In occasione del centenario della nascita di Alberto Moravia, pubblichiamo questa recensione di Bartolomeo Di Monaco.
28 novembre 1907 – 28 novembre 2007
Nel ricordo di Alberto Moravia: «Il conformista”
Alberto Moravia è stato uno dei maggiori protagonisti del nostro Novecento letterario. Presente in ogni dibattito che riguardasse la letteratura e il nostro costume non ha mancato, come sempre avviene, di crearsi sostenitori e nemici. Ma il suo valore, a distanza di quasi venti anni dalla sua morte, avvenuta nel 1990, regge esemplarmente alla prova del tempo.
Nato a Roma il 28 novembre 1907, quest’anno, il 2007, ricorre il centenario dalla nascita. La sua scrittura limpida, che sa sapientemente amalgamare rotondità e asciuttezza, ha disegnato in modo lucido e allo stesso tempo crudele una società malata e decadente al modo che nel cinema ha fatto Luchino Visconti.
Fondatore della prestigiosa rivista letteraria «Nuovi Argomenti», passata oggi, dopo la morte di Enzo Siciliano, sotto la direzione di Dacia Maraini, Moravia si distingue per una nutrita produzione non solo di romanzi e racconti, ma anche di opere teatrali, saggi e articoli presenti sulle maggiori riviste e sui maggiori quotidiani nazionali. Tra le opere di narrativa, basterà ricordare: «Gli indifferenti», del 1929, con il quale esordì; i racconti «La bella vita», del 1935; «Le ambizioni sbagliate», del 1935; «Agostino», del 1945; «La Romana», del 1947; «L’amore coniugale», del 1949; «Il disprezzo», del 1954; i «Racconti romani», del 1954 e «Nuovi racconti romani», del 1959; «La Ciociara», del 1957; «La noia», del 1961. Seguiranno altre sue opere fino a «La donna leopardo», uscito postumo nel 1991.
«Il conformista» è del 1951 e da esso Bernardo Bertolucci trasse, nel 1970, il film omonimo, con Jean-Louis Trintignant e Stefania Sandrelli.
Il romanzo, avendo per protagonista un uomo, Marcello Clerici, si presenta subito caricato di un interesse particolare, come lo fu nel 1944 «Agostino», giacché è risaputo che Moravia ebbe, tra le tante sue qualità letterarie, anche quella di essere un raffinato e profondo indagatore dell’animo femminile, in ciò rivaleggiando con altri due narratori suoi contemporanei: Bonaventura Tecchi e Mario Tobino. Si veda, in questo romanzo, ad esempio, il ritratto con cui l’autore introduce la madre di Marcello, «rimasta moralmente e anche fisicamente una fanciulla» e ci descrive il suo modo impaziente di agganciare la collana dietro la nuca: «In quel momento la madre era riuscita finalmente a fare incontrare le due parti del fermaglio. Le mani riunite sulla nuca, il mento inchiodato sul petto, ella guardava a terra e ogni tanto, per l’impazienza, batteva il tacco sul pavimento.» La figura della madre rimane centrale per buona parte del romanzo: «Gli parve, ad un tratto, di ricordarsi sua madre, come era stata in gioventù, e provò un vivo, accorato sentimento di costernata ribellione contro la decadenza e la corruzione che la avevano cambiata dalla fanciulla che era stata alla donna che era.»
Qui, al contrario, il protagonista è un uomo, Marcello Clerici, il quale, già da ragazzo, si distingue dai coetanei: «era crudele senza rimorso né vergogna, del tutto naturalmente, perché dalla crudeltà gli venivano i soli piaceri che non gli sembrassero insipidi». Si rende conto di questa diversità e da quel momento s’insinua in lui il dubbio di non essere una persona normale: «Così, egli era un anormale, non poteva fare a meno di pensare, o meglio di sentire, con una viva, fisica consapevolezza di questa anormalità, un anormale segnato da un destino solitario e minaccioso e ormai avviato per una strada sanguigna sulla quale nessuna forza umana avrebbe potuto fermarlo.» Il confronto con l’amico Robertino gliene dà conferma e avvia in lui un processo di avvitamento che pare irreversibile, alimentato dalla sua fragilità psicologica e complicato dalla tortuosità dei suoi pensieri, se si consideri che tutto nasce dal fatto che ha ucciso alcune lucertole, e poi, qualche giorno dopo, anche un gatto.
L’aspetto psicologico diventa da subito così dominante che la stessa natura ne è impregnata quale riflesso delle ansie ed insicurezze del protagonista: «L’edera, vecchia e gigantesca, saliva fino alle punte delle picche della cancellata, e le foglie, sovrapposte le une alle altre, grandi, nere, polverose, simili a volanti di trina su un petto tranquillo di donna, stavano ferme e flosce nell’aria pesante e senza vento. Un paio di volte, gli parve che un leggerissimo fremito facesse palpitare il fogliame o meglio inventò a se stesso di aver veduto questo fremito e tosto, con soddisfazione intensa, scagliò il sasso nel fitto dell’edera.»
D’ora innanzi noi dovremo immaginare, dunque, che ciò che circonda Marcello altro non è se non la proiezione della sua complessa e disturbata personalità.
Perfino la narrazione combacia con essa, giacché di ogni avvenimento che accade sotto gli occhi del ragazzo, l’autore ne fa sempre una minuziosa, scandita analisi; basti pensare alla conversazione tra la cuoca e la cameriera in presenza di Marcello quando, riferendosi al padre di lui, e non sapendo che l’uccisione del gatto non è opera del padre ma di Marcello, che a loro ha raccontato una bugia, la cuoca dice, riferendosi al padre: «Chi è cattivo con le bestie, è anche cattivo con i cristiani, si comincia con un gatto e poi si ammazza un uomo.» Che è il cruccio – quello di diventare un assassino – che assilla Marcello, il quale, in maniera ossessiva, va accrescendo in sé quel «desiderio di normalità», tanto drammatico in lui («quel che più importava era non svegliare il mostro e far trascorrere il tempo.») quanto sconosciuto alla maggior parte dei suoi coetanei. Un tale desiderio di normalità crea le premesse per fare di Marcello un «conformista». Tutto ciò che è spinto e guidato da «un’idea di ordine, di disciplina» diviene per lui come una strada maestra da percorrere con fiducia e sicurezza. Quando, dopo gli studi privati compiuti a casa, frequenta il ginnasio, «Ancora una volta era la normalità che l’attraeva; e tanto più in quanto gli si rivelava non casuale né affidata alle preferenze e alle inclinazioni naturali dell’animo bensì prestabilita, imparziale, indifferente ai gusti individuali, limitata e sorretta da regole indiscutibili e tutte rivolte ad un fine unico.»
L’incontro con uno spretato pederasta, Lino, che lo corteggia, giacché Marcello – che i compagni chiamano Marcellina – ha «quasi un viso di fanciulla» e «una perfezione di tratti quasi leziosa nella sua regolarità e dolcezza.», inasprisce questa ricerca di normalità. Marcello, infatti, non sa resistere alle lusinghe del suo adescatore: «né, d’altra parte, avrebbe potuto affermare che quell’affetto e la parte quasi femminile che gli toccava di recitare gli riuscissero veramente spiacevoli.»
Quell’insistente desiderio di uccidere si realizza proprio con lo spretato. Marcello, impossessatosi della sua pistola, gli spara a sangue freddo: «il solo contatto del calcio freddo dell’arma aveva destato nel suo animo una tentazione spietata e sanguinaria».
Trascorsi diciassette anni (siamo ora nel 1937) e diventato adulto, Marcello, che ora ha trent’anni, ritorna «a quello che considerava il fatto più importante della sua vita», del quale era stato scagionato dallo stesso Lino che, trasportato in fin di vita all’ospedale, aveva dichiarato che il ferimento doveva attribuirsi ad una fatale disgrazia accaduta mentre stava ripulendo l’arma. Vi ritorna in quanto vuole verificare se in lui persista quella fanciullesca anormalità o egli, come crede, sia divenuto invece «del tutto normale», giacché «scoprirsi insensibile voleva dire scoprirsi guarito.»
Si scopre insensibile, ma s’insinua in lui il sospetto che «l’antica infezione covava tuttora in forma di ascesso chiuso e invisibile.», «Come se il ricordo del fatto di Lino, pur dissolto dagli acidi potenti del tempo, avesse tuttora steso un’ombra inspiegabile su tutti i suoi pensieri e i suoi sentimenti.»
L’operazione che d’un tratto si dispiega nella mente di Marcello diventa, dunque, quella di trovare in sé la forza di una rassicurazione che scacci ogni dubbio; ciò darà luogo, come vedremo, ad una crescita della sua personalità quasi sempre altalenante, angosciosa ed insicura, che è il tema centrale del romanzo. Marcello si compara con gli altri: nel vestire, nel camminare, nel guardare, nei minuti gesti come quello di accendere una sigaretta o salire sull’autobus: «Sì, era eguale agli altri, eguale a tutti.» La stessa fidanzata Giulia, che sta per sposarlo, un giorno gli dice: «Come sei strano, tutti vorrebbero essere diversi da tutti […] e tu invece si direbbe che ci tieni ad essere come tutti.» Siamo negli anni del fascismo e della guerra di Spagna, Marcello ha trovato nel regime quell’ordine rassicurante che andava cercando. Ne è un fanatico sostenitore, al punto che, funzionario del ministero degli interni, si propone, d’accordo con le autorità, di avvicinare a Parigi un importante fuoriuscito, Edmondo Quadri, fingendosi desideroso di convertirsi alle sue idee, così da acquistare la sua fiducia e divenire in tal modo una spia fascista.
In realtà, questa odiosa missione offerta spontaneamente e con entusiasmo non rientra affatto nei canoni della normalità, ma Marcello non se ne rende conto, almeno per il momento. Infatti, pensa che «La missione era forse il passo più fermo, più compromettente e più decisivo sulla via della normalità definitiva».
Anche quando Giulia e sua madre lo definiscono un uomo buono, Marcello torna a dubitare: «O non era piuttosto ciò che Giulia e sua madre chiamavano bontà, la sua anormalità, ossia quel suo distacco, quella sua assenza dalla vita comune?»
Ci si mette di mezzo pure la confessione che Marcello deve assolvere per poter accedere al matrimonio religioso. Come deve comportarsi con la storia di Lino e soprattutto con il fatto che egli è un omicida? Deve confessare anche la missione che sta per compiere a Parigi?
Ecco perciò che, nel corso di questa riflessione, si rende conto che: «un nesso sottile univa queste due cose; anche se, poi, gli sarebbe stato difficile dire con chiarezza in che cosa consistesse questo nesso.»
Moravia traccia la vita di un uomo che, sebbene debole ed immaturo, è in realtà il solo artefice, anche se inconsapevole, del proprio destino. Nonostante più avanti si legga che egli pensava di essere «un filo, nient’altro che un filo di umanità attraverso il quale passava senza posa una corrente di energia terribile che non dipendeva da lui di rifiutare o di accettare.», ciò che gli accade avviene perché egli stesso lo prepara e ne dispone. I dubbi, le manchevolezze, le paure si trasformano sempre in gesti ed azioni, ossia agiscono fisicamente e pesantemente su di lui. Essi, vale a dire, hanno una loro potente ed intrinseca fisicità, e rappresentano per lui ciò che egli stesso definisce una inevitabile «dannazione».
Un legame di questa intrinseca angoscia, lo si può trovare anche con la figura tragica del padre, Antonio, ormai rinchiuso in manicomio, la quale consente a Moravia di proiettarvi l’inquietudine e i tormenti irrisolti di Marcello («Che nesso correva tra la pazzia paterna e l’essere suo più segreto?»), e nello stesso tempo di collegare la sua fede nell’ordine fascista con i vaneggiamenti squinternati del padre, attraverso il quale l’autore, come aveva fatto Charlie Chaplin nei confronti di Hitler ne «Il grande dittatore», del 1940, scimmiotta Mussolini. Dice il padre al professore Ermini, direttore della clinica: «Ecco la dichiarazione di guerra […] io non ce la faccio più […] la porti lei a chi di dovere […]»
Marcello, nel momento in cui cerca in ogni cosa (nello stesso matrimonio con Giulia) i segni della sua normalità, in effetti genera un movimento che lo allontana da essa, tanto che si può dire che la ricerca della normalità diventa in lui il ribadimento della sua anormalità. Qualche volta se ne rende conto: «La normalità, come aveva pensato, era, ormai, altrove o, forse, era ancora da venire e andava ricostruita faticosamente, dubbiosamente, sanguinosamente.», e ancora: «Non soffriva di questo smarrimento, al contrario gli piaceva come un sentimento che gli era familiare e costituiva, forse, il fondo stesso dell’essere suo intimo.», al punto che il cammino di Marcello potrebbe essere anche, contro tutte le apparenze («Per Giulia, la normalità non era, come per lui, da trovare né da ricostruire; c’era; e lei vi stava immersa qualsiasi cosa fosse avvenuta, non ne sarebbe mai uscita.), il misterioso passaggio che tutti noi viviamo, senza distinzioni, tra l’adolescenza e l’età adulta, tra l’immaturità e la maturità.
Tutto ciò emerge per la speciale qualità di Moravia di entrare dentro la psicologia del personaggio, non solo, ma tale penetrazione è spesso preceduta da una descrizione fisica così correlata, puntuale e analitica da preannunciarla. Lo abbiamo già constatato con la madre di Marcello, ma la stessa operazione è evidente in Giulia, per non parlare poi dello splendido ritratto grazie al quale facciamo, nel capitolo terzo della parte seconda, la conoscenza del professor Edmondo Quadri («gobbo, storto, miope, barbuto»; esule a Parigi «vi era diventato ben presto uno dei capi dell’antifascismo, forse il più abile, il più preparato, il più aggressivo.»), di cui vale riportare un breve passaggio: «Quadri aveva un viso curiosamente piatto e asimmetrico, simile ad una maschera di cartapesta dagli occhi orlati di rosso e dal naso triangolare, alla quale, sulla parte inferiore, fossero stati incollati in maniera sommaria una barba e un paio di baffi posticci. Anche sulla fronte, i capelli troppo neri e come madidi suggerivano l’idea di una parrucca male applicata. Tra i baffi a spazzola e la barba a scopetto, ambedue di una nerezza sospetta, si intravvedeva una bocca molto rossa, dalle labbra informi».
Più avanti, quando Marcello è a Parigi, troviamo la descrizione della moglie di Quadri, Lina: «Si avvicinò attraverso il pavimento specchiante, alta e singolarmente elastica e graziosa nel modo di camminare, in un bianco vestito estivo dalla gonna scampanata. Per un momento Marcello non poté impedirsi dal guardare, con una specie di furtivo piacere, all’ombra del corpo di lei, profilata nella trasparenza dell’abito: ombra opaca ma dai contorni precisi, elegante, come di ginnasta o di danzatrice.» La donna è appena comparsa davanti agli occhi di Marcello e pare già di sapere tutto di lei grazie ai due particolari messi in risalto: la sua camminata «elastica e graziosa» e l’ombra del corpo di lei che si intravede sotto la veste e la fa apparire come «ginnasta» o «danzatrice».
Sono descrizioni che rifulgono per la sapienza narrativa con cui il ritratto che si compone trasferisce all’esterno, attraverso l’immagine, il magma interiore che muove il personaggio. Questo che segue è il ritratto del vecchio il quale, quando Marcello se ne sta seduto sulla panchina in fondo all’Avenue des Champs Elysées, scende dalla vecchia Rolls Royce e gli siede accanto: «Di profilo, la bocca rossa e capricciosa, il naso dritto e grande, i capelli biondi ricadenti con una ciocca quasi monellesca sulla fronte, facevano anzi pensare che fosse stato un adolescente assai leggiadro: forse uno di quegli atleti nordici che uniscono la grazia della fanciulla alla forza virile.»
Il vecchio gli ricorda Lino, nonché il ribrezzo che aveva provato di fronte a lui; però questa volta c’è qualcosa che non si attendeva, soprattutto dopo la passione che aveva scatenato in lui la visione di Lina, la bella moglie di Gradi. La novità consiste nel fatto che quella alta figura di vecchio lascivo, la cui mano nel dargli il braccio «non stava ferma: andava su e giù per il braccio del giovane con una carezza già possessiva», esercitava su di lui un fascino perverso, capace di attrarlo: «la macchina era là, che li aspettava entrambi, ed egli, come capì, sarebbe stato invitato a salirvi, come tanti anni prima. Ma ciò che lo atterriva di più era di sapere che non avrebbe rifiutato l’invito.»
Ecco, dunque, che il lungo lavoro svolto in tutti quegli anni per sconfiggere l’anormalità s’infrange nel momento in cui, saliti che sono in macchina, alle proteste che Marcello gli rivolge di non essere «quello che credete […]», il vecchio si scusa, confessando: «Mi sbaglio raramente […] avrei giurato che voi […]» Come quando andava a scuola e i compagni lo soprannominavano Marcellina, anche ora, sebbene adulto, egli continua ad ispirare negli altri una perversa femminilità che credeva di aver sopito. A nulla sono valsi il suo impegno e la sua ostinazione: «Come i compagni, il vecchio non credeva alla sua virilità; come i compagni si ostinava a considerarlo una specie di femmina.» Tuttavia, riesce a sottrarsi alle insidie dell’uomo, minacciandolo con la pistola, ma il turbamento provato genera in lui uno sconforto ed una paura inattesi.
Il cammino di Marcello è, dunque, sempre di più tortuoso e tormentato. Una forza superiore, sadica e cinica, pare voler combattere la sua volontà, così che un tale duello impari trasforma presto la vita del protagonista in un rabbioso incubo, in una ragnatela di insidie e lusinghe all’interno della quale la realtà assume il terrificante significato di un nemico oscuro e invincibile. Vedrete che anche in Lina, per la quale nutre, non ricambiato, una momentanea passione («quella fugace apparizione dell’amore nella sua vita»), alberga una contorta anormalità, al punto che, accanto alla esaltazione dei sensi, Marcello incontra in lei la deludente conferma della propria vulnerabilità. Sembra l’avvio di una capitolazione irreversibile: «In questo mondo balenante e oscuro, simile ad un crepuscolo tempestoso, queste figure ambigue di uomini donne e di donne uomini che si incrociavano raddoppiando e mescolando la loro ambiguità, sembravano alludere ad un significato anch’esso ambiguo, legato, tuttavia, come gli pareva, al suo destino e alla comprovata impossibilità di uscirne.»
Non è un caso che, nel momento in cui Marcello sta vivendo una insicurezza tra le più cupe e tenebrose, Moravia decida di dare una svolta esaltante alla figura di Giulia, che si rivela un’anima semplice, spontanea, trasparente, ingenua, legata alla vita. Innamorata del marito di un «amore cieco e solidale», ne diventa in qualche modo il contrappunto e agisce in lui con un movimento il cui esito definitivo non conosceremo mai se non sotto le apparenze di una ipotesi e di una speranza: ciò che scopre di Lina verso Giulia «era l’amore che in un mondo diverso, con una vita diversa, sarebbe stato destinato a lui, che l’avrebbe salvato, di cui avrebbe goduto.»
In effetti, gli avvenimenti che si susseguono e in cui è coinvolto, sempre nel tentativo di raggiungere quella normalità agognata, non si rivelano mai risolutivi, anzi, esattamente il contrario, aggravando il suo stato d’animo. Una specie di male oscuro continua a perseguitarlo, nonostante che egli ne abbia individuato tutti i contorni ed abbia messo a fuoco il proprio impegno per sconfiggerlo. Marcello, in questa lotta aspra e continuamente da ricominciare, si mostra ostinato, tenace, perfino durante i frequenti momenti di malinconia; si sforza di costruire da sé il suo destino; le sue azioni sono lucidamente programmate ai fini di una normalità da possedere per sempre; eppure le sue battaglie hanno il sapore amaro della sconfitta. Moravia ci mostra, così, l’impotenza d’un uomo – nonostante il proprio risoluto, costante e vigoroso impegno – la cui sconfitta è sanzionata fin dalla nascita: «sarebbe forse stato possibile che le cose avessero potuto andare altrimenti? No, non sarebbe stato possibile». È, anche, una sconfitta che fa di Marcello un paradigma, nel momento in cui, nei giorni della caduta del fascismo, egli si trova a riflettere che quella normalità «che egli aveva ricercato con tanta tenacia per anni», «si rivelava puramente esteriore e tutta materiata di anormalità.» Perciò: «il primo e maggiore errore era stato di voler uscire dalla propria anormalità», «di aver voluto obliterare il vizio di origine della propria vita con mezzi inadeguati.» Al punto che non può che constatare che «per ottenere questa normalità aveva dovuto pagare un prezzo corrispondente al fardello di anormalità di cui aveva inteso liberarsi».
La simultaneità dei tempi consente anche di dedurre che se è vero che Marcello trova nell’adesione al fascismo una possibilità illusoria di riappropriarsi di una normalità insidiata, è altrettanto vero che vi è una stretta correlazione tra lui e il fascismo: e i suoi drammi interiori, le incertezze, le angosce, i turbamenti e le sconfitte sono molto di più che una coincidenza: ossia, la vita di Marcello altro non è se non il fascismo stesso riflesso nel singolo, così come la folla esultante nelle strade di Roma per la caduta del regime, offre a Marcello la speranza che la meta agognata per tutta la vita, il ritorno alla normalità e la sua conquista definitiva, non sono estranee e impossibili. Non è, infatti, casuale che nei giorni della caduta del fascismo egli apprenda alcune cose – che il lettore scoprirà da sé – grazie alle quali, come dice uno dei personaggi: «tutti, Marcello, siamo stati innocenti […] non sono forse stato innocente anch’io? E tutti la perdiamo la nostra innocenza, in un modo o nell’altro […] è la normalità.» Ossia, la normalità altro non è che il riconoscimento della presenza in noi della anormalità. Così che quel viaggio finale a Tagliacozzo (un paese posto in cima ad «un monte solitario»: «un borgo di poche case raggruppate sotto le torri e le mura del castello.»), lasciando Roma, dove non tornerà più, mentre rappresenta per Giulia la ordinaria fine malinconica di un periodo assai sereno e felice, per Marcello è la importante scoperta di un modo nuovo di essere se stessi, l’abbandono del «miraggio di una normalità che non esisteva»: un inizio, dunque, sia pure nel breve spazio di tempo che ancora gli sarà concesso di vivere: «gli parve che una specie di ottimismo, il primo dopo tanti anni, insieme avventuroso e spavaldo, sgombrasse finalmente, simile ad una raffica di vento impetuoso, il cielo tempestoso del suo animo.»