Marco Martinelli ed Ermanna Montanari su RaiRAdio3 in uno spettacolo dedicato al controverso scrittore
“Fin dalle poesie di “Casarsa” in Pasolini ci sono sia il Narciso che il Cristo, perché lui ha portato dentro di sé questo conflitto per tutta la vita e fino alla fine. Chiunque porti in scena la sua opera riapre questa ferita”. Sono le parole dello scrittore e critico Marco Belpoliti che introducono la serata teatrale su Rai Radio3, dedicata allo scrittore e poeta nel centenario della nascita il 5 marzo 1922, a Bologna. A rendergli omaggio il regista Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, moglie, attrice e autrice, insieme a lui, dell’inedito “Pasolinacci e Pasolini – il nostro Pier Paolo” presentato per l’occasione. Uno spettacolo d’ascolto che viaggia su un doppio binario, quello narrativo e lineare di Martinelli, che ricorda l’incontro con la poetica di Pasolini in una primavera del 1977, in un cinema di provincia, dove viene proiettato Le cento giornate di Sodoma, relegato dalla censura in una sala a luci rosse. Un ricordo percorso sempre da una grande solarità per l’aver vissuto “le ultime giornate di quella stagione di fuoco” degli anni’70.
Su un’altra sponda, solitaria e cupa, si muove invece la voce tagliente della Montanari, che riprende alcuni dei frammenti del poema Una disperata vitalità del 1964, in cui, nella parte finale, ricorda una sgradevole intervista con una giornalista “cobra”, mentre il contrabbasso di Daniele Roccato accompagna gli ascoltatori nella sua oscurità. E’ il Pasolini che prefigura la sua morte, che arranca, a volte incerto, altre volte infastidito, di fronte a un’interlocutrice inadeguata a comprendere la sua poesia eppure crudele nel pungolarlo con domande su quale sarà il titolo della sua prossima opera e su quale sia la funzione del marxista.
Sono i due volti di Pasolini che si incontrano, si incrociano, si sovrappongono, si fondono l’uno nell’altro per poi tornare a dividersi per andare su sentieri diversi. Come racconta Belpoliti, autore, nel 2015 del libro Pasolini in salsa piccante e prossimo alla pubblicazione di Pasolini e il suo doppio sempre per l’editore Guanda, il dualismo di Pasolini non si è mai risolto. Non c’è mai stata una mediazione, una sintesi, ma sempre e solo conflitto. Destinato quindi all’autodistruzione e a quella morte dalle tinte sacrificali sul Lido di Ostia che conosciamo. Lo spettacolo di Martinelli e Montanari restituisce questa dualità in un gioco caleidoscopico di luci e ombre. Quello lunare e dolente, raccontato da Ermanna, iconica nella sua figura sottile e spigolosa, che immaginiamo attraversare gli inferni di Pasolini lenta e pacata, come un’legante danzatrice funebre.
E quello invece intuito da un Martinelli giovane iniziato alla drammaturgia accogliendo l’invito di Pasolini a proteggere la carne e il bios racchiusi nella lingua parlata. Che sia il dialetto romano delle borgate, il napoletano delle periferie o il romagnolo dei contadini, ciò che importa è portarlo sulla scena. Il suo sarà un teatro aperto alla pedagogia, alla parola viva, che sgorga dalla terra e che appartiene agli ultimi. Sono quei ragazzi raccolti intorno a un prete come don Milani, ad esempio, che Martinelli cercherà e inseguirà insieme ad Ermanna col suo teatro della non scuola, anni più tardi.
Quella stessa vitalità dirompente e inconsapevole dei ragazzi di vita raccontati da Pasolini, capace di sublimarne la ruvidezza e l’immediatezza. Un mondo destinato a soccombere presto sotto la coltre della pubblicità e del consumismo. Martinelli, però, al contrario dello scrittore, crede ancora che nell’adolescenza sopravviva quell’essere “asinino”, imperfetto, zoppo, ma intatto e ancora inafferrato dalla omologazione dilagante su cui si può lavorare pedagogicamente, proprio attraverso il bios della parola.
Un’attenzione al dialetto, dal romagnolo al wolof senegalese, che il Teatro delle Albe ha fatto sua con produzioni sia interamente in vernacolo sia attraverso contaminazioni linguistiche che mostrano il filo rosso che lega la compagnia ad autori come Eduardo De Filippo e Giovanni Testori. Ad unirlo con Pasolini però, ci sono anche i luoghi: la Bologna culla della contestazione studentesca post sessantottina e la loro stessa Facoltà universitaria di Lettere e Filosofia. E ancora: la città di Matera, dove il regista bolognese ambientò il Vangelo secondo Matteo e in cui Martinelli e Montanari, tre anni fa, hanno portato il Purgatorio di Dante, attraverso una chiamata pubblica che si rifà al teatro di massa di Majakovskij.
Soprattutto, però, Martinelli e Montanari hanno amato quella che è stata la sua denuncia della corruzione politica, tanto da portarlo sul palco dell‘Inferno dantesco a Ravenna nel 2017. “Come Brunetto Latini correva nel fuoco, così tu correvi in quell’inferno a cui sapevi non essere estraneo”.
Per noi, conclude Martinelli, il vero testamento di Pasolini è il film Uccellacci e uccellini (1966) in cui dirige il grande Totò accanto a Ninetto Davoli, “uno stradivario e uno zuffoletto. Ma che bel concertino!” come disse lo stesso Pasolini che considerava questo suo film “il più bello e il più povero”.
La serata in diretta dalla sala A, sabato 5 marzo su RaiRAdio3, è stata presentata da Laura Palmieri. Ospiti anche alcuni allievi dell’Accademia Silvio D’Amico di Roma che stanno portando in scena alcune sceneggiature di Pasolini.
Anna Cavallo