Intorno, dalle pareti e dagli oggetti straordinarii che non mi curavo di guardare, brillava una seconda luce non meno misteriosa dell’altra.

Il principe si chinò, toccò una punta del cerchio magico il quale sprigionò una corona di scintille verdi, e rialzatosi, presa per mano la mia Carlotta, la fece uscire dal cerchio stesso, scendere, movere alla mia volta, fra le mie braccia…

Ma in quell’istante, non so come, sentii che lei non aveva l’anima, che ancora era rapita nel suo sogno: l’affanno, l’angoscia, la disperazione stavano per vincermi quando il principe-alchimista mi trattenne con uno sguardo – l’ultimo di quegli occhi incantatori – e mi disse, con voce che mi parve divina, fremente di suprema commozione:

— Rammentati della piattaforma di rame; e pensa a me da qui a vent’anni, quando un genio meraviglioso scuoterà il mondo dalle sue fondamenta; ed ora, guarda!

Si chinò una seconda volta, mentre io, inconscio, anelante, tenevo stretta la mia Carlotta; ritoccò la punta del cerchio magico, sprizzarono nuove scintille, si alzò una colonna di luce violetta, ed il principe Romanovitk, entrato in essa, sparì fulmineamente mentre pure spariva il cerchio magico. La luce senz’ombre moriva poco a poco; un rombo arcano parve scuotere la grotta, ed io, oramai vinto da indicibile spavento, alzata fra le mie braccia Carlotta, corsi nella prima grotta, balzai sulla piattaforma di rame… e poi?…

Ricordo in confuso: come un tuono enorme, uno sprofondar di macigni, ed in alto, sopra le nostre teste, il cielo purissimo, stellato…

Fine.


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TITOLO: Il sepolto di Vodena
AUTORE: Carlo Dadone

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La forbice di legno / di Carlo Dadone. - Nuova ed. economica. - Milano : F.lli Treves, 1911. - 229 p. ; 20 cm. - (Biblioteca amena ; 817).

SOGGETTO: FIC015000 FICTION / Horror