Il giuoco dei poveri
di
Grazia Deledda
tempo di lettura: 8 minuti
In quel tempo ci piaceva il giuoco dei poveri: cioè fingere di essere realmente poveri, di aspettare il soccorso del prossimo e, se occorreva, andare ad elemosinarlo. Il fatto dipendeva dalla morte serena e improvvisa di una vecchia mendicante che da mezzo secolo viveva in una specie di legnaia in fondo al nostro orticello. Avrebbe dovuto pagarne il fitto – quindici soldi al mese – ma se n’era andata con tutti gli arretrati; e mio padre anzi pagò i funerali.
— Troveremo poi il gruzzolo che deve aver lasciato nascosto in qualche buco — egli disse; ma non si aveva mai il tempo, né la voglia e neppure l’illusione di trovarlo davvero.
La sua fortuna, la vecchia gobbina, la lasciò tutta a noi, ragazzette romantiche ma non tanto, che ci si installò nel suo domicilio per fingere, dunque, di giocare ai poveri e per fare il comodo nostro. Ella aveva lasciato la stamberga relativamente pulita, con un saccone di stoppie coperto da una ruvida coltre, dono di mia madre; uno sgabello, del quale, del resto, si poteva fare a meno perché negli angoli c’erano, come nei boschi, ceppi e tronchi d’albero più comodi di certe sedie civili; un’anfora di creta, sbocconcellata; un canestrino con rimasugli di pane che parevano sassolini; e infine il bastone.
Ah, di questo, proprio, ne presi io il sacro possesso, sebbene, quando era necessario farne uso, gli avvolgessi il pomo nodoso col fazzoletto da naso. Era tutto unto, questo bastone, e nei giorni di caldo pareva sudasse. E già faceva caldo: luglio, con gli alberi dell’orto e degli orti attigui pesanti di verde, palpitanti di cicale; e l’arsura profonda ma asciutta e non polverosa delle lunghe siccità meridionali, che alla notte, sotto la luna, ha un odore quasi inebbriante di erbe che languiscono, di fiori aromatici che resistono ad ogni calore.
Ma le ore più belle, per le tre, o quattro, a volte anche cinque ragazzine, riunite nella casa della mendicante, erano quelle che precedevano l’incanto notturno: le ore del lungo vespero, quando la mamma preparava la cena, e dalla cucina verso la porta opposta dell’orto arrivava l’odore delle patate fritte con un po’ d’aglio, e delle animelle infarinate.
A noi, che importava della sicura cena materna? Noi eravamo povere mendicanti, senza pane, senza luce, tranne quella della luna; anche senza acqua, perché tanto era scarsa quella delle distanti fontane che la serva minacciava di rompere la nostra brocca se, di nascosto, la si riempiva a quella della casa.
Tempi crudeli, di antica leggendaria carestia: nessuno dava un obolo, un pane, una crosta di formaggio, alle povere mendicanti, che al crepuscolo, dunque, mentre gli altri bambini, anche quelli poveri sul serio, giocavano nella strada il sontuoso e danzante gioco degli ambasciatori, con relative nozze e regali di gioielli e vestiti mai veduti, ritornavano stanche, curve, affamate, – affamate davvero, questa volta, – al loro triste e mirabile rifugio.
La più vecchia sedeva sullo scalino della porta, col bastone al quale pareva avessero rotta la testa, abbandonato al suo fianco: era tragica, in apparenza, o, più che tragica, arcigna e preoccupata per le ingiustizie sociali, – chi troppo ricco, come don Francesco Antonio Maria Valadier Castillo che s’era fatto costruire un inutilissimo palazzo nelle sue tancas solitarie, con fontane segrete; chi povero come le mendicanti scalze (questo perché lo volevano loro, di nascosto della madre, e soprattutto della serva) assetate e con lo stomaco più vuoto della loro stamberga –. Sì, arcigna e desolata, nel viso corrucciatissimo, ma in fondo beata come un cherubino, appunto per la visione del palazzo e delle misteriose fontane di don Francesco Maria Castillo, laggiù, nelle tancas solitarie, azzurre alla luna, con le perle delle lucciole sul velluto verdone del musco.
Le altre mendicanti sedevano sui tronchi degli alberi, sospiravano, si pizzicavano, sbadigliavano. Una si era buttata sul giaciglio della vecchia e brontolava il rosario: ma d’un tratto si alzò urlando e corse fuori. E fuori anche le altre, atterrite.
— Che hai veduto? Che hai veduto? Lo spirito della vecchia?
— Accidenti a lei: nel saccone ci sono ancora le pulci.
Poi, qualcuna pensò bene di cambiar metodo. Ed ecco che, all’ora del convegno, arrivava, imitando a perfezione la vecchia gobbina, appoggiandosi a un pezzo di canna, con un fazzolettino pieno di roba. Balbettava:
— È tutto quello che ho potuto avere: oggi c’è stato un matrimonio; oggi c’è stata la consacrazione di un prete.
E dal fazzolettino venivano fuori, se non abbondanti, squisite offerte: frittelle con lo zucchero, fettine di salame, frutta primaticce.
L’assistenza era ancora scarsa: ma ci pensò bene l’amica Francesca a renderla più proficua; anche perché era di natura generosa, lei, generosa e vanitosa: non invano s’inorgogliva di una lontana parentela spagnolesca con don Francesco Antonio Maria Castillo.
Ed ecco inventò le feste campestri, i battesimi di lusso, persino i funerali dei ricchi, quando ai mendicanti vengono distribuite copiose elemosine. E portò non fazzolettini ma fazzolettoni di roba: e una sera, caldissima, persino le granite di limone, che si scioglievano entro una tazza di cristallo.
A questo punto della storia apparve un personaggio importante. Era un professore, di liceo: abitava in una casa il cui orto confinava col nostro: ritornava per le vacanze. Lo si conosceva di vista, ma era come se per noi non esistesse. D’un tratto, però, la sua figura cascante, già grigia e disfatta, apparve in maniche di camicia e in pantofole, sul muricciuolo di divisione e dominò il nostro orizzonte. Con la mano scarna e tremula come quella di un vecchio malato mi accennò di avvicinarmi: con un vago terrore mi avvicinai, prendendo, per istinto di difesa, l’atteggiamento della vecchia mendicante, alla quale neppure satanasso avrebbe potuto far male.
Il professore non mi vedeva: non vedeva nulla: i suoi occhi erano vuoti come quelli delle statue. Domandò:
— La vecchia è morta?
— È morta.
— Allora dirai a tuo padre che la stanza della legnaia appartiene a noi, a me. Lui lo sa benissimo, l’usurpatore. Pensi dunque a restituirla: altrimenti son liti, avvocati, tribunali.
— Corbezzoli! — disse il mio babbo, nel sentire l’ambasciata: poi si volse a mia madre: — Tu sai che l’infelice, non si sa bene per quale ragione, s’è dato a bere.
Fatto sta che le mendicanti continuarono a frequentare il rifugio, ma con paura: paura del professore, che passeggiava sempre nel suo orto pieno di ortiche, scompigliandosi i capelli con la mano irrequieta; paura di un essere quasi inumano, che, senza ragione, per uno di quei terribili misteri della vita, aveva smarrito la sua limpida strada.
E una sera egli saltò il muricciuolo, perdendo una pantofola, e, senza darci il tempo di fuggire, venne a piantarsi davanti al nostro gruppo impaurito e tuttavia felice dell’avventura: piegò la testa, che sembrava irta di spine; la sollevò con fierezza, sporse il mento e chiuse gli occhi. Disse:
— Dio era buono e di buon umore quando creò gli uccelli, i pesci, i dolci animaletti delle foreste: anche quando creò le pecore, i cani, le scimmie non c’era male. Ma un giorno ch’era nervoso creò l’uomo: quanto di peggio si può pensare da un Dio maligno. E poi, per maggior cattiveria, i leoni, le tigri, le vipere, la donna: tutto per contorno al piattino dell’uomo.
A bocca aperta noi si ascoltava, senza capire. Si capiva, solo, che egli aveva bevuto: a pensarci bene, adesso, si può dire che forse egli non aveva bevuto: ma quando uno gode cattiva fama…
Piuttosto ci colpirono altre sue parole.
— La vecchia doveva aver quattrini: li ha nascosti, qui dentro, e mi sorprende che l’usurpatore non li abbia ancora scovati. Ma voi, creature, fate bene il vostro gioco: vivere da poveri, accanto a un tesoro nascosto, senza intaccarlo, senza neppure conoscerlo. La casa però è mia: lo hai detto, a tuo padre?
— Ma che vada all’inferno; e che vi lasci in pace, altrimenti gli rompo il testone col randello della vecchia — disse mio padre: e ci proibì di ritornare nella legnaia.
In ottobre si seppe una triste cosa: il professore, con sollievo della sua famiglia ed anche con sacrifizî finanziari di una sua vecchia zia, era ritornato alla sua sede: ma una notte ritornò a casa d’improvviso, ubbriaco, e, poiché non vollero aprirgli la porta, andò a dormire nella legnaia, sul saccone della vecchia.
— Lasciamolo stare, — disse mio padre, — tanto ha poco da vivere.
Infatti fu così. Agli ultimi di ottobre fu trovato morto, sul saccone della vecchia: morto di stenti, di orgoglio, di fantasticherie. Ma il suo viso era tranquillo, quasi sorridente. Sotto la sua testa, entro il saccone, fu rinvenuto il gruzzolo della mendicante: anche lui non lo aveva cercato.
Faceva ancora caldo: cadevano, sì, le foglie scarlatte degli alberi, ma i peri, dai quali pendevano ancora i frutti gialli, lucidi e grossi come piccole campane d’ottone, s’erano rimessi storditamente a fiorire.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il giuoco dei poveri
AUTORE: Grazia Deleddda
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: {Novelle} 6 / Grazia Deledda - Nuoro : Ilisso, \ 1996 - 278 p. - 18 cm. - Bibliotheca Sarda. Fa parte di: Novelle / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)