Cinematografo cerebrale

di
Edmondo De Amicis

tempo di lettura: 17 minuti


Il Cavaliere (come lo chiamavano in casa le persone di servizio) accompagnò fino all’uscio la moglie e le figliuole, che andavano al teatro, poi rientrò nella sala da desinare, s’adagiò sur una poltrona davanti al camino, incrociò le mani sul petto, e pensò: «Come farò ad ammazzare queste tre ore?».
Da molti anni non gli era piú accaduto di dover risolvere una difficoltà di quella natura. Il lavoro dell’ufficio, le faccende di casa, le cure maritali e paterne e gli amici e i giornali gli avevano sempre occupata la giornata cosí pienamente ch’egli non si ricordava d’essere stato mai un’ora, come si suol dire, solo con sé stesso, e non sapeva perciò che cosa fosse il pensare per pensare, senza uno scopo determinato, e tanto meno l’analizzare i propri pensieri, il fare spettacolo della propria mente a sé medesima. I giornali, quella sera, li aveva già scorsi, di legger libri non aveva l’abitudine, e il sonno non gli veniva che verso la mezzanotte. Pensò dunque che il miglior modo di passar quelle tre ore fosse quello di non pensare a niente.
E ci si provò subito, non dubitando della facilità di riuscirvi.
Ma riconobbe ben presto che il non pensare non era possibile fuorché scacciando l’un dopo l’altro tutti i pensieri confusi che gli si presentavano; alcuni dei quali resistevano, come importuni che volessero esser ricevuti a ogni costo; e che questa era una maggior fatica mentale di quella ch’egli voleva scansare. E allora pensò che gli conveniva meglio pensare a qualche cosa.
«Fissiamoci» disse tra sé «in un pensiero piacevole, e il tempo passerà rapidamente». E si fissò nel pensiero del pranzo di Natale, a cui invitava ogni anno parenti e amici. Ma quasi subito altri pensieri non piacevoli si frammischiarono a quello: la morte di un commensale dell’anno scorso, un amico che non poteva piú invitare perché gli aveva fatto un brutto tiro, la cuoca che si sarebbe ubriacata, come soleva a tutte le feste di famiglia.
Cercò di raccogliersi in altri pensieri lieti: gli seguí lo stesso: ciascun di quelli, dopo un poco, si sviava, si confondeva con altri, figliati da lui, od estranei, di tutt’altra natura, che di dolce lo rendevano insipido o amaro.
«Già», pensò scrollando il capo: «bisognerebbe che la mente fosse come una casa di cui potessimo chiudere le porte e le finestre per trattenerci non disturbati con chi ci piace; e invece è una casa aperta da ogni parte, senza battenti e senza imposte, come un edifizio non finito, dove entra chi vuole. Questo è il busillis».
E stette un po’ pensando su quel busillis.
A un tratto comparve a una di quelle finestre il viso d’un suo antico compagno di collegio, che lo meravigliò, poiché da lunghissimo tempo, da vent’anni forse, egli non ci aveva piú pensato. Per tutto quel tempo era rimasto sommerso, come annullato nella sua mente. O in che modo era risorto? E come quello, chi sa quante altre persone e cose e fatti erano sepolti nella sua memoria. C’è dunque un cimitero nella nostra testa, pensò. Quando ricorriamo col pensiero la nostra vita, e crediamo di ricorrerla intera, ne ricordiamo una parte soltanto: un’altra parte, e chi sa quanta, è scomparsa, perduta, come se non l’avessimo vissuta: una parte di noi è già morta! E, cosa strana, di quel viso risuscitato egli non vedeva che la fronte, gli occhi e il naso; la parte inferiore mancava come in una maschera lacerata. Si mise a cercarla; si stancò inutilmente in quello sforzo, e tirò uno sbadiglio sonoro. Quel suono terminò al suo orecchio in una nota da cui, quasi spontaneamente, gli si svolse nel capo il motivo della Marsigliese, ed egli vide intorno a sé uomini feriti, sangue, picche buttate a terra, e lontano moltitudini urlanti, generali impennacchiati, reggimenti che passavano sur un orizzonte oscuro, flagellati dalla pioggia, fra i lampi. E dopo un momento sentí una voce, come d’una persona seduta accanto a lui, che gli domandò: «E se avessero ragione i socialisti?».
Aveva altre volte fatta a sé quella domanda. «Già, e se avessero ragione i socialisti?» ripeté, e alzando gli occhi vide la faccia zazzeruta e barbuta di Carlo Marx sopra il pendolo del caminetto. Ma dall’inquietudine che gli soleva dare quel pensiero lo distrasse subito l’immagine del bel fianco d’una operaia ch’egli aveva osservato anni addietro in un «corteo» popolare del Primo Maggio, e di cui aveva seguito con l’occhio il movimento grazioso e procace fin che era scomparso a una cantonata. Si richiamò alla mente il viso dell’operaia, che aveva veduto di sfuggita, e in quello, con sua sorpresa, ritrovò la parte inferiore del viso del suo compagno di collegio. «Strano!» pensò. «Eppure non si somigliano». Ripensò al compagno: un buon figliuolo, che si rodeva le unghie tutto il giorno: ed egli rivide, come in una mano che gli passasse davanti agli occhi, una di quelle unghie mezze mangiate. Ma dietro a quello gliene comparve un altro, dagli occhi loschi, del quale scacciava sempre l’immagine perché gli ricordava una triste figura ch’egli aveva fatta per cagion sua. La scacciò anche allora. Ma quella ritornò. Per liberarsene, pensò al suo ufficio: ci vide in un angolo quella faccia. Pensò a un’opera in musica che aveva sentito mesi avanti: c’era quel brutto muso sul palco scenico. Corse col pensiero all’Arsenale della Spezia, nella basilica di San Pietro, in mezzo a un ghiacciaio delle Alpi che aveva attraversato da giovane: in ogni luogo vide scintillare quegli occhi loschi. Ne ebbe dispetto, e quasi sgomento. Si ricordò d’una formica che un giorno aveva visto correre disperatamente qua e là, rimbuccarsi, uscir dalla buca, rinascondersi e ricomparire con una formica piú piccola sempre attaccata alla testa che pareva non le dovesse dar requie mai piú. Non si sarebbe piú liberato da quell’immagine odiosa? Era forse quello il principio di una fissazione che l’avrebbe fatto ammattire? A che pensare per liberarsene?
Si chinò, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e si mise a osservare le ceneri del caminetto. A poco a poco in quel breve spazio egli vide montagne, valli, pianure, la faccia d’un mondo arso, dove non restava piú traccia di vita. E quello spettacolo di desolazione dandogli tristezza, volle pensare a un paese abitato e florido, ma lontano, in cui il suo pensiero non fosse turbato da alcuna immagine del mondo dov’egli viveva. «Scegliamo» disse tra sé. E pensò la Bolivia. Perché la Bolivia? Non sapeva nulla di quel paese, eccetto che era nell’America. Perché aveva scelto quello e non un altro? Un perché ci era senza dubbio: qualche legame nascosto con le cose che pensava prima. Quello, e non un altro, gli si doveva presentare alla mente. Dunque non aveva scelto. Dunque egli non pensava a quello che voleva; ma a quelle cose a cui era condotto a pensare. Che cos’era quindi la spontaneità, la libertà del pensiero? Che cosa la volontà? E che era lui se non una macchina pensante, che si moveva secondo che i suoi congegni volevano, e di cui egli non era che spettatore? E mentre faceva queste riflessioni, nella mente che gli si cominciava a confondere gli suonò distintamente un nome: «Alcibiade!». Ripeté meravigliato: «Alcibiade!».
Questo nome gli era come uscito da un ripostiglio della memoria improvvisamente aperto; ma non aperto da lui. Alcibiade! Un grand’uomo, un greco, ch’egli conosceva poco: un personaggio del mondo scolastico. E fra i ricordi che subito gli si ridestarono dei primi anni del Ginnasio – visi, banchi, libri, la cameretta dov’egli studiava – vide una sua cuginetta bionda, e riebbe la sensazione della prima volta ch’egli aveva tenuta stretta la mano di lei, dietro il cuscino d’un sofà, su cui fingevano di giocare in presenza dei parenti: una sensazione sconosciuta, vivissima, dolcissima, un rimescolamento profondo di tutto l’essere, come il principio d’una nuova vita. E si ricordò d’aver ricordato un’altra volta cosí tutt’a un tratto e riprovato quella sensazione molti anni addietro in una via erbosa e solitaria della città di Ferrara, dov’era stato di passaggio.
Ferrara! Il nome d’un suo collega d’ufficio di quando era a Firenze: un caro buontempone, con un naso enorme, che aveva un ciuffetto di peli sulla punta. E vide la stanza della trattoria dove desinavano insieme, e il neo che aveva sul mento la figliuola del trattore. Che stranezza! Quel neo lo fece pensare a una macchietta nera ch’egli aveva visto in un piatto quella mattina a colazione, e quel piatto al piattino che teneva il suo giornalaio davanti al finestrino del chiosco, dove i compratori mettevano i soldi. Una curiosa faccia buffa di vecchio satiro quel giornalaio! Ci fissò il pensiero, ed ebbe un’illusione singolarissima. Sentí nel viso proprio la forma di quel viso, e la sentí in modo da parergli che se in quel punto egli si fosse specchiato avrebbe visto nello specchio il giornalaio ridente con quella gran bocca squarciata, come soleva ridere; e come egli aveva visto ridere cento visi, anni avanti, alla stazione di Roma, per una oscenità irresistibilmente comica detta da un operaio affacciato a uno sportello del treno che partiva per Frascati.
Quest’ultimo ricordo aperse nella sua mente una bòtola, da cui saltò fuori la sua cameriera – una fresca ragazza tutta curvilinea – che in presenza di sua moglie egli non guardava mai; e gli apparve non piú vestita che la Venere dei Medici, con un par d’occhi indiavolati. Egli si lasciò andare a poco a poco e si chiuse in un’immaginazione, dalla quale si riscosse poi bruscamente come un uomo colto in flagrante delitto, e pensando a sua moglie, si guardò intorno con occhio inquieto. Ma per quale concatenamento d’idee egli era venuto a quella dal ricordo gentile e poetico della sua cuginetta? Cercò, risalí col pensiero fino al giornalaio; ma lí s’arrestò. Sentiva in certo modo nella sua mente la traccia lasciatavi dall’idea precedente; ma quale fosse questa non ricordava. «Cerchiamo ancora» disse. Ma come cercare? Da che parte volgersi? Si trovava nell’oscurità, davanti a un vuoto. E poi… e perché cercare? Poteva un uomo ragionevole perdersi in simili vanità? Era la prima volta che il suo pensiero vaneggiava a quel modo. Che gli seguiva dunque? Ridiventava fanciullo? Si vergognò. Voltò il pensiero a cose serie. Pensò a una villa, un piccolo paradiso, che egli e sua moglie avrebbero voluto comprare; ma non potevano. Se avesse avuto centomila lire! Immaginò di trovarle, per caso; di guadagnarle a una lotteria; d’ereditarle da un parente. Poi domandò a sé stesso se, potendole prendere ad altri con la certezza assoluta che non lo risapesse nessuno, le avrebbe prese. Si vide aperta dinanzi una cassa forte. Lottò un poco con la sua coscienza. Rubò. Rimase male. Non era dunque un galantuomo?
E pensò: «Ma che cosa son dunque questi pensieri bambineschi, pazzi, vergognosi, che non son nostri, che la nostra coscienza riprova, e che scopriamo improvvisamente in noi come malfattori rimpiattati nella nostra casa? Che cosa è dunque anche la testa d’un uomo onesto se ci possono nascere mille immaginazioni scellerate, turpi, mostruose, che ci vergogneremmo di confessare all’amico piú fidato e piú indulgente?». Poco dopo scrollò una spalla, e disse fra sé: «Non ci abbiamo colpa, insomma; non piú colpa che nelle parole immonde e nei propositi malvagi che sentiamo qualche volta per la strada dalla bocca della gente che passa». Gli restò un dubbio non di meno, che gli richiamò alla mente una frase letta: «L’homme est incompréhensible dès qu’on veut connaître dans ses plus légères pensées». Stupí e si compiacque di questa reminiscenza. Ma dove mai aveva letto quella frase?
Cercando dove, ebbe nella mente una confusione improvvisa: poi vide intorno a sé alberi strani, liane sospese sopra il suo capo, una vegetazione intricata di foresta vergine; si sentí le braccia nude e, guardandole, se le trovò tatuate dalle spalle ai polsi, disegnate e dipinte d’ogni specie di rabeschi e di colori, in cui predominavano il rosso e il turchino. Mentre si toccava, si scosse, e s’accorse che s’era per pochi momenti assopito. La visione era stata cosí viva e netta ch’egli avrebbe potuto dire d’allora in poi d’aver visto coi propri occhi un selvaggio tatuato in quella maniera. E perché no? Altre cose diceva bene d’aver viste, e anche fatte, e non era vero. Si ricordò d’una grossa bugia detta in certa occasione, che era stata scoperta, con sua grande vergogna. E quella vergogna lo riprese cosí forte in quel punto ch’egli si sentí salire il sangue fino alle orecchie. O perché mai, se tante altre volte se l’era ricordata con indifferenza? Quella gliene richiamò altre al pensiero: menzogne, atti di vanità, piccole viltà, piccole azioni malvagie: e n’ebbe un’amarezza, che gli diede una sensazione di malessere fisico, come d’un turbamento nella circolazione del sangue. Che cos’era quel sentimento? Rimorso? E che era il rimorso? Non poteva essere che timore. Timore di chi? Non degli uomini, che quei suoi atti ignoravano, o li avevan dimenticati o perdonati. D’un Giudice supremo, dunque, di Dio. Ma perché quel timore non aveva sentito nel commettere quegli atti? Se nel commetterli, non aveva pensato a Lui, non l’aveva offeso, come non è ribelle a una legge chi la viola ignorandola. E poi «offender Dio!». Che significa? Non c’è colpa se non c’è intenzione. Facciamo noi mai qualche cosa per offender Dio? E d’altra parte… egli non credeva. Ma non restò soddisfatto del suo ragionamento. In qualche modo avrebbe voluto espiare quelle colpe, lavarsene la coscienza con qualche grande atto di virtù, di eroismo. Quale? Salvare un bambino da un incendio, per esempio; buscarsi una coltellata difendendo una donna; spezzarsi una mano per arrestare un cavallo in fuga. E si guardò una mano.
Il suo sguardo e il suo pensiero si fermarono su quella grossa mano dal dorso peloso e dalla pelle avvizzita. Era proprio la stessa mano ch’egli aveva da bambino e di cui ricordava ancora la forma, cosí piccola e graziosa? Quanto lavoro aveva fatto dopo d’allora, quante altre mani aveva strette, quante e quanto diverse cose toccate! Osservò le vene. Pensò all’interno del suo corpo, a tutti quegli organi delicati, necessari l’uno all’altro e alla vita, vide il proprio corpo scorticato, aperto, multicolore, sanguinoso; e ne ebbe ribrezzo. Vide in quell’aspetto sua moglie, le sue figliuole. Vide cosí la gente per le strade e altrove, e certi atti compiuti da quei mostri, anche i piú piacevoli ai sensi e i piú solitamente abbelliti dall’immaginazione, gli parvero orribili, e la vita stessa una brutta e miserrima cosa. Che mistero questo formicolío fugace di esseri piccolissimi che pensano e soffrono sopra un globo che gira nel vuoto infinito con la velocità d’una palla di cannone! S’addentrò in questo pensiero ed ebbe all’improvviso la visione immensa e lucidissima del volo simultaneo e del girar vertiginoso di mondi innumerevoli, e la certezza assoluta, luminosa che un Dio aveva tutto fatto e tutto moveva e vedeva, e con quella il sentimento profondo della necessità di rifare la propria coscienza, d’innalzare il proprio spirito, di mettersi a vivere come un santo. Pensò a come avrebbe dovuto incominciare. Domandò a sé stesso se sapeva ancora le preghiere. Disse tra sé le prime parole del Pater noster. In quel momento vide un foglio sul caminetto, lo prese: era la nota d’un bottegaio: 97.50. «Che ladro!» pensò. «Ma mi sentirà». Ripose il foglio, ritornò ai pensieri di prima; ma non riuscí a riafferrarli. La visione era svanita.
Lo scosse lo schianto d’un mobile. Si voltò. Doveva essere la credenza. Un momento dopo pensò: «E se fosse uno spirito?». Una signora sua amica, pochi giorni prima, gli aveva affermato seriamente d’aver veduto il proprio padre morto attraversare a passi lenti, con gli occhi fissi su lei, la sua stanza da letto. Se egli avesse visto in quel modo il padre proprio? Guardò intorno per la stanza. Poi chiuse gli occhi, dicendo: «Quando riaprirò gli occhi, lo vedrò in quell’angolo». Guardò, non vide nulla. Ripeté la prova: il fantasma non c’era. Ma alla terza prova, pur non vedendo nulla, ebbe un brivido. Si diede di scimunito e di vigliacco. Disse la parola di viva voce: – Vigliacco –. Fu meravigliato di sentir la propria voce. Pensò: «Divento pazzo?».
C’era un libro sulla tavola, lo prese, lo aperse a caso e si mise a leggere; ma pensando ad altro. Fra riga e riga, come per le fessure orizzontali di una parete, vide passare una campagna illuminata dalla luna, una piazza affollata alla luce del sole, Napoleone Primo a cavallo, il primo cadavere che aveva visto da ragazzo, d’un contadino ucciso in rissa, portato via sur una barella. Arrivato in fondo alla pagina, non si ricordò di nulla di quanto aveva letto: eppure aveva letto. Ma lui proprio? O un altro lui, misterioso, che aveva fatto le sue veci? Siamo due in uno, dunque? E chi è l’altro? E io…? chi sono? Gli parve in quel momento d’essere sconosciuto a sé stesso. Guardò il numero della pagina. Sessanta. La sua età. Fu sorpreso e sgomentato d’aver tanti anni. Quanti gliene restava da vivere? Dieci? Otto? Cinque? Di che malattia sarebbe morto? Quale ne sarebbe stato il primo sintomo? Un malessere generale, forse; una grande stanchezza. Vide sé a letto, le figliuole piangenti, tutta la casa sottosopra. Ricordò lo scoppio di pianto in cui aveva dato un suo amico moribondo, vedendo entrare in camera il prete. Dove sarebbe andato appena morto? In su, si dice. Ma come? Uno spirito non va né in su né in giú. Sarebbe dunque rimasto lí. E allora… avrebbe continuato a vedere intorno ogni cosa, come prima della morte? E poi… quando sarebbe stato giudicato? E questa volta fu proprio l’altro Cavaliere, il lettore compiacente di poc’anzi, quello che gli gridò sul viso: – Finiscila! – e fattolo alzare, lo spinse a passeggiar per la stanza.
Passeggiando, guardò i mobili, le pareti, le finestre, e gli si presentò la sua casa in un nuovo aspetto: quella e le altre stanze gli parvero scatole, buchi le finestre e le porte, il quartiere intiero una gabbia sospesa per aria, e tutta la sua roba una miseria di poche assi e di pochi cenci, come festuche e fili d’erba in un nido. E quella gabbia, quel guscio appiccicato ad altri gusci, intorno ai quali ce n’erano altri a miriadi, gli dava tanti pensieri e tante cure, era come la fortezza della sua vita e la reggia del suo orgoglio! Giusto: era necessaria una riparazione in cucina, e il padrone s’era rifiutato con mal garbo di farne le spese. Un tirchio orgoglioso e villano, che gli aveva mancato di rispetto altre volte. Egli l’odiava. L’avrebbe sfidato, se fosse stato sicuro di tagliargli la faccia. E non si poteva sfogare! Si compiacque nell’immaginar di incontrarlo su per le scale, di provocarlo, di afferrarlo per il collo e di fracassargli il capo contro il muro, dove avrebbe lasciato una impronta rossa con dei capelli…
«No! Che orrore!» disse tra sé; e un momento dopo: «Ebbene, a che serve dire: “che orrore!”. Credi con questo d’aver saldato i conti con la coscienza? Non puoi mica fare con quelle due parole che il pensiero orribile non ti sia passato per la mente, che tu non sia stato per un momento assassino, poiché, se non hai commesso il delitto, sei stato capace di commetterlo, che è la stessa cosa». E pensò a tutto quello ch’egli era stato in quel breve tempo da che era solo: un bambino, un eroe, un santo, un vigliacco, un pazzo. In verità, c’era da perdere il capo. E con questo pensiero fissando gli occhi sopra un mazzo di fiori della tappezzeria, ci vide dopo un po’ i lineamenti vaghi d’una brutta faccia che gli faceva una smorfia; i quali si trasformarono nel profilo del Presidente del Consiglio, e poi in una figura oscena, che gli fece inarcare le ciglia.
Non ebbe da cercare che legame corresse fra quella figura e il motivo d’un valzer, ch’egli aveva sentito da giovane in un Veglione delle Sartine al teatro Scribe e che gli rivenne alla mente in quel punto insieme col ricordo dell’avvocato M…, dal quale l’aveva sentito zufolare molt’anni dopo, una mattina di luglio, in un albergo di montagna (ah che triste mattina!) proprio un momento avanti che sopraggiungesse sua moglie, spaventata, a domandargli: – Dove sono le bambine? – Erano sparite. C’erano là attorno dei precipizi. Rivide la scena, riprovò l’ansia mortale; tutti a correre di qua e di là, e lui fra gli altri, senza saper dove andasse, gridando: – Gina! Maria! – preceduto dalla mamma, pallida e urlante, di cui non riconosceva piú il viso né la voce. Quella visione gli ridestò tutta la tenerezza paterna piena di memorie: la nascita, la prima infanzia, le malattie, le piccole forme scomparse, e con questi ricordi un’impazienza affannosa di rivedere e di abbracciare le due care creature, come se non le avesse piú viste da un anno. Quando sarebbero mai tornate da quel maledetto teatro? Che idea gli era venuta di restar in casa e di mettersi a pensare? Ah mai piú sarebbe rimasto solo a quel modo come in un carcere a sovreccitarsi il cervello e a torturarsi l’anima! E si mise a passeggiare a passi rapidi, ripetendo tra sé: «O care figliuole, cari angioli miei, quando, quando ritornerete?».
— Eccoci! – gli rispose una scampanellata, ed egli corse ad aprire.
— Ah, finalmente! – esclamò, abbracciandole tutt’e due insieme con uno slancio d’affetto, di cui la mamma rimase meravigliata.
E quando fu sola con lui, gli domandò, osservandolo: – Perché sei cosí agitato stasera? Che hai?
— Niente – rispose. – Mi son messo a pensare. Un’idea tira l’altra. Le idee piú strane del mondo, una fuga, una confusione di cose. A pensar da soli è come sognare. E poi si monta la testa, si hanno quasi delle allucinazioni. Non ti saprei dire. Chi ci capisce qualche cosa nel nostro cervello?
— Non hai mica bevuto? – domandò la signora.
— Bevuto! – rispose lui un po’ punto. – Sai bene che non bevo mai un gocciolo fuori dei pasti.
— E allora –, ribatté la signora – ho paura che diventi matto –.
Egli fece un atto di risentimento e rispose con gravità: – È forse una pazzia l’intrattenersi coi propri pensieri? –
La signora stette pensando alquanto; poi, corrugando la fronte e fissandolo, gli domandò: – Dimmi un poco: ti saresti per caso intrattenuto con la cameriera? – Il Cavaliere scattò; ma, ricordandosi che alla cameriera aveva pure pensato (e in che modo!) si contenne, e con un atto di rassegnazione rispose: – Ecco quello che si guadagna a meditare! Mi servirà di regola –. La signora non insisté nel sospetto; anzi mezz’ora dopo gliene domandò perdono, poiché (vedete un po’!) appunto dal ricordo vivo del suo tradimento mentale egli era stato quasi forzato a provarle che il sospetto non aveva fondamento.
Ma non ricadde mai piú in quel peccato della meditazione; il quale rimase nella sua memoria come un’orgia dello spirito, fortunatamente unica, di cui un poco si vergognava.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Cinematografo cerebrale
AUTORE: Edmondo De Amicis
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Cinematografo cerebrale / Edmondo De Amicis ; a cura di Biagio Prezioso. - Roma : Salerno, \1995!. - 105 p. ; 17 cm.
SOGGETTO: FIC009040 FICTION / Fantasy / Brevi Racconti