Renato Serra, Lettere in pace e in guerra, a cura di Milva Cappellini, Prefazione di Geno Pampaloni, collana «Percorsi del Novecento», Nino Aragno Editore, Torino 2001, pp. 285, euro 11,36, ISBN 978-88-8419-031-2

Lettere in pace e in guerraTravedere un uomo dalle sue lettere (ove non siano composte già pensando alla loro pubblicazione) può risultare imbarazzante quanto spiarlo dal buco della serratura. Al tempo stesso, però, può risultare illuminante per capirne i moti spirituali ed emozionali.

Preziosa è dunque quest’edizione di qualche anno fa, che ha riproposto – a cinquant’anni dalla seconda e ultima edizione dell’epistolario di Serra, un centinaio di lettere, capaci di lumeggiare la complessa figura di un uomo importante per la nostra cultura d’inizio secolo (scorso).

Renato Serra (1884 – 1915) è considerato tra i massimi critici letterari. Eppure, a guardare con attenzione, critico non è. Geno Pampaloni rileva nella sua breve ma efficace «Prefazione»: «Era un filologo nato, nutrito di severi studi classici, e non gli era estranea la problematica della filosofia europea del suo tempo: ma di tutto ciò si serviva come di un sottofondo esistenziale, accessorio al momento esaltante e supremo della lettura di poesia. Del resto neanche il pur adorato maestro, il Carducci, a Serra appariva «né uno storico né un critico propriamente»; ma subito correggeva: «Spesso non sa criticare, ma sa leggere, sempre»»(pag. 7). Il suo itinerario critico, pur guidato da efficaci strumenti di analisi testuale e comparativa, si conclude sempre nel piacere di un contatto vitale e profondamente personale. Così in una lettera all’amico Luigi Ambrosini del 1907: «Quando ricerco le ragioni della mia preferenza con calma di critico, trovo un punto in cui il rationabile vien meno; scopro l’anima nuda. Li amo perché sono fatto per amarli; qui finisce la critica» (pag. 63).

Serra in divisa militareCritico-lettore, dunque. E – ancora continua Pampaloni – critico-scrittore, «senza dubbio quello di più alta qualità e di più vibratile poesia del nostro Novecento – che aveva il bisogno e il dono di restituire creativamente, nel proprio stile, le emozioni della lettura» (pag. 8). E critico-testimone. Si tenne volontariamente appartato, nella sua Cesena e nella Biblioteca Malatestiana, che diresse per qualche anno; lontano dalle riviste ideologiche e combattive come dal mondo accademico, in un atteggiamento quasi superbo di difesa della propria libertà di pensiero e di giudizio. Così giustifica a Giuseppe De Robertis (è il 10 giugno del 1911) la sua collaborazione con la rivista «La Romagna», diretta dall’amico Alfredo Grilli: «Bisogna ch’Ella sappia che la Rom. è una rivista molto singolare, e molto diversa forse dalla sua opinione; semiclandestina, irregolarissima nella stampa e diseguale nel contenuto, affidata come a un filo molto debole alla cocciutaggine di un direttore che non si decide a lasciarla morire e non si cura di farla vivere [ […]] e ci scrivo io, per amicizia vecchia con quelli che la fanno e anche per noncuranza perfettissima della fortuna di quel che scrivo e dei lettori e della loro opinione» (pag. 141). Eppure visse il suo tempo con appassionata fraternità. «Seppe accostarsi – nota ancora Pampaloni – con animo di vero contemporaneo, con un accento di partecipazione severa, ma amichevole, che rappresentò una vera novità, e dette un colpo di grazia alle consuetudini accademiche del lavoro critico» (pag. 8).

Toccanti si fanno le ultime lettere, quelle della breve partecipazione alla Grande Guerra (Serra, tenente del XI Reggimento di fanteria, muore sul Podgora, nel pomeriggio del 20 luglio 1915, nel corso di un sanguinosissimo assalto, colpito alla fronte). In quelle settimane e in quelle lettere si accentua un senso di seria maturità e di necessità di un addio silenzioso e affratellato: «Oggi bisogna ch’io vada e tutto quello che non ho detto o fatto, che resti indietro!» (lettera a Giuseppe De Robertis del 6 luglio 1915); e ancora, al fratello Nino, otto giorni dopo: «La faccia della guerra, quando la fissi da vicino, e senza velo, non ti mette voglia di chiacchierare […]» (pag. 244).

Prezioso, dunque, questo libro di cui consigliamo la lettura. Spiace, è vero, la mancanza di indici dettagliati, che aiuterebbero il lettore più avvertito; ma a lui viene in soccorso il bel saggio conclusivo di Milva Maria Cappellini, curatrice dell’opera.