La perla alla fine del mondoGiuseppe D’Emilio e Arturo Fabra recensiscono La perla alla fine del mondo, romanzo di Luca Masali edito nel 2007 da Sironi; segue intervista all’autore.

Una volta avevamo una strana malattia: finivamo tutti i romanzi che iniziavamo a leggere. Da qualche anno, invece, aaah: appena un romanzo comincia ad annoiarci, lo chiudiamo facendo sbattere tra loro le pagine a provocare un bel tud liberatorio. Del resto, per citare Troisi, loro sono milioni a scrivere e noi siamo soli a leggere, e tanto nei trenta-quarant’anni di vita che Statistica ha stabilito che ci restano (una volta, bei tempi, si sarebbe tirata in ballo la moira Atropo), non riusciremo di certo a leggere tutto, anche se un po’ ci dispiace.
Due o tre tud, recentemente, ma ora, finalmente, La perla alla fine del mondo: torni dal lavoro e non vedi l’ora di riprenderlo, alla sera lo leggi a letto proprio finché non ti si chiudono gli occhi… insomma, ci siamo capiti: piacere della lettura. Ma questo effetto non deriva solo da una banale presenza di suspense: è che il romanzo di Masali è interessante, oltre che, come si conviene ad un’opera di genere, con un intreccio avvincente.
La narrazione, come nei romanzi di Valerio Evangelisti (che, del resto, sappiamo essere molto amato da Masali), si svolge su piani temporali diversi. Si va da una scommessa alla Verne nel 1924 tra André Citroën e Louis Renault (attraversare il Sahara in auto in quattordici giorni) a un futuro apocalittico nel quale terroriste islamiche appaiono come terribili coni di tenebra; ma forse c’è qualcosa che riguarda il nostro, di piano temporale…
Ma della trama ci parlerà l’autore stesso.
Masali mette in campo un’erudizione impressionante e una minuziosa cura dei dettagli: dalle caratteristiche meccaniche delle Citroën degli anni Venti all’uso del sestante, dalla mistica islamica a futuristiche alchimie informatiche.
E che documentarsi a questo livello e riuscire a tirare le fila di vari filoni narrativi non sia stato facile ce lo fa capire l’autore stesso, quando, alla fine del libro, ringrazia Sandrone Dazieri “che mi ha quasi preso a calci nel sedere quando ero vicino ad arrendermi di fronte alla complessità del lavoro”
Anche la scrittura, apparentemente “facile”, immaginiamo debba essere costata non poca “fatica di lima” all’autore. Fatica ben ripagata, secondo noi.
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Perché, per narrare questa storia, scegliere la fantascienza invece del noir che, a quanto pare, è più di moda?

Sono strumenti diversi: la fantascienza è un cannone, un’arma potentissima adatta per tratteggiare affreschi letterari che abbracciano i secoli, mettere in cortocircuito il passato col futuro, il destino del mondo e dell’uomo. Quando volevo parlare del difficile dialogo tra occidente e Islam, solo la fantascienza poteva permettermi di mettere in un canovaccio di ampio respiro le basi stesse della dottrina islamica, il mito del dodicesimo Imam, le diverse interpretazioni del Corano e della legge divina in un Islam sfaccettato, in bilico tra la ricerca di una strada personale alla modernità e le tentazioni oscurantiste come risposta al neocolonialismo predatorio di un Occidente in piena decadenza. Da questo potente calderone di immagini, suggestioni e tensione è nata La perla alla fine del mondo. Siamo negli anni Venti, in pieno allegro colonialismo, anni in cui si pensava che la meccanica avrebbe permesso di conquistare la natura e l’uomo, inteso come il simpatico selvaggio di cui si potrà disporre a proprio piacimento. Ecco quindi che, nella miglior tradizione del club dei multimiliardari di Paperopoli, al casinò di Montecarlo si incontrano i due simboli del
progresso: il pragmatico Louis Renault e il sognatore André Citroën. Parte una scommessa tra gentiluomini ubriachi, dove Citroën dovrà attraversare il deserto del Sahara con le sue auto cingolate. Dato il poco tempo a disposizione, il magnate dell’auto raccoglie un equipaggio di fortuna con quel che c’è sottomano: un ex aviatore disoccupato, una spogliarellista che conosce l’arabo e… mio nonno, Raoul, che in effetti negli anni Venti faceva il barman proprio a Montecarlo. Quella che doveva essere una vittoriosa spedizione si infrange in un incubo che mette a rischio i destini del mondo: i nostri eroi si trovano invischiati in una guerra di potere che attaverso i millenni oppone il rinato impero ottomano con un gruppo di feroci terroriste sciite. Tutti cercano la fonte dell’immortalità, che secondo un oscura leggenda algerina risiede in una perla nera capace di donare la vita eterna al prezzo della follia.
Il noir non ha a disposizione un immaginario di tale potenza, ma in compenso è molto più adatto rispetto alla fantascienza a tratteggiare ambienti e psicologie. Soprattutto, permette di stressare i personaggi mettendoli di fronte al mistero, alla morte, al pericolo in maniera molto realistica. Se la fantascienza è un cannone, il noir è una lente d’ingrandimento per lavori di fino. L’ho usato ne L’Inglesina in soffitta, che si svolge tutto sul lago di Como. Volevo dare dignità letteraria alle storie che mi raccontava mia nonna laghée. Storie di contrabbandieri, di tempeste dove il lago diventava un rabbioso catino di ondate devastanti che spezzavano barche e battelli, di mostri lacustri e pescatori contaballe, di scemi del villaggio che la sanno lunga e lord inglesi in vacanza. E sopra tutti la figura del Marchion, un mio trisnonno un po’ folle che costruì una barca in soffitta. Perché il Marchion fece una cosa del genere, tanto da ritagliarsi un destino unico, quello di diventare un proverbio? Dalle parti del paese di mia nonna c’è ancora il detto “non fare come quello là che ha fatto la barca in solaio e ha dovuto tirar giù il tetto per farla uscire”. Ecco, nell’Inglesina è spiegato il motivo di tanta strampalatezza. Intrecciata in una solida storia noir, di morte e spionaggio ambientata negli anni Trenta, che parte da un misterioso aereo che si inabissa nel lago e finisce col far luce sulla scomparsa di Ettore Maiorana. Quindi, tornando alla vostra domanda iniziale, la moda non c’entra: è la storia che deve essere raccontata che sceglie il genere, non lo scrittore.

Il fascino dell’Ucronia per gli scrittori italiani sembra inevitabilmente legato alle sorti dei primi due conflitti mondiali, come mai?

Perché è da quei carnai che è nato il mondo di oggi. Ne I biplani di D’Annunzio ho scelto la Grande guerra, che ha un precedente letterario nobile: Contro passato prossimo di Guido Morselli, che narra come gli austriaci vinsero la prima guerra mondiale. Però a me la guerra in sé interessava poco, più che altro volevo esplorare con una storia le basi di un altro conflitto, quello della ex Jugoslavia degli anni Novanta, che era in pieno svolgimento mentre scrivevo. In una sera dell’agosto 1995, un giornale radio di chissà quale emittente mi rese edotto sull’inizio dell’«Operazione Tempesta»: 150 mila soldati croati lanciati alla conquista della Sacca di Bihac, territorio di cui io, come tutti gli altri, non avevo mai sentito neppure parlare. Da qualche parte nei monti della Krajina. Come era stato per i nostri bisnonni nella Grande guerra, a tre ore di macchina da Trieste, la gente moriva nel fango, nelle trincee e nelle case bombardate dagli aerei. Compresi quelli della Nato: i nostri aerei! Data la notizia, la radio tornava a occuparsi d’altro: mi pare di ricordare (sono passati dodici anni, cavolo!) che trasmetteva Gente come noi di Ivana Spagna, fresca del podio sanremese. Gente come noi, appunto. Ma senza voler togliere nulla alla «gente come noi che non sta più insieme, ma che come noi ancora si vuol bene», mi interessava di più la storia della gente che non stava più insieme ma non si voleva bene per niente, e se lo dimostrava a fucilate, mentre altra gente come noi, europei come loro, non solo se ne fregava ma ci metteva pure del suo con qualche raid aereo e qualche bombetta, così, tanto per gradire. Ecco quindi che nacque il romanzo, una specie di rivincita della grande guerra, un Balcani, stupri, pulizie etniche, serbi contro croati, cecchini, bombe, trincee: sembrava di essere tornati indietro di cento anni, in piena barbarie, quasi che la Grande guerra dovesse essere combattuta per la seconda volta. Ma in un altro tempo, come se la promessa «mai più» non fosse mai stata solennemente pronunciata; e per di più con la presenza di soldati italiani in Serbia e Montenegro, come se la nostra Costituzione non ripudiasse la guerra. E così ho cominciato a fantasticare: immaginiamo che una notte, durante la prima Guerra Mondiale, un bombardiere austriaco venga abbattuto sulla laguna di Venezia […]

Ti diletti di modellismo aereo da vent’anni (anche se ti definisci ancora un “cane”) allora è vero che i maschi non smettono mai di giocare?

I casi sono due: o uno rimane capace di giocare o gli tocca di lavorare. Un destino orribile, dal quale mi sono salvato. O meglio, mi hanno salvato i miei giocattolini: se non avessi fatto aeroplanini, non avrei mai scritto i Biplani di D’Annunzio.
Quanto gioco c’è nell’inventare storie e quanto di impegno e fatica?

Più o meno come andare in bicicletta: più sei allenato, meno senti la fatica e più ti godi la gita. Se si sente fatica, è ora di buttare via il romanzo che si sta scrivendo: vuol dire che non sta funzionando, che la salita è troppo dura, che hai preso una strada che non hai abbastanza fiato per percorrere. Insomma, ti sei infilato in un casino perché hai vuluto affrontare un progetto troppo ambizioso.

Potresti ragguagliarci sugli esiti del contenzioso tra te e il Si.Pe.Ma.CI (SINDACATO PERSONAGGI DI MASALI IN CASSA INTEGRAZIONE)? Siamo preoccupati per il futuro della produzione letteraria masaliana…

Li ho licenziati tutti, quei lavativi. Ora ho solo personaggi assunti a progetto con contratti da cinque giorni al massimo e scrivo solo piccole storie per riviste che pagano bene. Non so se ho ancora voglia di scrivere per davvero. Qualche volta mi torna una fiammella di desiderio, mi si forma in testa il fantasma di un idea che varrebbe la pena di sviluppare. Ma poi mi chiedo: e chi me lo fa fare?
E la fiammella si spegne.
Direi che non c’è alcun futuro all’orizzonte per la produzione masalesca.

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La perla alla fine del mondo è, dopo I Biplani di D’Annunzio, il secondo romanzo della trilogia dedicata all’aviatore Matteo Campini. A completare la saga seguirà l’inedito La balena del cielo.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su http://www.rivistainutile.it


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