Il vino d’Alturano

di
P. Da Pontelungo (Pietro Ferrari)

tempo di lettura: 16 minuti


Alturano era rinomato un tempo, e lo è ancora, per un certo suo vino bianco, fragrante e dorato: un vino ingannatore, che andava giù liscio come l’olio, ma che a berne qualche bicchiere di più tagliava le gambe e legava la lingua; e, per giunta, faceva veder doppio.

Gli abitanti di Alturano erano lieti del loro vino; e, quando, in casa di qualcuno, capitava un amico o un ospite di passaggio, non si mancava di offrire il tradizionale bicchiere, che però non restava mai solo; e tutti erano felici di vederne gli effetti sull’ospite e sull’amico.

Ma, ora, i tempi sono mutati.

Ahimè! Tutto, un po’ alla volta, se ne va: uomini e cose, fedi e superstizioni, tradizioni e consuetudini. E gli abitanti di Alturano, ora non offrono più agli amici e agli ospiti, con la vecchia cordialità, il loro vino famoso; ma preferiscono venderlo, a prezzo sempre più caro, agli osti del piano. E anche l’oste di lassù, smaliziato dai tempi, anzichè il vino sincero, versa, spesso, vino allungato con l’acqua; sicchè di bicchieri ce ne vogliono parecchi, perchè se ne vedano gli effetti sul prossimo.

Ma chi si teneva fedele alle vecchie tradizioni e alle vecchie usanze era Martin da la Vigna; un buon proprietario all’antica, che lavorava da sè i suoi campi e che possedeva la più bella vigna e che produceva il vino più famoso di tutto Alturano. Aveva moglie, con due figlie da marito, Carmela e Rosetta, e un ragazzo d’una quindicina d’anni, destinato a continuare la famiglia. Della casa faceva parte anche Pattona, un vecchio servitore, indurito nella fatica, fedele e premuroso, sentenzioso e faceto.

Martin da la Vigna abitava una grande casa un po’ fuori del paese, posta lungo una mulattiera, che scendeva dai casolari più lontani della montagna. Al pianterreno della casa c’erano la stalla, la tinaia e gli altri locali per custodire i raccolti e gli attrezzi da lavoro. Al primo piano, s’apriva una grande loggia coperta, esposta a mezzogiorno, da cui s’entrava nell’abitazione e alla quale si saliva dall’aia, per una solida scala esterna di arenaria. Dalla loggia si godeva la più bella vista che si possa immaginare; e, lassù, nella bella stagione, Martino e la sua famiglia sostavano volentieri nei momenti di riposo e, alla sera, dopo cena, quando erano finiti tutti i lavori dei campi e della stalla.

Conviene dire che la famiglia di Martino non era di quelle, come ormai ce n’erano anche lassù, che prendevano il mondo come viene, senza preoccuparsi del domani: ma era una famiglia industriosa, economa e risparmiatrice. E anche per questo, oltre che per la loro bellezza, sana e promettente, non mancavano corteggiatori alle figlie di Marino. Ma questi non era disposto a darle al primo venuto. Tanto meno a certi bellimbusti, che crescevano su come piante senza radici e come estranei nel loro paese; perchè ormai era di moda dimenticare tutto ciò che era vecchio costume e tradizione.

Martino, invece, ci teneva alle tradizioni e alle vecchie usanze. E, come al tempo di una volta, non passava di lì persona di conoscenza o di qualche riguardo che non l’invitasse in casa a bere il rituale bicchiere di vino: di quel vino fragrante e dorato, che tagliava le gambe e legava la lingua. E faceva vedere doppio.

Ma soprattutto, alla Cà Granda si lavorava dalla mattina alla sera: sia per vangare i campi o per arare le stoppie o per falciare il fieno o per dissodare la vigna, sia per le semine o per i raccolti. Ma non si dimenticavano, per questo, le piccole cose, buone e gentili, che usavano un tempo. Non passava di lì un povero che se ne andasse a mani vuote; e non c’era giorno che, davanti alla Madonnina della piccola Mistà, posta all’ingresso dell’aia, le donne della casa non mettessero un mazzo dei fiori più rari di campo.

Vita dura, sì: ma gente contenta, che, quasi senz’avvedersene, sapeva mettere nella sua giornata laboriosa quel pizzico di bontà e quel pizzico di poesia, che bastano, da soli, a dare sapore e gioia alla vita.

Ma è un condimento, che, oggi, si è fatto raro.

Martin de la Vigna lo chiamavano, scherzando, anche Martin dal Gril, perchè, in una piccola gabbia, appesa a una parete della loggia, era solito tenere un grillo: uno di quei grilli, che, al tempo degli amori, alla sera, fanno sentire, per lunghe ore, il loro canto lento e monotono.

Era questa una piccola mania del buon Martino; o, forse, anche questa era una vecchia consuetudine della casa, che risaliva a vecchi tempi, quando il grillo era considerato come il genio del focolare, preannunciatore di lieti avvenimenti e faceva parte di quel piccolo mondo della famiglia: anch’esso scomparso per sempre.

Il grillo di Martino era un grillo di prato.

Così, nelle sere d’estate, mentre Martino, la moglie e le figlie se ne stavano, nella loggia, a prendere il fresco, ad un tratto il grillo faceva sentire il suo canto. Allora, per un momento, cessavano i discorsi. Ma, più d’una volta, Carmela e Rosetta indugiavano, a lungo, ad ascoltare in silenzio, coi grandi occhi pensosi, quel canto senza fine.

Gril, bel gril, quel che t’sè dil

E ciascuna pensava: o grillo conosci il mio moroso? E sai se mi ama?

— Cri, cri, cri…

— E quando mi sposerà? Quest’anno?… O l’anno che verrà?

— Cri, cri, cri…

— E dimmi, grillo: sarò sposa felice?

— Cri, cri, cri…

— Grillo, bel grillo, quello che sai dillo…

E Carmela e Rosetta sognavano, a lungo, coi grandi occhi stellanti. E il grillo, col suo canto, cullava i loro sogni:

— Cri, cri, cri…

Poi, quando dal campanile della chiesa, suonavano le dieci, Martino si alzava e le donne lo seguivano. Ma, sulla casa silenziosa, ancora vegliava, per tutta la notte, il grillo e la addormentava col suo canto:

— Cri, cri, cri…

E giù, dai prati e dai campi, vicini e lontani, rispondevano, senza posa, cori interminabili di grilli.

— Cri, cri, cri…

Ma, d’inverno, quando le notti erano più lunghe, tutta la famiglia si raccoglieva sotto la grà, seduta nelle vecchie scranne di quercia, intorno alla pietra del focolare, collocata al centro, su cui ardevano i bei ciocchi stagionati, preparati con cura fin dall’estate. Spesso, a veglia da Martino, veniva anche qualche amico o qualche timido corteggiatore delle ragazze; e non mancava, ogni tanto, la Santina, una vecchia zia di Martino, che toccava quasi i novant’anni, tutta contratta e grinzosa nel suo piccolo corpo rinsecchito, ma ancora svelta e piena di vita. E lì, intorno al fuoco, per lunghe ore, si parlava un po’ di tutto: di nascite, di morti, di matrimoni, di quel che succedeva in paese e nei paesi vicini, di vecchie storie, che, ormai, solo i vecchi ricordavano.

E in questo era maestro Pattona, che conosceva tutti i racconti, le leggende e le facezie, talora piccanti, in cui si tramandava tutta la tristezza, tutto lo spirito e tutta l’arguzia della vecchia Valdimagra. Invece, la specialità della Santina erano storie di streghe, di diavoli, di apparizioni di fantasmi e di processioni notturne di morti: storie paurose e incredibili, che facevano stare incantati e spauriti i più giovani, mentre le donne ascoltavano in silenzio, filando, come, un tempo, le loro nonne, la lana alla rócca, e facendo girare lestamente il fuso, al lume fioco della lucerna a olio. E la Santina continuava a parlare di spiriti folletti, e specialmente del «buffardel», che, una volta, era lo spirito familiare della casa e di cui lei conosceva tutte le ingegnosità e tutte le malizie. Era il buffardello che, di notte, andava nelle stalle, puliva le mangiatoie, rinnovava le lettiere, strigliava le bestie, faceva treccie alle criniere e alle code; oppure faceva dispetti, mettendo tutto a soqquadro, nella stalla e nella casa.

— Tutte cose vere – diceva la Santina – perchè le ho viste coi miei occhi. Ma ora il mondo è mutato; e anche il «buffardel» se n’è andato! E, oggi, chi crede più ai folletti?

Poi, quando era vicina la mezzanotte, tutti si alzavano. E il vecchio Pattona, dopo aver bevuto l’ultimo bicchiere di vino, diceva invariabilmente, a chiusura della veglia:

— Ben, cerchiamo di stare allegri chè quand’a s’è morti, bona nota, sonadori!

Una sera di settembre, in cui, dopo aver cenato, Martino era sceso, con Pattona, nell’aia per accatastare della legna fatta nella giornata, passò di lì, il medico di Bagnoro, che scendeva da Tanascura, dove era stato per assistere una donna di parto.

— Buona sera, signor dottore – lo salutò Martino, appena lo vide.

— Buona sera, sioria! – aggiunse rispettosamente Pattona.

Ed entrambi sospesero il lavoro, tanto più che ormai annottava.

Dopo i saluti, Martino, secondo l’uso, invitò il dottore a passare in casa per bere un bicchiere di vino. E il dottore, che si sentiva stanco, e che era sempre pronto a fare onore al vino buono e a fare quattro chiacchiere, non se lo fece dire due volte:

— Tanto – disse – ho con me la lanterna, che, per ogni buon conto, mi sono fatto dare da quelli di lassù, perchè, questa notte, non c’è luna e tra poco farà scuro.

— E voi, Pattona, come state? – aggiunse, poi, voltandosi al vecchio contadino.

— Eh! si lavora – rispose Pattona. – Ma non è più come una volta. Si diventa vecchi e quand a ghe la neva ai monti, an fa caud gnanc al pian.

— Niente paura, Pattona! Bue vecchio fa il solco diritto – disse, ridendo, il dottore, che amava anche lui, i vecchi proverbi. E seguì Martino.

Giunti sulla loggia, il dottore, dopo aver appeso la sua lanterna a un chiodo, proprio vicino alla gabbia del grillo, entrò nella sala, dove c’erano le donne a sfaccendare. E quando, dopo i convenevoli d’uso, si furono seduti intorno alla tavola, con davanti bicchieri e bottiglie, il dottore domandò:

— E che novità ci sono in paese?

— Brutte novità, oggi – rispose Martino – È morto Zanon da la Piagna ed è morto povero come un topo di chiesa. Ma allegro fino alla fine.

Zanon da la Piagna era conosciuto da tutti e non solo nel suo paese. Così, tra un bicchiere e l’altro, quella sera, si parlò a lungo di lui e della sua famiglia.

Una famiglia anche quella di contadini possidenti; gente di buona razza e benestante, come ce n’era poca. Ma lui, Zanon, come diceva Martino, aveva “srazzato”; e la famiglia era finita in rovina.

Buon uomo, sì, quel Zanon; ma senza testa. E non aveva mai avuto voglia di lavorare seriamente; e anzichè badare alla sua casa e alla sua terra, come avevano fatto i suoi vecchi, aveva preferito andare a zonzo per le fiere e per le sagre dei paesi vicini, in baldoria con gli amici. E non tornava a casa che quando aveva speso l’ultimo quattrino. La moglie, povera donna, si affliggeva di quella sua vita disordinata; e non mancava di rimproverarlo. Ma, sì, era come parlare al vento! Zanon la pagava con un motto o con una facezia. E se la povera donna gli diceva, con le lacrime agli occhi, che così rovinava la famiglia e che, per causa sua, le figlie non avrebbero trovato marito, Zanon scrollava le spalle e diceva che le sue figliuole erano le più belle e le più brave di tutto il paese e che marito l’avrebbero trovato anche senza la miseria di quei quattro sassi, che potevano avere di dote. Un bel tipo davvero!

Anche da giovane era stato un capo scarico e non aveva avuto che tre passioni: il ballo, la fisarmonica e le donne. Di ballerini come lui non ce n’erano mai stati, anche nei dintorni; la fisarmonica nessuno la sapeva suonare come lui; e di donne ne aveva fatta una strage. E così tra ballo, musica e donne, una alla volta, avevano cominciato ad andarsene le terre migliori del suo patrimonio; ma, più questo s’assottigliava, più Zanon conservava il suo umore allegro. E anche quando fu passata l’età del ballo, della musica e delle donne, Zanon non mise giudizio e gli rimase l’amore della vita allegra. Tanto più che, come aveva previsto lui, alle figliuole non erano mancati, lo stesso, i corteggiatori; e avevano finito per trovare marito anche senza dote e, per giunta, accasandosi bene. Ma, vendi oggi e vendi domani, anche i quattro sassi se ne erano andati e a Zanon non era rimasta che la casa; e anche questa coperta da ipoteche e sempre assediata da creditori e da strozzini. Eppure, lo credereste? Anche, divenuto vecchio e ridotto alla miseria, Zanon non aveva perduto il suo buon umore e il suo spirito faceto. Anzi, la facezia era rimasta, in ultimo, la sola ricchezza della sua vita.

— È finito come Pirlon dal Casal – commentò il dottore e ci bevette su un altro bicchiere di vino. Pirlon dal Casal era stato, anche lui, un famoso buontempone, fedele, per tutta la sua vita, al comandamento: mangia, bevi e sta allegro!

Ma, malgrado i molti bicchieri bevuti, il dottore aveva ancora la lingua sciolta e più voglia di chiacchierare che mai. E così si continuò a parlare di altre famiglie di Alturano e di paesi vicini, che erano finite in rovina, come quella di Zanon della Piagna; di famiglie che, invece, erano rimaste a galla e di altre che erano venute su dal nulla a furia di lavoro o di stenti, oppure in seguito a un colpo di fortuna, fatto in America o chissà dove.

Ma a un certo punto, Martino volle far sentire all’ospite un suo vino di bigoncio, vecchio di sette anni; e fu proprio quella bottiglia traditora a dare il tracollo alla bilancia. Il dottore s’accorse che la lingua gli si faceva grossa e che le idee non gli filavano più chiare, nella sua testa. Allora, s’alzò, salutò le donne e, accompagnato da Martino, uscì nella loggia; staccò dalla parete la lanterna – così almeno credette lui – e, un po’ traballando sulle gambe, discese nell’aia.

Era una notte trapunta di stelle e soffusa di un lieve chiarore siderale. Sul cielo, all’orizzonte, brillavano le gallinelle. Nei prati e nei campi, intorno, era un lieve scintillìo di lucciole. Vicino e lontano, saliva nella notte un canto sterminato di grilli.

Martino propose al dottore di farlo accompagnare da Pattona fino a Bagnoro; ma il dottore protestò.

— Conosco bene la strada – aggiunse. – Anzi, poichè non fa ancora tanto buio, accenderò la lanterna, quando comincerà il sentiero dei castagni, che è il più ripido.

Si salutarono; e il dottore prese la via di Bagnoro, tenendo in mano la sua lanterna. Lungo la strada, pareva seguirlo il canto dilagante dei grilli.

Il dottore camminava di buon passo, malgrado qualche scambietto delle gambe. Anche le idee, a dire la verità, gli ballavano un po’ nel cervello. Imboccò, senza quasi accorgersene, il sentiero dei castagni e continuò a scendere verso Bagnoro. Come ci si vedeva chiaro con la lanterna! Ma quando aveva acceso la lanterna? Le idee, ormai, gli si confondevano nella testa; e si abbandonò al corso di altri pensieri. Ah che bel sonno avrebbe fatto, appena giunto a casa, dopo aver girato tutto il giorno di casolare in casolare, fin su a Tanascura! E che vino quello di Martino! Proprio un brav’uomo Martino… e la moglie… e le figlie… proprio brave figliuole… E lui perchè non s’era sposato? Cercò di cacciar via questo pensiero molesto e di pensare ad altro. – Come fa chiaro, ora la lanterna! – diceva tra sè – E come cantano i grilli!… Quanti grilli!… Ma la strada gli sembrava più lunga del solito.

Finalmente, giunse a Bagnoro, quando dal campanile, a lenti rintocchi, suonava la mezzanotte. Tutto il borgo dormiva, in silenzio; e non incontrò anima viva. Si trovò, d’un tratto, davanti all’uscio della sua casa, l’aprì con qualche difficoltà, salì nella sua camera, depose la lanterna – o quella che egli credeva la lanterna – sopra una sedia, si svestì in fretta e si lasciò cadere sul letto, gettando all’aria le coltri dal gran caldo che sentiva.

E dormì della grossa fino al tardo mattino.

Martino, invece, fin dall’alba, era già nell’aia con Pattona, per terminare il lavoro lasciato in sospeso la sera prima.

Poi, risalì in casa per fare colazione. Ma, passando nella loggia, s’accorse che non c’era più, appesa alla parete, la piccola gabbia col grillo; ma c’era, invece, la lanterna del dottore.

Martino capì a volo.

— E adesso – pensò – chissà dove sarà finito il mio grillo!

Chiamò Pattona e gli disse che, appena avesse mangiato un boccone, doveva fare un salto fino a Bagnoro per riportare al dottore la sua lanterna e per farsi ridare la gabbia col grillo; se pure questo non aveva fatto, come era probabile, una brutta fine.

Pattona mangiò in fretta, si cambiò i panni, chè quel giorno a Bagnoro c’era il mercato, e partì con la lanterna. Quando giunse laggiù, il mercato era già affollato di gente; ma, per prima cosa, filò a casa del dottore, che dormiva ancora della grossa. Bussò, disse alla serva di che cosa si trattava; e, dopo che fu annunziata la sua visita, fu fatto entrare nella camera da letto del dottore.

Quando fu entrato, il dottore, ancora assonnato, gli chiese che cosa fosse successo per venire a quell’ora.

— Signor dottore – fece Pattona – sono venuto per portarle la sua lanterna e per riprendere la gabbia del grillo.

— Come sarebbe a dire, Pattona? – chiese il dottore, sforzandosi di capire.

— Sarebbe a dire – spiegò, Pattona, – che, ieri sera invece della lanterna, ha preso, per sbaglio, la gabbia del grillo.

— Ma non è possibile! – protestò il dottore.

— È tanto possibile – rispose Pattona, mettendogli la lanterna sotto il naso – che questa è la lanterna e quella là, sulla sedia, è la gabbia col grillo.

Il dottore si stropicciò gli occhi e si passò una mano sulla fronte, come per ricordare meglio; e, sempre più confuso, balbettò:

— In verità… Eppure faceva così chiaro!

— A far chiaro – fu pronto a dire Pattona – era il vino della vigna. Un vino, creda a me, signor dottore, come non ce n’è un altro in tutta la Valdimagra.

Il dottore non replicò; e, mortificato, salutò Pattona, che uscì con la gabbia del grillo, per fortuna sano e salvo anch’esso.

Ma fosse stato il vino a rischiarare la strada, come aveva detto Pattona, o la lanterna, come aveva creduto lui, fu certamente un miracolo se il dottore non si ruppe l’osso del collo, scendendo, la sera avanti, da Alturano, per il sentiero dei castagni, con quel certo vino in corpo.

Non si sa se fosse stato Pattona o la serva del dottore a passarne parola: sta di fatto che, un’ora dopo, tutto il paese e tutto il mercato di Bagnoro conoscevano, per filo e per segno, e ne facevano le più grasse risate, l’allegra storia della gabbia del grillo, scambiata dal dottore con la lanterna e che, pure, faceva chiaro lo stesso.

Il rumore sollevato, a Bagnoro, dell’avventura del dottore non fa meraviglia.

Bagnoro, come si sa, è un grosso borgo, situato in fondo a una stretta valle, con le sue case a strapiombo su un torrente rumoroso, che scorre spumeggiando, nel fondo di un solco, che, da tempi immemorabili, si è scavato nella roccia. Ma, per chi non lo ricorda, Bagnoro era allora un luogo famoso per le sue numerose osterie, tutte rinomate per la buona cucina e per gli ottimi vini: un luogo, dove gli abitanti, chiacchierini e pettegoli, passavano i giorni e anche le notti a occuparsi delle faccende altrui ed erano così sensibili ai racconti straordinari da credere perfino alle frottole, che essi stessi inventavano. Così chiacchierini e pettegoli che, per essi, non si sarebbe trovato, in tutto il martirologio, una tortura più crudele di questa: sapere una cosa e… non dirla!

A parte questo, la vera gloria di Bagnoro erano i suoi vini e la sua cucina: vini preclari, dai nomi sonanti di antiche memorie, tra cui figuravano anche quelli di Alturano; vecchia cucina paesana, sana e gagliarda, che conservava la sua saporosa onestà, fatta di cure amorose e di sapienti intingoli. Per questo, le sue osterie, e non solo nei giorni di mercato o di fiera, erano anche richiamo di liete brigate di buontemponi e di buongustai; ed in esse, tra il variare dei saporosi piatti tradizionali, era tenuta in onore la nobile e antica arte dell’arrosto allo spiedo, che aveva il suo culto nelle vecchie cucine ospitali, dall’ampio camino, sotto cui troneggiava il girarrosto, con la maestà solenne e bonaria di un domestico nume tutelare. Così, sulle mense imbandite, si alternavano fragranti schidionate di tordi o di altri illustri volatili, che, nella propizia stagione, era bello assaporare al tepore di un’allegra fiammata, mentre fuori fischiava il rovaio e la neve imbiancava lo scenario dei monti.

Ora i tempi sono cambiati.

Ma la storia del grillo di Martino si racconta sempre a Bagnoro e nei paesi vicini. E dell’avventura ci guadagna ancora il vino della vigna di Martino, il più celebre dei vini d’Alturano, il quale, anche se, di solito, confonde le idee, può anche, qualche volta, come disse il vecchio Pattona, rischiarare la strada a chi ne abbia bevuto più del bisogno.

Come avvenne quella sera.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il vino d’Alturano
AUTORE: P. Da Pontelungo (Ferrari, Pietro)

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Novelle di Valdimagra / P. da Pontelungo.
- Pontremoli : Artigianelli, 1944. - 226 p. ; 23 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)