Navigazione col “Rosso
di
Arrigo Fugassa
tempo di lettura: 15 minuti
Lo chiamavano il Rosso, Bauer, perchè era tale di capelli: gran ciuffo fulvo sulla fronte bassa e una selva disordinata, sul cocuzzolo, dello stesso colore arso: un uomo sui quarant’anni, di non alta statura, ma quadro, forzuto; con gli occhi celesti. Una cicatrice a triangolo, assai visibile nel suo fondo chiaretto sulla pelle quasi pavonazza, gli scarniva il sommo della guancia destra, proprio sullo zigomo. Non lo vidi ridere mai.
— Che carico avete, capitano?
— Un pò di tutto, signore. Alle isole tutto va.
— Quanti giorni contate davvero che occorrano, sino ad Handy?
— In mare, alla vela, ogni previsione può andar fallita, Signore. Una settimana…. un mese…. Chi comanda è il tempo.
— Ma non siamo nella stagione più favorevole?
— Certo Signore. Troppo favorevole, però, cioè con grandi bonacce, speriamo che non la sia. D’altronde su questa stessa rotta, vedete, in questi stessi mesi, io, altre volte, mi sono asciugato dei temporaloni.
Bauer parlava così dicendomi ogni volta, rispettosamente «Signore» e rispondendo in questi consimili modi evasivi, bifronti, come io li chiamavo. Nella seconda parte delle sue risposte, cessava di mirarmi in faccia: i suoi occhi, nei quali la pupilla blu aveva, oltre a una scura luce fissa, dei bagliori strani, improvvisi – come lampi d’un’intima natura selvaggia che la volontà d’apparir cortese non sempre riuscisse, per quanto forte, a nascondere – si volgeva allora sul mare o sulla costa lontana, col moto sollecito di chi piuttosto che vedere per osservare, voglia sfuggire a uno che lo guardi, per esaminarlo.
Tutto ciò la prima sera; durante la quale Bauer, senza che io nulla gli accennassi in proposito, trovò modo di dirmi a un tratto, con una premura impacciata, che avendo io preso imbarco sul suo veliero, come gli avevo confessato, per evitare la ressa dei passeggeri sul piroscafo postale, desideravo certo più di ogni altra cosa la solitudine; e per ciò egli aveva dato ordine che mi fossero serviti i pasti nella mia cabina. Così, atteso che come passeggero – unico, a bordo – avrei dovuto a norma di consuetudine sedere alla mensa del capitano, si restava entrambi più liberi. E non potè trattenere a tempo un guizzo di soddisfazione, appena m’ebbe detto ciò.
— Anch’io, signore, amo la mia libertà: moltissimo – riprese tosto, piano, quasi confidenziale, sotto il mio sguardo. – È il regno, questo – e indicava la nave con la mano grossa, pelosa, – il regno della libertà.
E fu l’unica volta che lo vidi non ridere, no, ma insomma contrarre i lineamenti della faccia così solcata e cotta a una smorfia che, via, voleva anche passare per un tentativo, fuggevole, di sorridere o almeno di esprimere con la fisionomia, di solito apatica, impenetrabile, qualcosa come un senso interiore.
* * *
Il regno della libertà?
Ripensai più volte a tali parole, evidentemente allusive a qualche condizione particolare, che tuttavia non afferravo, nei giorni seguenti, osservando a mio bell’agio la vita stravagante e autonoma in sommo grado degli uomini di quell’equipaggio: poco più d’una ventina, fra tutti.
Intanto, sotto la bandiera americana che il veliero inalberava, c’era la più bizzarra mescolanza di nazionalità che si potesse immaginare: tedeschi, francesi, inglesi, americani delle due Americhe, scandinavi, olandesi, malesi, e persino un negro di Affrica, Taulari. Non un italiano, per altro. Mai non avevo veduto sulle quattro tavole d’un bastimento un campionario meglio assortito di razze: come se il Raguin, provenendo in origine, al primo armamento, dalle coste d’Europa e ora, in mano d’altri armatori, randagio pei mari tropicali ed australi, avesse a ogni scalo in paese diverso reclutato uno o due uomini in rappresentanza e ricordo delle sue visite e dei suoi passaggi. Era insomma come una carta di navigazione d’un genere nuovo, curioso e inaspettato, cioè fatta non di segni solamente, sibbene di persone vive e operanti.
Poi ciascuno, fuor dei momenti di manovra per cui si richiedesse uno sforzo concorde, se ne stava da sè, in disparte, e piuttosto sopra che sotto coperta: nella bassa prua o forse nella stiva o non so in quali oscuri stambugi, lontano dalla vista e dalla curiosità altrui. I crocchi, ad esempio, per quanto io vedevo, erano rarissimi, e le conversazioni, com’è uso antico di bordo, numerose, confidenti, gioconde, alle quali avevo pure assistito e partecipato con qualche diletto e profitto in altri miei viaggi di mare, si capiva bene che con quegli umori erano cose impossibili e non solo non ricercate ma addirittura non concepite. Quegli uomini non si parlavano che a due o, al massimo, a tre, e sempre succintamente, sottovoce e sul serio. Un altro che sopraggiungesse, a caso, bastava che in qualche guisa mostrasse l’intenzione d’entrare anche lui nel discorso perchè tosto quei primi si distaccassero e disperdessero, chi quà, chi là, quasi temendo d’essere malauguratamente scoperti e quindi smascherati nei loro misteriosi colloqui e armeggii.
Qui appunto c’era qualche cosa di losco e di pericoloso per me, che osservavo tutto ciò tristemente.
Le differenze etniche, per quanto accentuate fossero, e magari inconciliabili, era chiaro che di per se stesse, da sole, non potevano giustificare – tanto più su una nave, dove ho sempre visto contrastar all’isolamento con forme, sian pure grossolane, di solidarietà e di gaiezza – proprio non potevano giustificare quella palese mancanza d’accordo comune e quella sorta d’irreducibile misantropia tra gli nomini del Raguin.
* * *
Il secondo, il peruviano Ghebriez, badava lui a ogni occorrenza della navigazione e si deve dire che non trascurava il suo dovere in nulla: sempre all’erta, di quà e di là, come un molosso. Era un bell’uomo, forse di quarantacinque anni, alto, non grasso, anzi d’aspetto e movenze da giovane, bruno di pelle e di capelli, che però portava corti – sulla fronte li aveva radi – con occhi neri bellissimi, di grande forza di sguardo.
Bauer, dalla mattina successiva alla partenza, non lo vidi che per brevi istanti, di sfuggita, una volta sola.
— E il capitano, Ghebriez? – chiedevo talora, i primi giorni.
— È giù. Forse dorme, signore. Stanotte è stato su, qui accanto a me molto tempo, per dirigere una manovra d’un certo impegno. (Io per altro non avevo sentito niente, nell’intera nottata). O forse lavora, a tavolino. Lui è il padrone, signore, e fa quello che vuole. Io sono il suo luogotenente.
V’abbisogna qualcosa, forse? Ditemi pure. Son qui per servirvi.
Ghebriez non era come Bauer. Sorrideva, di tanto in tanto, scoprendo nella faccia morata, sotto i baffetti all’americana, i denti candidi. Quando mi parlava così sorrideva, costantemente.
Eppure a me sembrava ogni volta d’avvertire un’inflessione ironica, in quest’offerta dei suoi servigi.
Non mi abbisognava nulla, però, e glielo dicevo con un rapido: — No grazie. – Lui allora s’allontanava da me, svelto, come un uomo che abbia tanto da fare – soffiava, forte, per darmi a credere che sospirasse – e così era troncato ogni nostro più lungo discorso, sbarrato l’adito alla mia curiosità sempre più eccitata.
Tre settimane, e anche più, di questa vita, senza scorgerle un termine prossimo e certo!
M’ero messo alcuni libri nella valigia: consuetudine antica, riscontrata in parecchie occasioni proficua, per me che tanto di sovente viaggio, anche abbastanza a lungo: li lessi e rilessi a uno a uno, finchè ad apertura di pagina m’avvedevo di sapere ormai a mente le parole che seguivano le prime a cui mi abbattessi: e non potei reggermi a tanta noia.
Volli imitare anch’io il capitano e rifarmi del sonno così spesso sacrificato, in terra, con la vita che vi menavo, tra per necessità di lavoro e per compiacere all’insaziabile gusto di passeggiate e di svaghi mondani di Mary, mia moglie; e dormii fino a stordirmi, fino a spostare a ore inverosimili i pasti, che, intanto si raffreddavano e non potevo più trangugiarli.
Cercai anche un diversivo nel contemplare, dalla mattina alla sera, il cielo e le acque; ma i loro colori e riflessi non erano che troppo lentamente e pallidamente mutevoli nel corso dell’intera giornata, giacchè il tempo – cambiato, di così bello che era, al secondo giorno di viaggio – si manteneva da allora eguale, ostinato, acque sonnocchiose, cielo ingombro e basso, aria grave, ogni mattina così, ogni sera così, con un crescere ingannevole e poi un pigro, ostile fermarsi e poi da ultimo un decrescere malinconico di luci smorte; e bisognava concentrare le idee, richiamar con energia fatti, circostanze sicure per persuadersi che una notte, una notte in più delle altre, veramente diversa da quelle, avesse interrotto per lunghe ore una vicenda che senza tali riferimenti precisi della memoria si sarebbe detta continua e immutabile come una maledizione divina.
Dopo il pranzo, che Morich, il cambusiere, mi aveva portato, secondo il solito, nella cabina, ma con un fare che non era il solito, più franco, più svelto, cioè meno chiuso ed avverso, – non s’era dimenticato del «buon appetito» stavolta, anzi me l’aveva augurato a due riprese, con intenzione – dopo il pranzo al quale avevo anche provato un gusto maggiore dell’ordinario, per cui mi avvenne di prolungarlo più del consueto, mi sentii a un tratto pieno di sonno, poi ricordai tosto, e quasi con pentimento, come per una inutile pena, della lunga veglia, delle molte ore perdute in tanti pensieri angosciosi: capii che il mio corpo e il mio spirito affaticato reclamavano assolutamente ristoro, e col moto d’allegria di quando ci s’abbandona così agli istinti ben determinati mi buttai sul lettino, poi parve soffice come non mai. Un minuto dopo dormivo.
Mi destarono grida. Dall’abisso nero del sonno, senza sogni e per ciò tanto più confortevole ai nervi, ribalzar così senza un poco di transizione alla realtà cruda era brutto. Grida, grida imperiose. Correre d’uomini da poppa a prua. Colpi forti, rimbombi sordi, lontani. Scorrere di gravi pesi, stridere di paranchi. E la voce di Bauer, vibrata, che dominava tutto e in un attimo impose a quel trambusto sconclusionato un ordine magico.
Preso di nuovo dal batticuore, e con l’amarezza della disillusione dopo quell’abbandono così facile alla speranza, mi levai, corsi su.
Gli uomini erano ai boccaporti della stiva, tutti curvi ed intenti. Barili pesanti, a quel che si vedeva, erano issati dalla stiva in coperta e rotolati poi contro bordo. Ghebriez in mezzo, tra i due gruppi al lavoro, ne sorvegliava i movimenti con la faccia seria, concentrata, e a tratti la drizzava all’insù, gridava ordini ad altri uomini che dovevano essere andati a riva per qualche manovra.
Questi ultimi non li vedevo, ma ne sentivo le voci alterne, fioche, come sentivo i cigolii dei pennoni, i fruscii, i larghi palpiti delle vele. Il Raguin ondeggiava un pò e mi parve che fosse per prendere un diverso orientamento. Bauer, dal cassero col canocchiale puntato là dove la mattina stessa aveva mirato così intensamente, agitava la mano, su e giù con un ritmo gaio sebbene lento. Per quel tanto che potevo scorgere, la sua faccia era spianata, ilare e soddisfatta.
Non avevo osato subito venir tutto su dagli ultimi gradini della scala, dove anzi mi ero rinchiocciolito, col cuore che mi trabalzava dal timore d’essere visto e schernito in quell’atto; ma allora saltai fuori correndo alla murata sottovento, per vedere a chi Bauer guardasse così rallegrato e facesse tutti quei segni, poco men che solenni.
Con gran meraviglia vidi, lontana lontana, una vela. La velatura d’un bastimento. Tutta spiegata, come alla festa. Sotto il biancicare del cotone così disteso – che come una nuvoletta bassa si rifletteva pallidamente sulle acque – faceva spicco, di scorcio, il corpo dello scafo, nero. Veniva in qua. Ma era ben lontano, ancora.
C’era un senso di giubilo, e un implicito augurio, in quell’apparizione inaspettata.
L’incanto funesto, il malevolo sortilegio dell’orizzonte eternamente vuoto si dissolveva così all’improvviso. Uomini, altri uomini vivevano al mondo, oltre noi del Raguin, con altre facce, altre voci da quelle che ogni giorno noi con un’uniformità disperata ci conoscevamo. Esistevano altri. E ora eccoli: ci venivano incontro, ci chiamavano. Amici. Fratelli.
Com’è piena d’imprevisto la vita di mare! Sei stanco, annoiato, l’anima t’abbandona, ti si dissecca il cuore, non ti rimane addosso che un involucro di carne flaccida, sei come già morto, deambuli sol per magìa – schermitrice magìa – e all’improvviso ecco la novità che ti ridà la vita, in tutta pienezza!
Mi sentivo così contento anch’io che nella maniera più naturale del mondo, chiesi forte, volgendomi dal basso a Bauer sempre in posizione, lassù col canocchiale:
— Chi sono, capitano? Li conoscete?
Quello di colpo tirò giù lo strumento, si volse, mi vide, ebbe un impeto d’ira che gli accese ancor più la faccia sanguigna, corse alla scaletta, ne scese in furia – chiocciando ogni gradino al suo passo – mi venne sopra col canocchiale impugnato e brandito fieramente come un bastone.
— Maledetto! Che v’abbia sempre fra i piedi?…. Dentro! Su, svelto, andate dentro. Accidenti al giorno che v’ho preso a bordo!
Parai le mani, muto, inebetito dalla sorpresa. Inutilmente. Non arrivò proprio a percuotermi, è vero; ma mi agguantò per un braccio, mi tirò indietro con forza, con una forza irresistibile, le dita aguzze come artigli di falco, la faccia dove al par di nuvole sulla luna nuova passavano e ripassavano di continuo quelle vampe d’un rosso ben differente dal rosso della cicatrice che spiccava su quel rosso-violaceo di congestione come se di lì dovesse principiare a crepargli la guancia.
— Vi dico di tornare subito sotto! – mi spiccicò aspro sul viso, con un fiato che disgustosamente sentii pregno di alcool.
A questo punto con uno sforzo energico riuscii anch’io a parlare, a gridare:
— Ma siete matto? Che cos’avete? Non sono mica il vostro servo!
— Giù! Giù! – mugliava lui, sempre strascinandomi in collera come una bestia.
— Ho ben pagato….
Alzò di nuovo il canocchiale e stavolta me lo sentii sul serio avventar sul capo, tanto che mi scansai d’impeto buttandomi avanti.
— Ha pagato, sentite, ha pagato! – proruppe tempestosamente, riafferrandomi e crollandomi a furia. – Che cos’avete pagato, di grazia?…. Il passaggio, il passaggio ad Handy….
— Appunto – feci io in una specie di grugnito, divincolandomi alla feroce stretta.
— Ebbene? Chi vi dice che non vi ci porti, ad Handy? – riprese, mentre più violentemente mi malmenava nel flusso vertiginoso della sua ira. – Non è colpa mia se il tempo finora non ci ha favorito come speravo. Ma non ci devo altro, maledetto voi. Voi invece, a me, mi dovete di non darmi noia. Nessuna noia. Capito?
S’era giunti riluttando al principio della scaletta interna. Egli mi sospinse rudemente. — Giù! Giù! Finiamola! – gridò esasperato e mi dette un ultimo urtone, tale che se non mi fossi aggrappato in tempo e ben saldo al guardamano e all’orlo della boccaporta sarei piombato come un sacco là in fondo.
— Bestione! – gli urlai fremendo di sdegno, bruciato dall’idea che ogni vendetta o rappresaglia m’era impossibile. E scesi a stento, col braccio indolenzito, gli orecchi intronati, la bocca impastata d’amaritudine. — Vigliacco! – aggiunsi poi, mentre mi scagliavo dietro la porta della cabina, che si rinchiuse con un colpo secco, ripercosso come uno sparo.
Tesi l’udito. Niente d’insolito. Su, continuavano il lavoro, con lo stesso ritmo frettoloso di prima. Mi sentii di nuovo solo, trascurato, minacciato, vinto: perduto.
* * *
La mia cabina era sopravvento, e non potei vedere, dall’oblò, al quale m’ero tosto affacciato, la nave sconosciuta prendere tutta invelata come l’avevo scorta dianzi, alla nostra volta. Poi ebbi una disillusione forte.
Mentre me la rimasticavo dogliosamente, la voce di Moriel, di dietro la porla, m’avvertì, senza un riguardo al mondo, che il capitano mi proibiva di uscir di cabina fino a nuovo ordine.
Sussultai, ma non gli risposi.
L’ordine tuttavia non tardò quanto c’era da temer sulle prime.
Se il mio contrasto con Bauer avvenne intorno alle due, un paio d’ore dopo, all’incirca, Moriel tornava ad annunziarmi con voce impassibile, anzi forse un pò malcontenta, che avevo libera uscita.
Era stato un paio d’ore d’allegro affaccendarsi, in coperta.
La nave misteriosa era venuta sotto. Ne avevo udito il vasto sciacquio, il rumore caratteristico nella manovra d’ammainare. Saluti clamorosi, ma in un linguaggio che non conoscevo e giudicai fosse uno dei tanti dialetti delle isole, s’erano scambiati da bordo a bordo. I marinai di qua e di là si lanciavano frizzi, chiamandosi per nome e però anche per soprannome, come gente che si conoscesse da lunga pezza e si praticasse frequentemente. Taulari stavolta intonò una canzonaccia sguaiata che gli altri subissarono con berci bestiali. Poi – oh! oh! – quei pesi, i barili, che nella notte passata e sul mezzodì erano stati issati con tanto mio fastidio e tanta, anche, apprensione, impedendomi di dormire, venivano rotolati fuori, tonfavano in mare con spruzzi violenti, erano come tratti con le cime, giocondamente, dalla parte opposta. Almeno immaginai così, chè vedere, come già dissi, non vedevo nulla di nulla.
Poi i saluti, i frizzi, che per un certo tempo s’erano taciuti, nuovamente si levavano a gara dal Raguin e dal veliero delle isole, come lo chiamavo pensandolo. E risonavano anche più forti e vivaci di prima: perchè era finito il lavoro. Forse un battello passò in quel momento da un bordo all’altro, che udii qualcosa come uno sciacquio lesto di remi, un colpo leggero appunto come d’un battello col guardalato contro il fianco sonoro della nostra nave, uno strofinio rapido lungo il fianco stesso, uno scambio di parole in quel medesimo sconosciuto dialetto proprio sopra la mia testa, sul ponte.
Gli stessi rumori poco dopo si ripeterono.
Poi fu la volta d’un’altra serie, l’ultima, la più serrata, di quei saluti e frizzi da sfaccendati. Uno, di là, una vocetta stridula, gridò il nome di Moriel in tono evidentemente sarcastico con l’appoggio d’una frase che provocò da una parte e dall’altra uno scoppio altissimo d’ilarità. Quando questa cessò Moriel rispose in falsetto schernevole e nel suo francese imbarbarito (e furono, per tutto quell’incontro, le sole parole che intesi): — Va là, sporcaccione, che quest’altra volta la tua brutta lingua non assaggerà nemmeno più un gocciolo del nostro vino!
Al che di là mi parve replicassero con una formula di scongiuro.
Voci di comando squillavano subito dopo, cui s’accordarono tosto dirugginio di bozzelli e schiocchi di vele. Voci e suoni somiglianti echeggiavano intanto sul Raguin.
Mezz’ora appresso ero fuori anch’io. Il veliero delle isole, già inpicciolito dalla distanza, era là con tutte le sue vele imporporate, a levante, come se non vedessero l’ora, quegli sconosciuti, di scomparire nel gorgo azzurro delle solitudini inviolate.
Noi s’andava innanzi alla stessa eterna sconsolata maniera; e quelle vele fuggenti, nella luce che le aurolava trasfigurandole, in non so quale alitante immagine di felicità fuggitiva, accrescevano intorno il senso torbido di vuoto e di cupa malinconia.
Pochi uomini stavano ormai in coperta. Fumavano tutti, addossati al bordo, in breve riga, di tratto in tratto adocchiando la rosea nave lontana.
Arrigo Fugassa
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Navigazione col “Rosso
AUTORE: Fugassa, Arrigo
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: Navigazione col "Rosso" / Arrigo Fugassa. - in: Le opere e i giorni - Rassegna mensile di politica-lettere-arti-etc. diretta da Mario Maria Martini. - anno XIV n. 6 - 1° giugno 1935. - p.29-48, 24cm.
SOGGETTO: FIC047000 FICTION / Racconti del Mare