Efficacia d’una giarrettiera.

di
Adolfo Albertazzi

tempo di lettura: 8 minuti


L’ora pericolosa non è l’ora del confessionale, quando abitudine o gravezza o vigile coscienza delle divine funzioni assunte per rappresentanza mortifica ogni senso. Nemmeno è l’ora del riposo, quando in letto molle e caldo tornano alla memoria le dure veglie degli anacoreti e dei Padri e le dibattute vittorie con i demoni nel deserto: il pericolo è all’ora della siesta; quando mentre fermenta il cibo nello stomaco e nelle vene il sangue fluisce più abbondevole, una dolcezza sale o scende, non si sa di dove, a cullare il pensiero che si quieta, e l’anima (fuori sia freddo o il sole si spenga nella rossa calura dell’agosto), l’anima risponde all’anima in cui avrebbe dovuto integrarsi e che, ahi, le fu tolta, e il cuore domanda un altro petto che l’ascolti. Sembra l’anima o il cuore; e sono forse i fumi del vino. Ma allora basta – e grazie se si abbia! – il cuore d’un amico. Se no: – Chiamatemi il sagrestano per la partita (a carte o a bocce)! Presto! –
«Gli propongo una partita a briscola?» si chiese, quella sera, don Giuseppe guardando padre Ignazio e riprendendo la bottiglia.

— Padre Ignazio, un altro gocciolo?

— Solo un gocciolo – disse il gesuita; il quale avanzò il bicchiere con la mano aperta; senza badarvi lo ritrasse pieno, e sorseggiò meditabondo. A che pensasse, non diceva; certo, non a cose per distrarsi dalle quali fosse opportuna una partita a carte.

Che amico! che faccia!: smorta, magra, arcigna. Ma un predicatore, ve’, di prima forza; da metter terrore dell’inferno nel più accanito liberale. Onde a ragione don Giuseppe, che per essere un buon prete, gaio, grasso tecchio, abbonito e domesticato da vent’anni di cura, non riusciva a impaurire parrocchiani e parrocchiane, l’invitava a predicare lassù e a metter cervelli e coscienze a posto.

— Gran bella predica, padre Ignazio! Ce n’era bisogno! Perchè è proprio quel peccato il peccato in cui i miei fedeli pericolano di più.

— Non si assolvono. – Appena questo disse padre Ignazio, sempre con l’occhio alle sue idee e col mento alla palma sinistra, il gomito su la tavola.

Allora don Giuseppe sospirò; pensò che colui non era un amico meritevole di confidenza nè utile in ogni circostanza, e che gli sarebbe stato meglio non dir nulla. Infatti la risposta del gesuita lo spinse più a dentro in quei pensieri da cui altra volta avrebbe trovato scampo in una partita col sagrestano.

Proprio vero! Si può essere un po’ goloso, un po’ avaro o di non troppa carità, o invidiare il vescovo, invidiar magari un padre gesuita, o lasciarsi prendere dall’ira come padre Ignazio quando predica, e rimanere un prete quasi buono. Ma uno scappuccio in quel tal peccato, che pure non è il primo nè il secondo nell’ordine dei peccati capitali, e ti saluto! Cattivo prete! Addosso! Che se per questo il parroco non assolvesse i parrocchiani, i parrocchiani s’arrogherebbero loro il diritto di lapidare il parroco!»

…. Quand’ecco:

— Raccontatemi qualche cosa, don Giuseppe.

Deo gratias! Era accaduto un prodigio! Perchè, vuotato il bicchiere, padre Ignazio aveva rivolto il viso all’ospite; e il viso non più bieco, ma sereno, sorrideva, aveva luce come riverberato anch’esso dal raggio di sole che colpiva i vetri. Così don Giuseppe si consolò tutto; sorrise anche lui; poi, súbito, senza interrompere il corso alle idee di prima, si rammentò dell’aneddoto che già gli era tornato in mente la mattina, alla predica, e che ora gli parve piacevole nel tempo stesso che giovevole per sè quanto un tresette.

— Vi racconterò un mio caso – disse ilare – che potrebbe servirvi di esempio, di prova a quel che dicevate stamattina così bene: che il Signore, nella sua divina misericordia, spesso ci soccorre nel fatto medesimo della colpa.

— Sentiamo.

— Un esempio però non da predica – sfuggì detto al buon prete – ; il fine non giustifica il mezzo.

— Lo giustifica qualche volta, se non sempre, come affermano i machiavellici; e…. Ma sentiamo il racconto, prima.

Uso a procedere francamente, senz’ambagi, ne’ suoi racconti, il curato ebbe uno sguardo di preghiera all’amico che non interrompesse; e cominciò:

— Fu del ’70 dopo il fatto….

L’altro scosse il capo, d’intesa.

— ….e io ero in aspettativa d’una cappellania; e abitavo in una cameretta a un terzo piano. Di contro a me ci stava una signora vedova….

Vidua, periculosa – mormorò don Ignazio, riprendendo il mento nelle mani.

— ….giovane e belloccia.

Ma padre Ignazio chiese malignamente:

— Chi ve l’aveva detto ch’era belloccia?

Divenuto più rosso sui pomelli delle guance, don Giuseppe s’imbrogliò un poco.

— Già; lo dicevano…. Io no…; io ero in cerca d’una cappellania.

E parendogli che l’amico desse soverchia importanza all’aneddoto, che altrimenti egli avrebbe narrato in due parole, e già a disagio per quelle interruzioni inopportune, il buon curato procedè meno sicuro.

— Quella vedova era mia penitente.

— Uhm!…

Uhm! che cosa?… – Penitente sincera, fervida! Pareva. Mi chiedeva anche dei consigli….

— Di che genere?

— …. aveva una questione con i parenti del marito e voleva mettermi in mezzo per riconciliarsi,

— Al solito; un pretesto.

Spento il sole, la faccia che non riceveva più riverbero, rincupiva. Si pentiva don Giuseppe d’aver ceduto all’apparente indulgenza di un inquisitore interruttore. Nè poteva fidarsi alla fantasia e attenuare o accomodare il racconto; giacchè a un certo punto, al punto capitale del fatto, era inevitabile arrivarci.

— Un giorno dunque, tutt’allegra, la vedova mi chiamò in casa sua. Aveva proposte di conciliazione; ed era allegra.

Lætitia, periculosa….

— Io la consigliava a non fidarsi degli avvocati…. Ma in quel mentre la punta d’un suo piede, di lei, faceva toc toc per terra.

Invece d’interrompere, questa volta padre Ignazio sorrise; rianimando così il povero amico.

Oh forse era meglio, per dilettar un gesuita che sorrideva in quel modo, in quel certo modo, indugiare nelle particolarità da cui l’aneddoto acquistasse più sapore? Chi li capisce i gesuiti?…

— Era, si può dire, il primo piede che vedevo, d’una donna; e la scarpa non era una scarpa.

— Pantofola?

— Aperta come una pantofola, per lasciare scorgere la noce, il….

— Malleolo.

— Il malleolo. E la calza…. Oh malizia di femmine! La calza era nera; la prima che vedevo, in una donna. Avrei sempre creduto che anche le vedove portassero le calze d’altro colore!

Nuovo sorriso, agli angoli della bocca, di padre Ignazio.

— La calza non si vedeva solo sul collo del piede. Anche un po’ più su, si vedeva; e…. Ho dimenticato di dirvi che la scarpa non era nera.

— Non importa.

— Importa! importa! Una scarpa di colore, come dire?, caffè e latte. Che pelle è?

— Non so…; di capra.

— Dunque…. Il diavolo scoteva quel piede; toc toc; la gamba tremava tutta ogni volta, da mettermi il convulso, mentre discorrevamo della conciliazione…. Io (chi lo direbbe?) ho sempre patito un po’ di convulso. E voi, padre Ignazio?

— No; grazie a Dio.

Don Giuseppe sospirò. Poi riprese:

— Come vi dicevo, discorrevamo di avvocati e di cose legali, ma non sapevo più dove guardarla. In faccia? Gli occhi!… Che occhi! In terra? C’era il piede. Dove avreste guardato, voi?

— Al muro.

— Bravo! Ma io non potevo guardare al muro, per colpa di quel piede…. Non sapevo più che cosa mi dicessi. Quel piede grande così (il narratore con la mano destra divise la sinistra), quel piede indiavolato, che non poteva star fermo, e la calza, e la scarpa, e il toc toc, mi trasportavano verso il diavolo: ecco! Finchè il diavolo se n’accorse, e smise di battere in terra.

Giunto a questo punto, don Giuseppe tacque, lasciando perplesso il padre.

— È finita?

— Ah no! Pur troppo un minuto dopo il diavolo mise una gamba a cavallo dell’altra, e quella di sopra cominciò a dondolare così, come se niente fosse! Voi che siete un sant’uomo, padre Ignazio, sareste scappato via….

— E voi?

— A me, per disgrazia, mi cadde il cappello. Mi chino…: il polpaccio!

— Cosa?

— Vidi…. cioè, vidi la calza nera, sino al polpaccio. E…. Un altro gocciolo, padre Ignazio; un altro gocciolo….

— No, no; non ne voglio più. Avanti!

Dunque ci pigliava gusto? Bevve lui, don Giuseppe; cercò, trovò l’idea di sostegno a proseguire con tono più dimesso, lentamente.

— Sentite. Quest’autunno, nell’orto, vidi un giorno una melagrana matura, tanto piena che era crepata e per la crepa facevan gola una fila di grane rosse: la colsi; non potei stare! L’altro dì, quando mi portarono i quattrini dell’uva, li contai due volte; prima mi sembrarono abbastanza; ma dopo no, dopo mi sembravan pochi. A udirvi predicare, padre Ignazio, vorrei che predicaste in eterno; ma quasi quasi vi invidio….

— Oh che vi confondete adesso in una confessione generale? – esclamò padre Ignazio, con un gesto d’impazienza.

— Fo per mostrarvi che non credo di essere un perfetto prete. Allora però io stavo per diventare un prete del tutto cattivo, e solo perchè quella gamba mi tentava più che una melagrana, o una sommetta di quattrini, o le vostre prediche, padre Ignazio.

Che discorsi!… Il gesuita ebbe un gesto più duro dicendo:

— Dunque…. la gamba?

— La gamba? Non ho detto bene. La calza, fu. Perchè io sono certo, certissimo che quella gamba non mi avrebbe messo sottosopra il giudizio e la coscienza se noi sacerdoti invece di nere portassimo le calze bianche o di un’altra tinta, dopo che le donne le hanno messe su nere. Quel nero….

L’amico affrettava:

— Concludiamo.

— Quel nero che, come dire?, per noi è il colore della mortificazione, là faceva pensare a tutt’altro. Insomma, mi sconvolse la testa. Ma con l’aiuto di Dio, la stessa causa del male giovò poi al buon effetto.

— Quale effetto?

— Voglio dire – proruppe d’un fiato don Giuseppe togliendosi il peso d’addosso – ; voglio dire che se per la tentazione della calza arrivai a…. vedere il legaccio, per quel nero il legaccio mi fece più colpo: mi tirai indietro, tornando in me; balzai in piedi, salvo! Salvo, padre Ignazio! – ripetè pieno di gioia don Giuseppe. – Io ero salvo! – E pareva uscito allora allora dal pericolo.

Ansioso, chino verso di lui a intendere ciò che non intendeva, il gesuita dimandò:

— Come? il legaccio? che cosa?

— Sì. Non v’ho detto ch’eravamo del ’70, dopo il settembre?

— Del ’70…. Il legaccio?… Non capisco! Il legaccio della calza?

— Sì! La gerr….

— La giarrettiera! Ebbene?

— …. bianca, rossa e verde!

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Efficacia d’una giarrettiera
AUTORE: Adolfo Albertazzi

NOTE: Il testo è tratto da una copia in formato immagine presente sul sito Internet Archive (http://www.archive.org/). Realizzato in collaborazione con il Project Gutenberg (http://www.gutenberg.org/) tramite Distributed proofreaders (http://www.pgdp.net/).

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Novelle umoristiche : / di Adolfo Albertazzi – Milano : F.lli Treves, 1914 – 314, 8 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)