Giulio Rossello

di
F. Ramognini

tempo di lettura: 20 minuti


I

In mezzo a un ampio bacino formato da una gran cerchia di monti, di collinette amenissime, piantate di viti e tutte sparse di case, dove la robustezza degli uomini, il roseo colore e la vivacità delle forosette, e una precoce svegliatezza di mente ne’ fanciulli attestano la salubrità dell’aria pura ed attiva, giace il cospicuo luogo di Sassello, lontano trenta circa miglia da Savona, sua città provinciale. Questo territorio, che veniva dipinto dal Bruvsoni come uno dei piú belli e dei piú ricchi fra quanti ne avesse la repubblica genovese di qua dai monti sui confini del Monferrato e delle Langhe, fu primamente posseduto dai marchesi di Ponzone, antica ed illustre famiglia Aleramica. Successivamente passò, non è chiaro in qual modo, alla repubblica genovese, ed a questa venne usurpato, insieme ad Oneglia, dai Signori D’Oria nel 1332, secondo narra l’Accinellinota 1, cioè nel tempo stesso che, pei torbidi suscitatisi, i signori Spinola si impadronirono di Busella, e di varii castelli adiacenti, di Monaco i Grimaldi, e i Fieschi di Varese con tutte le comarche della riviera di Levante. Anche il paese di Sassello, che i D’Oria tennero come mero allodio per piú d’anni trecento, ebbe a provare le funeste conseguenze delle discordie cittadine; perocché mentre ribollivano in Genova le fazioni degli Adorno e dei Fregoso, i D’Oria, che parteggiavano per questi, si ritirarono nel loro feudo, ove stettero per lungo tempo in assedio. Le cose però terminarono colla peggio degli Adorno, poiché gli assediati irrompendo all’impensata li sgominarono, e voltili in fuga gl’inseguirono fin sopra Varazze.

Sul finire del 1600 il principe Gio. Andrea D’Oria, considerando di quanto vantaggio gli sarebbe stato l’acquisto di Sassello per la sua vicinanza allo stato della repubblica e per gli estesi suoi boschi, dove poteva largamente provvedersi di alberi ad uso delle galee, tentò di comprarlo, ottenutone in prima l’assenso del serenissimo senato, atteso il divieto fatto ai nobili genovesi di comprar feudi vicini allo stato della repubblica. I consignori Paride e Stefano D’Oria consentirono a questa vendita, ponendo in contratto la clausola che dovesse intervenirvi anche l’approvazione dell’imperatore d’Alemagna quatenus de iure sit, come quegli che nel 1564 aveva accettato la tutela del feudo ad instanza dei medesimi D’Oria. Mentre questo avveniva, i Sassellesi discutevano le loro ragioni nella camera aulica onde far dichiarare i D’Oria decaduti da ogni diritto per abuso di potere, come successe difatti; quindi Sua Maestà cesarea, ben lungi dall’aderire alla vendita, confiscò il feudo, e vi mandò in qualità di suo commissario imperiale, il conte Giambatista Caretto di Millesimo che vi fermò per piú anni la sua dimora. Avendo egli nel 1610 domandata a S. Maestà la propria dimissione, fu surrogato dal conte di Tassarolo, durante il governo del quale si mise in vendita il feudo. Aspiravano all’acquisto la repubblica di Genova e il duca di Savoia, ma l’imperatore per sue particolari ragioni politiche diede alla repubblica la preferenza, e il feudo fu ad essa deliberato. Intanto, per timore che il duca di Savoia, di ciò risentito, volesse ricorrere alla prova dell’armi, il governatore di Milano per ordine dell’imperatore mandò il conte Barbò con trecento Spagnuoli a custodire il paese sinché non ne fosse fatta l’investitura, e dal canto per la repubblica genovese vi spedì per la stessa ragione le milizie di Varazze e d’altri luoghi della riviera, non che quelle di Novi.

II

Nell’epoca sovraccennata un certo Giulio Rossello di Albisola per interessi particolari si trasferiva al Sassello, ed ivi stretta amicizia con una delle principali famiglie innamorava d’una gentil giovinetta per nome Isabella, che forse lo tratteneva in Sassello piú lungamente di quanto sulle prime egli si era proposto. Sia per odio di qualche rivale in amore, sia per altra inimicizia privata, venne denunciato al Barbò che costui era un aderente, una creatura de’ signori Paride e Stefano D’Oria, i quali, stizziti per la confisca del feudo e fermi di ricuperarlo in qualsivoglia maniera, l’avevano mandato ad esplorare le cose per cogliere il momento opportuno ad un assalto improvviso. Il Barbò, senza premettere interrogatorii e perquisizioni di sorta, secondo la giustizia dei tempi, prestò intiera fede all’accusa e ordinò che fosse immantinente arrestato.

Alle cure e allo strepito del giorno era succeduta la tranquillità della sera, e Giulio Rossello, mal presago della sventura che gli pendeva sul capo, gustava le ineffabili dolcezze degli intimi colloquii colla fanciulla che il suo cuore aveva prescelta. Si ripetevano per la centesima volta le solenni promesse d’inestinguibile affetto, e coll’esaltata fantasia sorvolando il presente, si fabbricavano un avvenire tutto infiorato di gioie. Troppo veloce ed importuna agli amanti scoccò l’ora che soleva interrompere il loro colloquio da ripigliarsi infallibilmente al dì successivo. Isabella, secondando gl’impulsi del cuore e fedele all’abitudine, accompagnò il suo fidanzato fin sulla soglia della casa, e mentre questi le dava ancora un addio e una stretta di mano, ecco farglisi incontro due uomini armati che lo arrestano in nome dell’autorità. Giulio, non potendo neppure intravvedere il motivo di una simile improvvisata, fu preso piuttosto da maraviglia che da timore, e tenendo per fermo in cuor suo che fosse accaduto un errore di persona, si mostrò pronto a seguire i due satelliti del Conte. Isabella però non ebbe tanta fermezza di spirito, e combattuta simultaneamente da maraviglia e da timore, diè un grido stringendosi quasi convulsa a colui, nel quale avea concentrati tutti gli affetti e tutte le piú care speranze. Giulio, assicurandola di non avere ombra di colpe sull’anima per cui la giustizia potesse ragionevolmente punirlo, persuadendo a lei pure che fosse uno scambio, scoperto il quale sarebbe incontanente rimesso in libertà, le stampò un caldo bacio sulla mano tremante, e s’avviò cogli sgherri che avevano contemplato questa scena patetica colla piú gelida indifferenza.

Tutta pallida in volto e cogli occhi stravolti corse precipitosamente la costernata giovinetta a riferir l’accaduto a’ suoi genitori, che strabiliarono a cosí inaspettata notizia. Rinvenuti dallo stupore, si tranquillarono anche essi nella ferma certezza che fosse occorso un errore, poiché in Giulio avevano sempre ammirato una rara prudenza, un contegno per ogni riguardo irreprensibile, una straordinaria illibatezza di costumi, per cui gli accordavano la piú illimitata confidenza, e non potevano insomma concepire neppure un’ombra di sospetto che fosse trascorso nel benché menomo fallo. Presero quindi a consolare Isabella che, travagliata da un segreto presagio, singhiozzava affannosamente e stemperavasi in pianto. Non vi fu mezzo però di calmare il suo cuore agitato e rasserenare la sua mente, sicché pianse tutta notte senza prendere un momento di sonno.

Giulio, rileggendo colla mente tutto quanto il passato senza trovarvi neppure un fatto inconsiderato, senza ricordarsi d’una parola imprudente che potesse dargli una spiegazione almeno approssimativa di cosí strana avventura, era giunto alle carceri, e quantunque saldo nella propria innocenza, pure nell’entrarvi sentì un brivido per l’ossa e un certo ribrezzo, vedendosi accomunato coi malfattori. Sia l’uomo innocente, sia reo, dal piú al meno è sempre lunga e penosa la prima notte che si passa in prigione: tanto piú poi a que’ tempi che un leggero sospetto equivaleva spesse volte a una colpa constatata solennemente, e non v’era né legge né formalità di procedura che potesse guarantire un onesto uomo dalla calunnia e dalla prepotenza. E tanto piú ancora doveva essere turbata la mente di Giulio, persuaso com’era dell’inquietudine e del rammarico che sarebbe costata quella notte alla sua fidanzata. Non mai certamente sospirò con tanto fervore il ritorno della luce per uscire una volta dallo stato angoscioso dell’incertezza.

III

Albeggiò finalmente e penetrò anche un sottil raggio di luce nell’angusta prigione di Giulio, a cui fu dolce come sorriso d’amico che porti una lieta novella. Piú forte gli parlò la speranza d’essere fra brevi momenti ridonato alla libertà, già gli pareva di tornare a colei che lo aspettava con un tormentoso desiderio, la vedea rinfrancata, e doppiamente felici ragionavano dell’avvenuto come d’una scena da romanzo, d’un giuoco bizzarro della fortuna. Isabella, che durante la notte s’era affacciata le mille volte alla finestra per dare piú libero sfogo all’oppressura dell’anima, che mille volte avea drizzato gli occhi all’oriente per vedere se rispuntasse l’aurora, giacché tutto avrebbe dato onde sapere il proprio destino, provò anch’ella i medesimi sentimenti, anch’ella riposò alfine la mente in una soave speranza, e sciolse una calda preghiera a Colui che dispensa quaggiù le gioie e i dolori.

Sventurati! chi avrebbe lor detto che mentre appunto si confortavano nell’idea di essere ricongiunti fra breve, una mano inesorabile vergava la sentenza di Giulio, e una sentenza di morte? Non regge l’animo a pensare quali orrende ingiustizie siano state commesse ne’ secoli scorsi in nome della giustizia, e come spesso la vita d’un uomo nella bilancia d’alcuni pesasse molto meno di quella d’un falcone e d’un bracco.

Giulio aspettava ansiosamente che venisse dischiusa la sua tetra prigione, e gli fosse almeno annunziato per qual motivo era caduto in disgrazia del conte Barbò. Udì alfine un volgere di chiavi, cigolare la porta, e si vide dinanzi un emissario del Conte accompagnato dal carceriere.

— Sicché, Giulio prese a dire con volto franco e pacato, avrete alfine la cortesia di spiegarmi quest’enigma che non arrivo a sciogliere per fantasticare ch’io faccia.

A queste ingenue parole si rispondeva con altrettanta franchezza — Per parte della legittima autorità vengo ad annunziarvi che foste condannato nel capo, e avete tempo fino a domani per mettere la vostra anima in pace coi rimorsi e in grazia di Dio.

È facile immaginare come Giulio rimanesse sbalordito a tale risposta, e dovesse proprio domandare a se stesso se sognava oppure era desto. Credeva quasi che si prendessero giuoco di lui; ma quell’uomo bieco e impassibile che gli stava dinanzi non aveva faccia per nulla di voler celiare in cosí strana maniera. — Per quanto avete di più caro nel mondo, prese a dire nuovamente, spiegatemi una volta di che vengo accusato, quali prove si hanno de’ miei delitti, e se intendete parlare propriamente di me, di Giulio Rossello.

— A che serve il far tante maraviglie? – rispondeva l’emissario del Conte sogghignando malignamente – Credete forse che chi comanda sia cieco, che solo il Conte ed il Podestà debbano ignorare quel che tutti sanno, che, cioè, voi siete tutta creatura dei signori D’Oria, venuto a bella posta per espiare le cose e preparare qualche gherminella a chi attualmente governa questo paese? Vi salvino adesso dalle branche del carnefice quei signori D’Oria, a cui vi siete venduto. Pensate all’anima vostra, ve lo ripeto; a momenti vi si manderà un confessore. – Cosí dicendo, s’incamminò verso la porta colla medesima indifferenza come se gli avesse fatto un lieto augurio per nozze.

Giulio, all’udire qual delitto venivagli apposto, rimase piú attonito di quando era stato tratto in prigione. Non era ombra di verità in quell’accusa; non aveva egli mai avuto una stretta relazione coi D’Oria, non s’era mai impicciato nelle brighe dei signorotti, né aveva a parer suo dato ragion di temere con un contegno misterioso e sospetto. Comunque fossero le cose, ben s’avvide di dover rinunziare ad ogni illusione, e conscio della nequizia dei tempi e della inumanità dei tribunali, che non concedevano neppure la facoltà di discolparsi, si vide irremissibilmente perduto. Il pensiero della morte è tremendo anche all’uomo innocente, tanto piú quando si passa in un baleno da uno stato felice all’estrema desolazione; quando corre la mente ai congiunti e ad una fidanzata teneramente diletta, che si lasciano in pianto, né si rivedranno mai piú sulla terra. Senza colpa morir condannato in nome della legge; di quella morte infame che si serba al malfattore e all’omicida; per voler d’un uomo stolto e feroce morire nel fior dell’età, vedendosi ancora dinanzi un lungo periodo d’anni, è un’idea che sgomenta e abbatte il cuore piú saldo e provato. La sola religione ricordando al sofferente che al martirio tien dietro una beatitudine infinita, che se non in terra è vera giustizia nel cielo; la sola religione può rinfrancare la mente smarrita d’un condannato all’estremo supplizio. E Giulio difatti, che sulle prime era rimasto percosso da mille funesti pensieri e sentiva uno sfinimento mortale in tutta la persona, pio e mansueto com’era levò in alto gli occhi rassegnati, esclamando: — Tu vuoi ch’io beva questo calice amaro, o gran Dio, e sia fatta la tua volontà. – Da quel momento collocò tutte le sue speranze nel cielo, una calma celeste si diffuse nel suo sembiante, e cadendo in ginocchio si raccolse nella preghiera e in una profonda meditazione. In questo atteggiamento lo trovò il sacerdote D. Pietro, a cui era stato commesso l’uffizio di raccogliere i segreti della sua vita e reggerlo negli estremi momenti.

IV

La nuova dell’arresto di Giulio e della condanna contro di lui profferita si era già divulgata per tutto il paese, ed era anche pervenuta all’orecchio del padre d’Isabella che restò come colpito dal fulmine. Non solo doveva piangere sulla sorte di Giulio, ma doveva tremar eziandio per la vita d’una figlia che, nel volgere di poche ore trabalzata dal sommo della felicità nell’abisso della sventura, o sarebbe morta all’istante o impazzita. Per non trafiggerle il cuore d’un colpo, sforzandosi di celare in parte il suo turbamento e cordoglio, se le fece dinanzi, e dopo averla abbracciata con tutto il trasporto dell’amore paterno, le disse: — Figlia mia, vorrei farti felice a costo del mio sangue e nol posso. Il Signore ha voluto provarti colla sventura, e tu rassegnata benedici a quella mano celeste che per segreti suoi fini t’empie l’anima d’amarezza. Il tuo Giulio fu accusato come un partigiano, un esploratore dei D’Oria, e Dio sa come finiranno le cose: a noi intanto non è concesso vederlo, e nulla potremmo fare per lui – speriamo nella misericordia infinita. Figlia mia, la prudenza mi consiglia di ritirarci nella nostra campagna, perché la dimestichezza che passava tra noi potrebbe fruttarci nuovi dispiaceri e maggiori. Là se non altro potrai piangere liberamente fra le mie braccia e sul seno di tua madre.

Mentre egli diceva queste parole, il volto d’Isabella mutò colore piú volte, tremò la poverina come per un assalto improvviso di febbre e svenne nelle braccia del padre. Quando riaperse gli occhi, ridesta dai baci e dalle carezze materne, sfogò l’intenso cordoglio con un profluvio di lagrime, e cedendo finalmente alle preghiere de’ suoi genitori, si ritirò con essi in una vicina campagna.

Un solo pensiero legava ancora alla terra la mente di Giulio, giacché avrebbe desiderato di rivedere ancora una volta Isabella, parlarle affettuosamente le estreme parole, e dirle che l’avrebbe aspettata nel cielo per stringersi in nodo piú santo ed eterno. Ma persuaso dal buon sacerdote che non dovevasi porre quella fragile creatura a cosí terribile cimento, si rassegnò a compire anche questo sacrifizio, e lo pregò a riferirle, quando fosse già avvezza alle scosse del dolore, ciò che avrebbe voluto dire egli stesso in quell’ora solenne. Fu memore ancora di tutti i congiunti e degli amici, ed ebbe per tutti una parola d’affetto, un ricordo, un addio.

D. Pietro, sicuro dell’innocenza di Giulio, e veramente edificato dalle prove di virtù straordinaria ch’egli dava in quel lagrimevole frangente, lo abbandonò per pochi minuti, e presentatosi al conte Barbò, chiese in nome di Dio e di tutti i santi del cielo che si sospendesse per pochi giorni l’esecuzione della sentenza, e si chiarissero meglio le cose, giacché si commetteva, a parer suo, un orribile assassinio. Ma fu gran mercè che l’ottimo D. Pietro non pagasse a caro prezzo quell’ufficio di pietà e di giustizia, e il Conte si limitasse a rimandarlo con risolute e brusche parole. Allora, colle lagrime agli occhi, tornò a fianco del condannato, e ragionandogli di Dio e della patria celeste, si trattenne con lui tutto il giorno e la notte seguente, finché non giungesse l’ora fatale.

Lasciamo che il lettore dipinga a se stesso questa scena luttuosa ad un tempo e solenne, e immagini le battaglie che intanto sosteneva l’infelice Isabella. Noi cercheremmo invano parole abbastanza eloquenti, quindi ci affrettiamo allo scioglimento del dramma.

V

Allorché la giustizia, il capriccio, lo sdegno d’un potente decretano la morte di un uomo; allorquando il condannato si tragge al patibolo, una moltitudine innumerevole vi accorse quasi che fosse stato bandito un torneo, un gradito spettacolo. Tutto il borgo era quella mattina in grande scompiglio: soltanto qualche vecchio assai vicino al sepolcro, e qualche donna d’animo piú delicato e gentile erano rimasti in guardia delle case: deserte le officine, tutte le strade brulicavano d’uomini e di donne e di fanciulli, che s’urtavano l’un l’altro per giunger primi ad occupare quei posti d’onde potessero meglio contemplare quella scena deliziosa. Per rispetto dell’umanità non vogliamo credere che tutta questa moltitudine gioisse della morte d’un uomo, il quale non era stato infesto ad alcuno; teniamo anzi per fermo che tutti avrebbero rivocata volentieri quella sentenza; ma quanto avviene di strano, eccita sempre la curiosità del volgo che ama le forti scosse di qualunque maniera, sia che finiscano in pianto, sia che finiscano in riso.

Il borgo era signoreggiato in quei tempi da un forte castello con due buoni recinti: l’ultimo di questi era munito da quattro torri terrapienate, in mezzo alle quali ne porgeva un’altra maggiore a guisa di maschio. Sulla piazza di questo maestoso castello, dove il capo di Giulio doveva essere spiccato dal busto, erasi già formato un gran circolo di popolazione che si agitava come i fiotti del mare, perché i primi spingevano i secondi, e cosí dicendo di seguito, e si disputavano acremente un palmo di terra. Già da un pezzo tutti gli occhi stavano intenti a quella parte da cui Giulio doveva comparire, e ormai cominciavasi a brontolare per l’increscioso ritardo, e si scorgeva in ognuno quella stessa impazienza che s’osserva in teatro quando si tarda un momento ad alzare il sipario. Finalmente si ode salmeggiare un lugubre tuono, e allora cresce il bisbiglio, tutti allungano il collo e si rizzano sulla punta dei piedi.

Prima appare una croce, quindi la devota compagnia de’ PP. Cappuccini, e ad essa tien dietro il condannato con una calma di paradiso sul volto, alzando sovente gli occhi al cielo, alla certa e beata sua patria. D. Pietro procedeva al suo fianco inspirandogli celesti pensieri, e additandogli un crocefisso ricordava i misteri dolorosi del Verbo incarnato. Veniva dopo una schiera di soldati, ed infine il carnefice. Giulio pregava con tutto il fervore dell’anima, e profferiva ogni tratto ad alta voce il nome di Colei che è consolatrice degli afflitti e madre piena di grazie.

Questo funebre apparato cominciava a intenerire gli spettatori, e s’udirono a un tempo mille esclamazioni, mille sospiri; le donne specialmente piangevano, e alcune di esse atterrite fuggivano.

— È rassegnato come un santo – una diceva — che peccato, ripigliava un’altra, dover morire cosí giovane e cosí bello! — Voi, cristiani, solete dire, soggiungeva un Ebreo, che non si sa mai il giorno e l’ora in cui si deve morire, eppure costui lo sa troppo bene — E chi può esser certo ch’egli debba realmente morire? rispondeva il notaro Gio. Battista Aijcardo.

Mentre si facevano questi ed altri simili discorsi, il condannato era giunto nel mezzo della piazza dove sorgeva il patibolo. Si fece innanzi il carnefice per bendarlo secondo il costume, ma egli domandò come ultima grazia che non gli fosse vietato di contemplare il crocefisso fino all’estremo momento, e l’autorità non seppe negarlo. Baciato con un trasporto di riconoscenza e di affetto il pio sacerdote che gli aveva con tanto zelo ed amore prestato gli ultimi uffizi, perdonando a’ suoi uccisori, e sclamando — Abbi misericordia, o Signore, all’anima mia – commosso ma non abbattuto Giulio chinò la testa sul ceppo. In meno che nol dico, gli piomba la mannaia sul collo, e risalta come dardo spuntato lasciando illeso il paziente. Invano il carnefice fa tutte le sue prove e lascia ricadere per ben due volte la mannaia, ché risale sempre in alto come respinta da una forza contraria. A tal vista i circostanti rimasero attoniti ed eccheggiarono intorno prolungate esclamazioni di meraviglia.

— Senza fallo questa è opera di magia, esclamavano alcuni; avranno incantato la mannaia – sarà un giuoco del carnefice, diceva qualche altro che si dava aria d’uom furbo — È un miracolo, è un miracolo della Madonna Santissima, la maggior parte gridava altamente.

Intanto il carnefice, rialzato il paziente, per uscire di dubbio pose un grosso pezzo di legno sul ceppo e lasciò piombare la mannaia che lo tagliò al primo colpo. Il popolo che, a parlare propriamente, non gioiva della morte d’un uomo, ma desiderava uno spettacolo ed avea ottenuto l’intento, cominciò a gridare grazia, grazia con un frastuono da non dirsi, ed il sig. Durante, podestà, comandò subitamente che Giulio venisse ricondotto in prigione. Tutti gli spettatori gongolando dall’allegrezza si sbandarono da una parte e dall’altra, facendo le maraviglie dell’accaduto, raccontandolo a questo e a quella che non erano giunti piú in tempo, e facendovi qualche addizione con un po’ di comento secondo l’usanza.

VI

Spronato dalla piú sincera allegrezza corse velocemente un amico del padre d’Isabella a narrargli da capo a fondo quanto era avvenuto, e ritornò a nuova vita l’amico della sua giovinezza. Decisero allora di svelare ogni arcano alla sconsolata fanciulla, dappoiché se per una parte le si dava nuova cagione di pianto, se le porgeva dall’altra il conforto d’una quasi certa speranza. Isabella, nell’ascoltare il pietoso racconto, quasi non potea reggere alle forti commozioni dell’animo, ma quando ebbe udito che Giulio era salvo per un prodigio del cielo, benedicendo alla giustizia divina, dopo aver sparso tante lagrime di dolore, ne versò una di verace allegrezza. Dopo che Dio medesimo aveva attestata l’innocenza di Giulio, dopo che il popolo ad una voce aveva implorato grazia per lui, ella credea fermamente che anche l’imperatore avrebbe rivocata la sentenza di morte.

Difatti l’imperatore, quand’ebbe ricevuto l’annunzio di quel singolare avvenimento, scrisse tosto ad Agostino Spinola, conte di Tassarolo, perché, appurata la verità, gli mandasse le informazioni opportune, lasciando cosí intravvedere che avrebbe rimesso il condannato si vera essent exposita.

In questo frattempo Giulio e Isabella supplicarono caldamente perché venisse loro accordata la facoltà di vedersi talvolta, e dopo replicate preghiere questo segnalato favore venne loro concesso. In quelle ore troppo veloci di conversare affettuoso si narravano scambievolmente i proprii affanni, le inquietudini, i timori e le speranze, e col desiderio affrettavano il giorno che, appagando i loro voti, li compensasse dei mali sofferti.

Lungamente aspettato, giunse alfine il rescritto dell’imperatore, il quale ordinava che fossero disciolte le catene del prigioniero mediante però una cauzione di mille scudi d’oro, che fu in seguito prestata da Giacomo di Bove ad instanza dei medesimi D’Oria dolenti della sventura di Giulio. Chi potrebbe descrivere la gioia immensa d’un prigioniero quando torna a rivedere la luce e le meraviglie della natura, quando passa dalla solitudine della prigione all’altare nuziale?

Il dì successivo a quello in cui riebbe la libertà, Giulio si strinse con nodo sacro e indissolubile ad Isabella, la quale obliò da quell’istante il passato per non pensare che alla felicità del presente e dell’avvenire. Indi si posero in viaggio per Albisola accompagnati da una schiera di congiunti e d’amici, e dalle benedizioni del popolo intiero che in Giulio riguardava un eletto reso sacro, per cosí dire, da un solenne miracolo. —

Questo avvenimento passò di generazione in generazione come un vero prodigio; ma col progredire de’ tempi, scematasi alquanto la fede ai miracoli non suggellati dall’ecclesiastica autorità, chi volle spiegare il mistero in un modo chi nell’altro, come faranno senza dubbio anche i nostri lettori.

NOTA

Raccontando questa tradizione, mi sono pure giovato d’una cronaca ms. del medico Spinelli, posseduta dal P. Gio. Battista Perrando delle Scuole Pie, mio dolce amico e maestro. Esiste anche il processo del fatto scritto da Gio. Battista Muzio, Savonese, segretario del commissario imperiale, e pubblicato in Venezia dal Rivi. Quasi conforme alla cronaca del medico Spinelli è la narrazione che ne fece il Casoni, e che stimo conveniente di riportare per intero.

“Conchiuderemo i successi di quest’anno col rapporto del prodigio accaduto nella terra di Sassello, feudo imperiale, ad un certo Giulio Rosselli d’Albisola, castello del distretto savonese. Era stato costui per capo di lesa maestà sentenziato a morte, quando il 12 di novembre, tratto in mezzo di alcuni sacerdoti Cappuccini che lo confortavano a sí duro passo, ancorché conformato al Divino volere nel prepararsi a ricevere il colpo della giustizia, efficacemente raccomandandosi alla protezione di Maria Vergine del Carmine, di cui portava il sagro abito; dolendosi perciò col carnefice che col bendarlo gli avesse tolta la facoltà di rimirar il Crocifisso, ottenne che fossegli sollevati gli occhi; indi adagiato il capo sotto la mannaia, benché questa fosse benissimo disposta e messa in assesto, e piú volte cadesse sul collo del condannato, non recolle giammai verun nocumento, risaltando sempre all’insù, non ostante che il carnefice facesse ogni sforzo per condurre a fine l’esecuzione; avendo questo di poi percosso in capo con una massa di ferro per ben quattro fiate il reo, non arrecolli alcun danno, ed al quinto colpo la scure balzò da’ manichi. Rimasti a cotal vista attoniti i circostanti, ed alzato dai religiosi il Rosselli, affermò egli che la B. Vergine avevali da Dio implorata la grazia di non morire. Lagrimando però per tenerezza e per divozione gli astanti, fu egli nuovamente condotto nelle carceri; e fatto di tutto ciò consapevole l’imperatore Ridolfo, e presene per mezzo di Agostino Spinola, conte di Tassarolo, le debite informazioni, assicurato della verità del fatto, restituì il 24 ottobre il prigione in libertà. – Casoni, Annali di Genova, tom. 4, pag. 259.

Fine.


nota 1 – Artifizio con cui il governo democratico di Genova passò all’aristocratico. Genova, 1797, pag. 17.
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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Giulio Rossello
AUTORE: F. Ramognini
CURATORE: Rigoli, Aurelio
NOTE: Racconti popolari che, nella prima metà dell'Ottocento "rinomati scrittori italiani" (Pietro Giuria, Emanuele Celesia, F. Ramognini) recuperarono dalla tradizione orale e trasposero in prosa d'arte, per la ben nota raccolta di Angelo Brofferio "Tradizioni italiane".

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Racconti popolari dell'Ottocento ligure. - Palermo : Edikronos, 1981. - 2 v. ; 17 cm. - vol. 1.: 203 p. - vol. 2.: 226 p. - (I Contastorie)

SOGGETTO: FIC027080 FICTION / Romantico / Brevi Racconti