Storia d’un giovane prete

di
Robert Louis Stevenson

tempo di lettura: 23 minuti


Il Reverendo Mr. Simon Rolles eccelleva nello studio delle Scienze Morali e piú che mediocri progressi aveva fatto nello studio della Divinità. La pubblicazione d’una sua tesi sul «concetto cristiano delle obbligazioni sociali» gli aveva anzi procacciato una certa celebrità all’Università di Oxford, e, fra gli studiosi di problemi religiosi, si diceva che il giovine Rolles stava lavorando a un’opera assai importante intorno all’autorità dei Padri della Chiesa. Tutta questa dottrina e questi ambiziosi disegni eran tuttavia ben lontani dal dare qualche pratico indirizzo alla sua vita; ed egli era in cerca della sua prima cura d’anime, quando, un giorno, vagabondando a caso per quei paraggi di Londra dove avvennero i fatti testé narrati, fu indotto dall’aspetto tranquillo e signorile del giardino, dal bisogno di studio e di solitudine e dalla modicità del prezzo dell’alloggio, a prender dimora presso Mr. Raeburn, il giardiniere proprietario della casa di Stockdove Lane.
Dopo aver sgobbato sette o otto ore intorno a S. Ambrogio o a S. Grisostomo, Mr. Rolles aveva l’abitudine ogni pomeriggio di fare un passeggino di qualche oretta in mezzo ai rosai del giardino, meditando. Anzi, di consueto, era quello uno dei momenti piú fecondi della sua giornata. Tuttavia né la sua disposizione al meditare, né l’entusiasmo con cui si metteva attorno a problemi religiosi, eran cosí forti da sottrarre lo spirito del nostro filosofo dai più tenui contatti e urti della vita. Cosí che, quando vide il segretario del Generale Vandeleur tutto lacero e sanguinante in compagnia del padrone di casa, quando s’accorse che tutt’e due mutavan di colore e cercavan eludere le sue domande, e, soprattutto, il primo che negava la sua identità così sfacciatamente, ben presto dimenticò i suoi Santi e i suoi Padri e si pose a meditare su quella strana faccenda.
«Non v’e dubbio,» pensava «quello era proprio Mr. Hartley in persona. Ma come diavolo è piovuto qua dentro? E perché nega il suo nome? E che affari può egli avere con quel birbante del mio padrone?»
Mentre si faceva queste domande, un’altra circostanza attirò la sua attenzione. Mr. Raeburn era apparso alla finestra terrena vicino alla porta, e, a caso, i suoi occhi s’erano scontrati con quelli di Mr. Rolles. Subito, come interdetto e spaventato, il giardiniere aveva calate giú a furia le cortine.
«Uhm, sarà cosa bellissima,» pensò Mr. Rolles «ma ci vedo poco chiaro. Quest’uomo ha un certo fare soppiattone, come chi non vuol essere scorto. Giurerei che que’ due stanno combinando qualche marachella».
Quell’agente di polizia segreta che, dal poco al tanto, dorme in ciascuno di noi, si destò nel petto di Mr. Rolles e reclamò luce. Allora, con un passo vispo, alquanto in contrasto col suo portamento austero, s’avviò a fare il giro del giardino. Di lí a poco arrivò al luogo dove Harry era saltato dal muro, e scorse il rosaio tutto guasto, e, lí presso, il terreno calpestato. Levò lo sguardo al muro e vide che i mattoni in quel punto erano sbreccati e che un brandello di pantalone svolazzava impigliato in uno di quei cocci di bottiglia che ne incoronavano la cima. Era quello, dunque, il modo che usava l’amico per entrare in un giardino come si deve, a visitare de’ rosai?
Si chinò e, fischiettando, si diè ad esaminare il terreno. Potè subito stabilire il punto dove Harry aveva toccato terra, e quello dove il piede largo e piatto di M. Raeburn era affondato nel terreno per lo sforzo da lui fatto nel pigliar per il collo il giovinotto. Anzi, dopo piú attento esame, gli sembrò perfino distinguere segni di dita che dovevano aver brancicato qua e là a raccogliere qualcosa che vi si fosse rovesciato e sparso.
«La cosa comincia a diventare interessante». E, proprio in quella, scorse un oggetto che stava quasi tutto sprofondato nel terreno. Svelto lo disotterrò, e vide ch’era un elegante astuccio rilegato in marocchino con cerniera e fregi dorati. Quest’astuccio stava profondamente calcato entro il terreno, e perciò era sfuggito alle affrettate ricerche di Mr. Raeburn. Mr. Rolles lo aprì, e scoppiò in un grido di meraviglia. Davanti a lui, adagiato sul suo posatoio di velluto verde, stava un diamante di straordinaria grandezza e dell’acqua la piú bella. Era grosso quanto un uovo d’anitra, assai finemente faccettato, e senza macchia. E poiché il sole vi batteva su, un fulgore come di scintilla elettrica ne sprizzava fuori, sí che pareva ardere fra le sue mani, come se mille fiamme avvampassero dentro al suo cuore.
Il giovine prete poco s’intendeva di pietre preziose, ma il Diamante del Rajà era tal portento che si raccomandava da sé.
La favolosa bellezza della pietra affascinava lo sguardo del prete, l’idea del suo sconfinato valore confondeva il suo spirito. Ben sapeva egli che quel tesoro valeva anni ed anni delle sue ricerche episcopali, che con quello avrebbe potuto costruir cattedrali più belle di quelle d’Ely o di Colonia, che, potendone disporre, non avrebbe piú sofferto le penurie della sorte e abbandonarsi intieramente alle sue inclinazioni di studioso, senza stenti, senza incomodi, senza agitazioni. E intanto se l’andava rigirando fra le mani e quello gli spediva su raggi sempre piú vividi, che lo ferivano proprio diritto al cuore.
Spesso azioni decisive furono operate d’un tratto e senza che vi pigliasse parte la ragione. Era il caso di Mr. Rolles, che, data una rapida occhiata all’ingiro, e non vedendo che il giardino pieno di sole e gli alti alberi e le finestre della casa con le cortine calate, rinchiuse l’astuccio, lo intascò e s’avviò verso lo studio con la sveltezza d’un ladro.
Nelle prime ore del pomeriggio arrivò la polizia con Harry Hartley. Il giardiniere, spaventatissimo, finì col rivelare il suo tesoro, i gioielli furono identificati e ne fu fatto un inventario in presenza di Harry. Quanto a Mr. Rolles si mostrò assai cerimonioso con gli agenti della polizia, confidò con schiettezza quanto sapeva sul caso, e si disse assai dolente di non poter essere loro di maggior giovamento.
«Credo, tuttavia,» aggiunse «che le vostre ricerche sieno prossime alla fine».
«Per nulla» rispose uno di quegli ufficiali, ch’era uno scozzese. E gli narrò la seconda rapina di cui Harry era stato vittima, e gli fece una descrizione dei gioielli piú importanti che ancor non erano stati ritrovati, dilungandosi in particolar modo sul Diamante del Rajà.
«S’è come dite, deve valere un’intera fortuna» osservò Mr. Rolles.
«Una fortuna? Ma dieci, venti fortune!» ribatté l’ufficiale.
«Il piú» soggiunse il prete, maliziosamente, «è trovare da venderlo. Quelle cose lí hanno una fisionomia cosí particolare!»
«Vero, ma per poco che il ladro sia astuto, può farlo in tre, quattro pezzi, che tanto ne avrà sempre abbastanza da farsi ricco».
«Vi ringrazio della informazione» soggiunse Mr. Rolles. «Non potete credere quanto m’interessi».
Sul che il funzionario ammise che la loro professione li portava spesso a conoscere di molte e strane cose, poi si congedò.
Mr. Rolles salì alla sua camera. Dio, come gli sembrava angusta e nuda! Gittò sulla libreria un’occhiata, poi ne tolse, volume per volume, parecchi Padri della Chiesa, e li scorse rapido ma nessuno conteneva qualche insegnamento adatto al suo caso.
«Questi vecchi signori» pensava «son senza dubbio de’ molto degni scrittori, ma nessuno di essi conosce la vita. Ed eccomi qua, con tanta dottrina in corpo da esser vescovo, incapace di disporre d’un diamante rubato. Bell’insegnamento che ci danno all’Università!»
Richiuse lo scaffale, si mise il cappello, uscì, e si recò al club dov’era socio. Là, in quel ritrovo frequentato da gente di mondo, sperava imbattersi in qualche persona avveduta e bene sperimentata. Nella sala di lettura c’erano dei preti e un arcidiacono, tre giornalisti e uno scrittore che si occupava di alta metafisica, e questi giocavano a carte. Piú tardi, all’ora del pranzo, il club si gremí delle figure anonime e insignificanti de’ suoi frequentatori. «Nessuno di questi» pensava Mr. Rolles «saprebbe illuminarmi sul mio tema delicato, più di quanto lo sappia io stesso».
Finalmente, nella sala da fumare, trovò un signore di nobile portamento e vestito con dignitosa semplicità, che stava fumando il sigaro e leggendo la «Fornightly Review». La sua faccia era stranamente sgombra da ogni segno di preoccupazione e di fatica, e c’era alcunché nel suo aspetto che invitava a confidenza o aspettava sommissione. E piú Mr. Rolles scrutava le sue fattezze, piú si convinceva d’esser caduto su l’uomo ch’egli desiderava, capace di fornirgli un consiglio profittevole.
«Scusate, signore, se v’importuno,» cominciò egli «ma si è che dal vostro aspetto mi sembrate un uomo da conoscere assai bene il mondo».
«Infatti ho qualche titolo a questa nobile qualità» rispose il signore deponendo da un lato la rivista e fissando Mr. Rolles in viso tra il sorpreso e il divertito.
«Io, signore,» continuò Mr. Rolles «sono un solitario, un uomo di studio, una creatura sempre alle prese con le boccette d’inchiostro e gl’in-folio di patristica. Un caso che m’è occorso recentemente m’ha messo davanti agli occhi, in tutta la sua evidenza, questa mia follia. Ed ora desidero istruirmi nella vita. E per vita» soggiunse «non intendo mica le novelle del Thackeray: ma delitti e occulti movimenti della società, e le norme di condursi con destrezza in mezzo ad eventi strani ed eccezionali. Io sono un lettore paziente, signor mio: ditemi dunque voi, tutto questo ch’io vi domando può essere appreso dai libri?».
«Mi mettete un po’ nell’imbarazzo» rispose il signore. «Confesso ch’io non credo gran che all’utilità dei libri, tranne di quelli che leggo in ferrovia; quantunque non nego vi siano molti buoni trattati sull’astronomia, sullo studio delle sfere, sull’agricoltura e sull’arte di fare i fiori di carta. Ma sulla vita vera e propria, credo non trovereste nulla di buono… Tuttavia, aspettate… Avete letto Gaboriau?»
Mr. Rolles confessò di non aver mai udito quel nome.
«È uno scrittore che può giovare al caso vostro… Intanto è molto letto dal Principe di Bismark, quindi, alla peggio, vi troverete, leggendolo, in buona compagnia».
«Vi sono infinitamente grato».
«Sono io che son grato a voi».
«E per che?»
«Per la novità della questione che m’avete sottoposto» rispose il signore, e fatto un gesto cortese come di commiato, si rituffò nella lettura della «Fortnightly Review».
Tornando a casa, Mr. Rolles acquistò lungo la strada un trattato sulle pietre preziose e alcune novelle di Gaboriau. Quest’ultime lesse avidamente sino a ora inoltrata del mattino, ma quantunque gli venissero suggerendo idee nuove, non riuscì tuttavia a scoprir lí dentro il minimo consiglio sul che cosa dovesse fare col suo diamante rubato. Oltreché lo tediava quel dover cercare di dedurre e scoprire ragguagli sparsi in cento storie fantastiche, anziché sobriamente raccolti e distesamente esposti come in un manuale. Tuttavia non poté trattenere la sua ammirazione per la figura e la destrezza di Lecoq.
«Era pur un grand’uomo!» pensava Mr. Rolles. «Come lo conosceva il mondo! Nulla che quel demonio non sapesse intraprendere e condurre a termine da sé attraverso difficoltà le piú scabrose. Per tutti i Santi!» esclamò subito dopo. «Ma non è qui la lezione ch’io cerco? Non potrei anch’io, come fece Lecoq, imparare a tagliare il mio diamante da me?»
Gli parve allora d’esser uscito dagli scogli di tante incertezze. Ricordò che a Edimburgo dimorava un suo amico, un gioielliere, tale B. Macculloch, il quale certo sarebbe stato contento di ammaestrarlo in quell’arte di tagliar diamanti. Pochi mesi, pochi anni forse di un tedioso ed oscuro tirocinio, ed egli avrebbe acquistata la capacità sufficiente per tagliare e vendere con profitto il Diamante del Rajà. Fatto questo, aveva in animo di tornare alle sue ricerche religiose che avrebbe potuto condurre avanti con tutto suo agio, da ricco e sontuoso studente, invidiato e rispettato da tutti. Auree visioni scesero a visitarlo durante il sonno, ed egli si svegliò, ristorato ed allegro, col sole della mattina.
La casa di Raeburn fu chiusa per ordine della Polizia, il che offrì al prete un ottimo pretesto per andarsene di là. Fatto su il suo baule, si recò alla stazione, lo depositò al bagagliaio, poi tornò al Club dove aveva intenzione di passare il pomeriggio e pranzarvi.
«Stasera» gli disse colà un amico «se pranzi qui potrai conoscere due uomini veramente straordinari: il Principe Florizel di Boemia e il vecchio John Vandeleur».
«Del Principe già ho udito parlare, e, quanto al Generale Vandeleur l’ho incontrato qualche volta in società».
«Il Generale Vandeleur è un somaro» rispose l’altro. «Ma questi è John, suo fratello, grande avventuriero e intenditore di pietre preziose, e uno de’ diplomatici più fini ch’abbia l’Europa. Non hai sentito parlare del suo duello col Duca di Val d’Orge? o delle sue gesta e atrocità come Governatore del Paraguay, o dell’abilità da lui spiegata nel ricuperare i gioielli di Sir Samuel Levi o de’ suoi servigi durante la rivolta dell’India, servigi di cui il Governo profittò ma che non volle riconoscere? Corri da basso, mettiti a tavola vicino a loro, e tien bene le orecchie aperte che ne udrai di belle…»
«Ma come riconoscerli?»
«Ti sarà facile. Il Principe è il piú distinto gentiluomo che sia in Europa, la sola creatura vivente che abbia aspetto e portamento davvero regali. Quanto a John Vandeleur hai da figurarti Ulisse a settant’anni, con in piú una cicatrice di sciabolata attraverso la faccia».
Rolles si precipitò in sala da pranzo. L’amico aveva ragione. Era impossibile sbagliarsi con due tipi come quelli
Il vecchio Vandeleur aveva un corpo vigoroso che appariva usato e rotto agli esercizi piú difficili. Non aveva propriamente la complessione fisica d’uno schermidore, di un marinaio, e nemmeno quella del cavalcatore indurito sulla sella, ma c’era in lui un po’ di tutto questo, qualcosa che era come il risultato e l’espressione di esercizi ed agilità diverse. Le sue fattezze eran piene di baldanza ed aquiline, l’espressione del suo viso, arrogante e predace: l’intero suo aspetto rivelava un uomo destro, violento e senza scrupoli, e i folti capelli bianchi e la profonda sciabolata che gli tagliava il viso dalla tempia al naso aggiungevano una sensazione selvaggia alla sua testa già ricca di minaccia.
Quanto al Principe di Boemia, Mr. Rolles fu assai sorpreso di riconoscere in lui il signore che poco prima gli aveva consigliato di leggere Gaboriau. Il Principe, che raramente compariva in quel club di cui era, come di molti altri, socio onorario, in quel momento, quando Simone gli si avvicinò, doveva star senza dubbio aspettando John Vandeleur.
Un po’ intimiditi dalla presenza di quei due personaggi, gli altri soci del club se ne stavano in disparte, lasciandoli come isolati; ma il giovine prete, che non si sentiva trattenuto da alcun riverenziale timore, si pose senz’altro a sedere ad una tavola accanto.
Fra i due era avviata una conversazione che riuscì assai nuova e strana allo studente. L’ex dittatore del Paraguay raccontava la sua straordinaria vita per i paesi più diversi del mondo, e il Principe veniva sottolineando quella narrazione con alcuni commenti che, ad un uomo di riflessione, potevan sembrare in certo modo più interessanti de’ fatti medesimi. Davanti al giovine prete si svolgevano due forme di esperienza, delle quali egli non sapeva qual piú ammirare: se quella dell’attore violento, o quella del saggio raffinato ed esperto; non sapeva se più acconsentire a colui che narrava di audaci azioni e pericoli o a quegli che, simile a un Dio, dimostrava di conoscere tutte le cose senza averne patita nessuna. I loro modi, poi, erano propriamente attagliati a quei loro caratteri. Il Dittatore parlava e gestiva con brutalità, spalancando e richiudendo la mano per picchiarla con violenza sulla tavola, e la sua voce era cupa ed impetuosa. Il Principe invece pareva la dolcezza e la mansuetudine in persona: in lui la piú piccola movenza o inflessione di voce assumeva un senso ben piú profondo che non tutte le sfuriate o la mimica irruente del compagno.
Finalmente ecco che il discorso cadde sull’ultima rapina del giorno e sul Diamante del Rajà.
«Quel gioiello starebbe meglio in fondo al mare» osservò il Principe Florizel.
«Come Vandeleur» rispose il Dittatore «permetta Vostra Altezza che io dissenta dalla sua opinione».
«Dico questo per ragioni di pubblica sicurezza» replicò il Principe. «Gioie d’un valore così inestimabile dovrebbero essere riserbate soltanto a collezioni di Principi o a tesori di nazioni. Portarle in giro così per il mondo, mescolarle alla sorte della gente comune, è come dire mettere un prezzo sul capo della virtù. Se quel Rajà di Kashgar, un Principe, a quanto dicono, assai illuminato, avesse voluto pigliarsi vendetta dell’Europa tutta quanta, certo non sarebbe riuscito meglio nel suo intento che gettando fra noi quel pomo della discordia. Non c’è robustezza d’onestà che resista a seduzioni di quel genere. Io stesso, che pure godo d’una quantità di diritti e di privilegi, io stesso, Vandeleur, se mi capitasse tra mano quel diabolico cristallo, non mi salverei. Quanto a voi che siete cacciatore di diamanti per gusto e professione, credo non vi sarebbe delitto al mondo non sareste disposto a commettere, come tradire un amico, sacrificare i vostri figlioli, e perché? Non per diventare più ricco o aver maggiori agi e rispetto dalla gente, ma semplicemente per dire che quel diamante è vostro e poter aprire, a quando a quando, la sua custodia, e rimirarvelo a vostro piacere, là, davanti a voi, come un bel quadro».
«Sí,» rispose Vandeleur «cose n’ho cacciate parecchie nella mia vita: mi sono tuffato nell’acqua alla ricerca del corallo, ho cacciato balene e tigri, ma un diamante, lo confesso, sarebbe la piú bella preda di tutta la mia vita. Ha bellezza e valore. Esso solo può compensare adeguatamente la dura fatica della caccia. In questo momento, come Sua Altezza può immaginarlo, sono sulla traccia della straordinaria preda. Ho fiuto sicuro, larga esperienza. Conosco una ad una tutte le pietre preziose della collezione di mio fratello, come un pastore le sue pecore: e ch’io crepi, se non riuscirò a ricuperargliele una per una».
In quella il cameriere venne ad avvertire che il cab di Mr. Vandeleur era alla porta.
Mr. Rolles diè un’occhiata all’orologio e vide ch’era tempo che anch’egli partisse. Questa coincidenza, però, gli spiacque un poco, perché, francamente, avrebbe desiderato non vederlo più, quel cacciatore di diamanti.
Arrivato alla stazione, salì su un vagone letto di prima classe. La lunga abitudine allo studio avendo scosso alquanto i suoi nervi, egli si concedeva di viaggiare un po’ comodamente.
«Starete a vostro agio qua dentro» gli disse il controllore. «Nel vostro scompartimento non c’è nessuno; soltanto un vecchio signore è all’altro lato del treno».
Era prossima l’ora della partenza, e i biglietti eran già stati bucati quando Mr. Rolles scorse l’altro passeggero del treno che montava ad occupare il suo posto preceduto da molti facchini. Non c’era uomo al mondo che avrebbe voluto veder meno di colui. Era appunto il vecchio John Vandeleur, l’ex dittatore.
Le carrozze letto della Grande Linea del Nord sono formate da tre scompartimenti: uno, a ciascuna estremità del treno, è adibito al servizio viaggiatori; un altro, nel mezzo, alla toilette e al lavabo. Una porta a carrello separa ciascuno di quegli scompartimenti-viaggiatori dal lavabo; ma poiché queste porte non hanno chiavistello né serratura, si può dire che il treno formi in realtà un unico grande vagone.
Mr. Rolles si diè a studiare la sua nuova situazione. S’avvide subito ch’egli era senza difesa: che se al dittatore fosse venuto l’uzzolo di venirgli a fare una visita durante la notte, egli non avrebbe certo trovato modo di opporvisi. Nessuna maniera di fortificarsi: era lí allo sbaraglio come in un campo aperto.
Questa constatazione empì il suo spirito d’uno sgomento angoscioso. Ricordò, rabbrividendo, i feroci racconti del viaggiatore uditi durante il pranzo; e ricordò pure d’aver sentito dire che vi sono persone dotate di una strana sensibilità nell’intuire la presenza di un metallo prezioso anche attraverso muri, anche a considerevole distanza. Non poteva darsi che ciò avvenisse anche pei diamanti? E qual meraviglia che di questa facoltà fosse dotato uno che se ne vantava cacciatore?
Il buon prete comprese che da un tal uomo egli aveva tutto da temere e sospirò ardentemente il ritorno della luce. Intanto non trascurò nessuna precauzione: nascose il suo diamante nella saccoccia piú interna di un certo suo complicato pastrano bigio; poi devotamente si raccomandò alla Provvidenza.
Il treno continuava la sua corsa regolare e veloce, e quasi la metà della strada era già percorsa che il sonno ancora non era riuscito a trionfare dell’inquietudine di Mr. Rolles. Per qualche tempo egli fece ogni sforzo per non lasciarsene cogliere, ma, a poco a poco, divenne cosí imperioso che, dopo York, egli dovette cedergli; e allungatosi sul divano, chiuse gli occhi. Poi anche la sua coscienza si assopì e l’abbandonò. Il suo ultimo pensiero fu pel suo tremendo vicino.
Come si destò, l’oscurità era sempre fitta intorno a lui, rotta soltanto qua e là dal vacillante barlume della lampada velata. Lo strepito e l’oscillazione del treno gli dicevano che questo manteneva sempre la sua corsa veloce. Sorse in piedi sgomento, poich’egli era stato angustiato da sogni assai tetri, e passò qualche istante prima ch’egli potesse recuperare intera la coscienza: poi, anche dopo che si fu rimesso a giacere, il sonno non volle tornare, e stava lí desto, il cervello in una violenta agitazione, gli occhi sbarrati sulla porta del lavabo. Tirò giù sulla fronte il cappello di feltro per ripararsi dalla luce e cominciò a contare dall’uno al mille o a sforzarsi di sgombrare la mente da ogni pensiero, come fanno gli insonni. Rimedi vani. Una mezza dozzina di differenti fantasmi lo andavano tribolando: il vecchio che, dall’altra estremità del treno, gli dava la caccia sotto le spoglie più spaventose: e quel diamante che, aveva bello cambiargli posto a tutti i momenti, pur sempre gli cagionava gran disagio. Ora pareva che ardesse, ora diventava enorme e gli ammaccava le costole. Tanto che ci fu un momento, ma fu un infinitesimo di secondo, ch’ebbe persin l’idea di liberarsene buttandolo dal finestrino.
Stava in tali dibattiti quando uno strano fatto avvenne.
Vide la porta del lavabo che si moveva un poco, poi un poco piú, e finalmente i due battenti che si scostavano lasciando tra loro uno spiraglio di circa una ventina di pollici. E poiché la lampada dentro il lavabo non era ricoperta da velo, nello spiraglio della porta illuminata egli vide apparire la testa di Mr. Vandeleur, e ristare lí come in un’attitudine di profonda attenzione. Sentiva che lo sguardo del Dittatore si era posato sulla sua faccia. Per un istinto di conservazione egli rattenne il respiro, e stette immobile, gli occhi abbassati cercando di spiare dal sotto in su, attraverso le palpebre, le mosse del suo visitatore. Dopo qualche istante la testa si ritrasse e la porta si richiuse.
Era chiaro, adunque, che il Dittatore non era venuto per attaccare, ma soltanto per osservare; che il suo contegno non era d’uomo che vuol minacciare ma d’uno che si sente egli stesso minacciato. Se Mr. Rolles aveva timore di lui, anche l’altro non era poi troppo tranquillo sulla presenza di Mr. Rolles. Si sarebbe detto, insomma, che il Dittatore fosse venuto lí per assicurarsi che il suo compagno di viaggio era addormentato e, accertatosene, s’era ritirato.
Il prete balzò in piedi. All’estremo terrore da cui era invaso reagì nel suo spirito un pronto desiderio d’azione. E poiché lo strepito del treno confondeva gli altri rumori, egli si risolse, andasse come voleva, di recarsi a restituire la visita ricevuta.
Si tolse di dosso il pastrano che poteva impedirlo nei movimenti, ed entrato nel lavabo, si pose in ascolto. Nulla udì, com’era da immaginare, se non il muggito del treno che avanzava correndo. Allora mise mano ai battenti della porta e, con ogni cautela, li discostò lentamente di un sei pollici… Poi si fermò, e gittò un’occhiata dentro lo scompartimento.
Non potè rattenere un grido di sorpresa.
John Vandeleur era là con in capo una berretta di pelo da viaggio che gli scendeva fino a ricoprire le orecchie, il che, col monotono fracasso del treno, doveva impedirgli di sentire ciò che avveniva davanti a lui. Fatto è che in quel momento non levò la testa, ma continuò con tutta pace ad attendere alla strana occupazione nella quale era immerso. In una mano egli teneva la manica di un largo pastrano in pelle di foca, nell’altra un coltellaccio col quale veniva separando per mezzo la fodera di quella manica: e di là scivolava giú, dentro una cappelliera che egli teneva fra i piedi, posata al suolo, un rivolo di lucenti gioielli.
Rolles restò come impietrito a seguire con gli occhi la strana operazione di quell’uomo: e potè osservare che i diamanti eran la piú parte di piccole dimensioni e poco dissimili un dall’altro per forma e splendore.
D’un tratto il Dittatore parve incontrar qualche intoppo nella sua operazione e si chinò e si diè ad armeggiare con tutt’e due le mani, finché estrasse dalla manica una lunga tiara di diamanti, l’alzò in alto per meglio esaminarla, poi la depose con gli altri diamanti dentro la cappelliera.
Questa tiara fu un raggio di sole per Rolles. Subito vi riconobbe una parte del tesoro rubato ad Harry Hartley dal vagabondo. Non c’era da sbagliarsi: era proprio tal quale quella descritta dall’agente di polizia in casa di Mr. Raeburn: vi erano stelle di rubini con un gran smeraldo nel mezzo, v’erano mezzelune e pendenti a forma di goccia, ed era composta tutta di pietre differenti, il che appunto era ciò che conferiva gran valore alla tiara di Lady Vandeleur.
Mr. Rolles provò un gran sollievo. Il Dittatore era dunque addentro alla faccenda da quanto lui, e nessuno dei due avrebbe potuto rifiatare su l’altro. In quel primo momento di giubilo, il prete diè in un sospiro profondo: e come il suo petto era ingombro e la sua gola secca a cagione di quei lunghi momenti di incertezza, il sospiro fu seguito anche da un colpo di tosse.
Allora Mr. Vandeleur levò gli occhi. La sua faccia era improntata della più cupa e mortale passione: gli occhi sbarrati, la mascella inferiore abbassata incutevano a quel viso un’espressione di attonimento che rasentava il furore. Con un moto istintivo ricoprì la cappelliera col pastrano, e per un attimo i due si fissarono in viso silenziosamente. Non fu che un attimo, ma bastò a Mr. Rolles, ch’era di quelli che hanno rapide risoluzioni, a determinarsi a un atto di pronta audacia. E quantunque sentisse che in quell’istante giocava la vita, per primo ruppe il silenzio.
«Chiedo scusa» disse.
Il Dittatore trasalì.
«Cosa volete voi?» ribattè con rauca voce.
«I diamanti sono la mia passione» rispose tranquillamente Rolles. «Due amateurs possono benissimo conoscersi, non è vero? Io ho qui con me un piccolo gingillo che, se mai, può servire di presentazione».
E, così dicendo, in tutta pace, tirò fuori l’astuccio, mostrò per un istante al Dittatore il Diamante del Rajà, poi lo rintascò.
«Un tempo era di vostro fratello», disse.
John Vandeleur continuava a fissarlo con uno sguardo pieno di tragico stupore: ma né parlava né si muoveva.
«Ho piacere di constatare» riprese Mr. Rolles «che noi abbiamo qui gioie che appartengono alla medesima collezione».
La stupefazione del Dittatore era al colmo.
«Vi domando scusa» disse alfine. «Comincio proprio ad accorgermi che divento vecchio. Di positivo io non ero preparato ad un incidente cosí strano come questo. Ma ditemi, vi prego: sono i miei occhi che m’ingannano, o voi siete proprio un ecclesiastico?»
«Appartengo infatti agli ordini religiosi» rispose Rolles.
«Bene,» replicò l’altro «parola d’onore che, fin ch’io viva, non vorrò piú sentir sparlare delle sottane nere».
«Siete gentile».
«Perdonate, perdonate, giovinotto. Voi non siete un codardo, questo lo si vede. Resta però a dimostrarsi che non siete il peggiore degli sciocchi. Ma debbo immaginare» continuò egli appoggiandosi allo schienale del divano «che nella sorprendente impudenza del vostro procedere nascondiate qualche intento particolare. Confesso che avrei caro conoscerlo».
«È semplicissimo. Tutto questo si deve alla mia grande inesperienza della vita».
«Sarò felice se me ne renderete convinto», rispose Vandeleur.
E qui Mr. Rolles cominciò a narrargli l’intera storia del Diamante del Rajà, dal momento ch’egli l’ebbe trovato nel giardino di Mr. Raeburn, fino a quando lasciava Londra col diretto della Scozia. V’aggiunse poi una breve pittura de’ sentimenti e pensieri che l’avevano agitato durante il viaggio, e concluse in questo modo:
«Quando ebbi riconosciuta la tiara nelle vostre mani, subito compresi che di fronte alla società noi eravamo nella medesima posizione: e questo fatto cominciò a destarmi la speranza, la quale confido che non vorrete trovare mal fondata, che voi potreste in qualche modo dividere con me le difficoltà e, naturalmente, i benefici inerenti a questa mia situazione. A uno come voi, avveduto ed esperto in questo genere di cose, la negoziazione del diamante dev’esser cosa di lieve momento, mentre per me è cosa affatto impossibile. D’altra parte io penso che se mi metto a tagliare a pezzi il mio diamante, io cosí poco pratico di queste faccende, arrischio di perdere tanto almeno quanto, con adeguata generosità, potrei pagare a voi per l’aiuto che mi prestate nella cosa. L’operazione è estremamente delicata, e io vi confesso che a questo genere di delicatezze non ci ho la mano. Si fosse trattato di battezzarvi o di sposarvi, l’avrei fatto in una maniera assai soddisfacente per voi, ma ciascuno è nato con le sue vocazioni, non è vero? e questa specie d’affari non entrava nella lista delle mie capacità».
«Non vorrei adularvi troppo» rispose Vandeleur «ma, sulla mia parola, voi dimostrate una singolare disposizione per una vita di delitto. Possedete più abilità di quanto immaginate, e ancorché, girando il mondo, io mi sia imbattuto in una quantità di furfanti, uno franco e spudorato come voi non l’ho incontrato mai. Rallegratevi, Mr. Rolles, avete trovato il vostro vero mestiere. E, s’è per aiutarvi, son qua. Io debbo trattenermi in Edimburgo qualche giorno a sbrigare un affare per mio fratello; concluso che l’abbia, ritorno a Parigi dove ho la mia residenza abituale. Se non vi spiace, voi potrete accompagnarmi laggiù: e, prima di un mese, confido di aver condotto il vostro affaretto ad una conclusione soddisfacente».

Qui, contro tutti i canoni della sua arte, il nostro Arabo Autore interrompe la «Storia del Giovine Prete». Mi duole si sia attenuto a cosí deplorevole sistema. Ma io debbo seguire il mio testo originale e riportare il lettore, per la conclusione delle avventure di Mr. Rolles, al prossimo capitolo: «Storia di una casa con le persiane verdi».

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Storia d’un giovane prete
AUTORE: Stevenson, Robert Louis
TRADUTTORE: Linati, Carlo

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Il diamante del rajà e altri racconti / R. L. Stevenson ; nuova traduzione italiana di Carlo Linati. - Milano : Muggiani, stampa 1944. - 237 p. : ill. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC002000 FICTION / Azione e Avventura