I primi baci
di
Grazia Deledda
tempo di lettura: 18 minuti
Ritto sovra un ciglione erboso, quasi sull’orlo dello stradale, Jorgj Preda, soprannominato Tiligherta, aspettava da più di un quarto d’ora la sua piccola innamorata, Nania, la figlia del cantoniere.
Facevano all’amore da una ventina di giorni, cioè da appena si erano conosciuti. Nania passava sullo stradale ogni giorno, verso le due, andando al ruscello per recar l’acqua alla cantoniera, e Jorgj l’attendeva sul ciglione facendo vista di guardare le pecore che a quell’ora meriggiavano tra le macchie, sotto il bosco di soveri.
Appena Nania spuntava nel biancore desolato dello stradale, Jorgj scendeva giù dal suo osservatoio e si metteva all’ombra, dietro il ciglione, ove Nania, con in testa la lunga anfora fiorita, che pareva un’anfora etrusca, lo raggiungeva, tutta piena di amore e di paura.
Perché, certamente, se il babbo l’avesse scoperta a far l’amore con Jorgj le avrebbe rotto le costole. A quell’ora zio Gavinu Faldedda schiacciava il suo solito sonnellino o si tratteneva a coltivare il campicello attiguo alla cantoniera, tuttavia non c’era da fidarsi.
I due ragazzi chiacchieravano per cinque o sei minuti, divorandosi con gli occhi, ma senza toccarsi neppure la punta delle dita; poi Nania proseguiva pensierosa la sua strada e Jorgj s’internava nel bosco, sospirando angosciosamente.
Egli si sentiva, certo, altero e felice di possedere una innamorata tutta sua, là, lontano dall’abitato, in completa solitudine, ma la sua felicità era tutt’altro che intera.
Prima di tutto c’era quello spasimo di zio Gavinu, – che non pensava punto a maritar Nania con un ragazzaccio come Jorgj, – e poi… tanti altri poi… infine. Basta, Jorgj, in attesa della leva e di altri malanni, si sarebbe contentato di aver almeno un bacio da Nania, ma questo era il peggio, quello che più lo faceva sospirare. La piccina non aveva alcuna intenzione di baciarlo e lui non osava toccarle neanche l’orlo della gonnella. Quel giorno però Jorgj Preda era deciso di abbracciarsela tutta e dirle: — Ma se non si baciano gli innamorati chi vuoi che si baci?
Ma giusto appunto quel giorno Nania non si vedeva più.
Sempre ritto sul ciglione Jorgj cominciava ad inquietarsi, perché dall’ombra proiettata in terra dalla lunga pertica che teneva in mano si accorgeva che le due erano trascorse.
Jorgj Preda, che si chiamava comunemente Tiligherta, era di Bitti e poteva avere diciannove anni.
Guardava, insieme ad un altro vecchio pastore nuorese, le pecore di un ricco possidente pure nuorese, e i pascoli dove erano stazionati si stendevano vicini ad una delle cantoniere dello stradale di Bitti.
Jorgj poteva dirsi un bel ragazzo – egli si credeva un uomo maturo – alto e muscoloso, benché sottile, coi capelli nerissimi e il profilo perfetto; uno di quei profili scultori, della migliore scuola greca, come se ne vedono solo dalla parte di Bitti e d’Orune. Ma aveva la pelle troppo annerita e indurita dal sole e dal freddo, e la dolce linea della sua bellissima bocca, dalle labbra sottili e i denti di smalto, non leniva la durezza dei suoi occhi neri, annuvolati e quasi tetri.
Allevato a Nuoro, Jorgj, parlava il nuorese con una lontana reminiscenza della sua pronunzia nativa, ma conservava il costume del suo paese quasi tutto nero, coi calzoni di orbace bianco stretti, un po’ laceri e sporchi.
Dacché aveva scoperto la cantoniera e s’era innamorato della piccola figlia di zio Gavinu, Jorgj Tiligherta si lavava il viso e le mani e cercava di pulirsi, ma ciò nonostante rimaneva nero come il demonio e i suoi scarponi e la sua berretta esalavano sempre un profumo pastorale poco voluttuoso.
E Nania non si vedeva ancora. Mille brutti pensieri agitavano lo spirito irrequieto del giovine pastore, facendosi più dolorosi a misura che l’ombra della pertica si stendeva sull’erba fresca del ciglione.
Jorgj, con gli occhi semichiusi, restava impalato lassù, fissando acutamente l’estremità dello stradale, e nessun’anima umana passava attraverso l’immenso spazio della campagna circostante.
Nel dolce meriggio di aprile i boschi di soveri, di cui è coperta la selvaggia pianura, intricati di cisti, di corbezzoli, e di vepri, tranquilli e silenziosi, avevano nelle foglie fresche come il riflesso del cielo di un azzurro perlaceo, e si stendevano così a perdita di occhio, sino alle vanescenze dell’orizzonte, chiuso da montagne lontane, di un azzurro più oscuro ma più vaporoso. Dal sito ove stava Jorgj si scorgeva appena il tetto della cantoniera, dal cui fumaiuolo si innalzava una lunga spira di fumo diafano, ma non si vedeva punto la capanna dei pastori, molto più lontana, nell’interno fitto del bosco.
Lo stradale serpeggiava per la pianura, fra i boschi, come un alveo asciutto e disseccato dal sole, e l’erba cresceva ai suoi lati ancora alta e bella, perché la greggia, che possedeva tanto pascolo nell’interno della pianura, non si era avanzata sin là.
Nania non veniva, Nania non compariva più. Gli occhi di Jorgj, che poco prima splendevano in un modo insolito al pensiero del bacio che avrebbe dato, volere o no, alla sua piccola innamorata, andavano rabbuiandosi sempre più e quasi si velavano di lagrime. Ah, San Giorgio mio, qualche cosa doveva esser successo. Forse Nania era malata, forse zio Gavinu, avea fiutato qualcosa e non la lasciava più andare all’acqua, forse… Jorgj si disponeva a lasciar il suo posto di attesa e recarsi alla cantoniera, con qualche pretesto, come ci si recava sempre, quando udì il galoppo di due cavalli, e vide passare, avvolti in un leggero nembo di polvere due bei signori a cavallo, che non si degnarono neppure di guardarlo.
Anch’egli, che vedeva spesso gente attraversare lo stradale, non fece gran calcolo di loro, scese dal ciglione e si avviò. Ma a metà strada si fermò, trasalendo. La vista della lunga anfora fiorita che egli conosceva tanto bene, gli fece battere violentemente il cuore, ma per poco. Non era Nania che la portava in testa, non era Nania che si avanzava sulla triste bianchezza dello stradale, col fazzoletto giallo cadente disteso sulle spalle e fiammeggiante al sole. Era la piccola sorellina, Arrosa (Rosa).
— Perché vai tu all’acqua, oggi? — le gridò Jorgj quasi adirato.
Invece di rispondergli, Arrosa, una monella della peggior specie, appena lo riconobbe cominciò a strillare, per farlo stizzire:
Tiligherta, tiligherta
mamma tua est in gherta,
babbu tou est morinde,
tiligherta baetinde…
Ma egli non vi badò e ripeté la sua domanda, meno duramente, avvicinandosi alla piccina.
Arrosa, temendo la picchiasse, gli fece allora un bel sorriso e gli rispose: — Perché Nania sta lavorando.
— E cosa sta facendo?
— Sta lavorando perché vengono l’impresario e l’ingegnere. Non li hai veduti a passare?
— Ah, erano quei due signori? Ci vengono molto spesso?
— Così! Delle volte spesso e delle volte poco. Cosa te ne importa?
Jorgj pensò di accompagnare la piccina al ruscello per saper qualche cosa su quei signori che già lo ingelosivano e lo indispettivano, perché a causa loro non aveva veduto Nania, quella sera. Passando vicino al ciglione indicò le pecore ad Arrosa dicendole:
— Lo vuoi un agnellino, un agnellino bianco come dente di cane?
Arrosa credette la pigliasse in giro e per vendicarsi ripeté la battorina della tiligherta, cantandola tutta in un miscuglio di nuorese, di campidanese e di ozierese, ma Jorgj le ripeté così seriamente la proposta che riuscì poi ad aver molti particolari sui due signori.
L’impresario era nuorese e l’ingegnere, quello con la barba bionda, continentale.
Quest’ultimo Arrosa lo conosceva da molto, da molto tempo. Ogni volta che veniva alla cantoniera regalava del bel danaro a Nania, che parte lo dava al babbo, e parte se lo nascondeva entro un sacchettino, sotto i materassi: e a lei, ad Arrosa, non dava mai nulla, mai… Perciò non lo poteva vedere.
— Come si chiama? — chiese Jorgj, facendo una smorfia significantissima.
— Signor Guglielmo…
— Restano lì a dormire?
— Sì.
Ad un tratto Jorgj piantò la piccina e se ne andò, cupo in viso.
— Tiligherta, — gli gridò Arrosa, — ricordati l’agnellino, l’agnellino…
Ma egli non rispose e in breve scomparve sotto il bosco. Una terribile gelosia lo tormentava. Tornò all’ovile, ma si sentiva così di malumore che si bisticciò con zio Concafrisca, l’altro pastore, e quasi quasi venivano alle mani. Riprese a battere il bosco, trascinando la sua tristezza per le macchie di cisto odoranti, al dolce tramonto, di rosa, e non poté far nulla per tutta la sera.
All’imbrunire si avvicinò alla cantoniera, ma non ebbe il coraggio di entrarvi. Per lung’ora vi si aggirò intorno, come un’anima dannata, ma solo di notte poté accostarsi.
Benché dal fumaiolo s’innalzasse ancora una sottile striscia di fumo perdentesi nella vaporosità della fresca notte di aprile, la porta era chiusa, chiuse le finestre e un grande silenzio regnava intorno. Dalla finestra della camera dell’ingegnere, a pian terreno, sfuggiva la luce del lume che descriveva un quadrato luminoso sullo stradale.
Jorgj Preda si avvicinò e vide, attraverso i vetri, il signore dalla barba bionda, quello che Arrosa aveva detto esser l’ingegnere, in maniche di camicia.
Probabilmente si preparava ad andar a letto. Era alto e magro, biondo e con gli occhi piccoli, di cui non si distingueva il colore, stretti agli angoli in un modo bizzarro che dava un’espressione simpatica a tutta la sua fisionomia. Un bell’uomo, infine, che poteva esser vecchio, non si sapeva precisamente distinguere.
Jorgj lo divorava con gli occhi, allorché vide entrare Nania. Un fremito agitò tutta la sua persona e, inconsapevolmente, diede un balzo serpentino, indietreggiando, per non essere veduto dalla fanciulla.
Nania era una piccola fanciulla sottile e triste. Nel suo visino di quindici anni aleggiava sempre una serietà quasi tragica, e il pallore fosco della sua carnagione finissima veniva accresciuto dalla tinta cinerea dei suoi capelli biondi. Uno splendore di capelli crespi, foltissimi che dovevano pesarle sulla piccola testa liliale, di bambina cresciuta innanzi tempo. Infatti essa era da tre o quattr’anni, dopo la morte della mamma, la massaia della cantoniera.
Faceva tutto, aiutata a mala pena da Arrosa, e non perdeva un minuto di tempo. Solo da tre settimane pareva distratta, trascurava le sue faccende domestiche e si assentava lung’ora nell’andare al ruscello. Veniva invasa a momenti da scoppi di pazza allegria, ed a volte piangeva dirottamente, e zio Gavinu si accorgeva del suo cambiamento, ma non diceva nulla e non riusciva a indovinarne la causa.
Dallo stradale Jorgj Preda, fremente e cupo, fissava gli occhi scintillanti attraverso i vetri, intimamente vinto anche da un dolce sentimento di tenerezza e di passione nel rivedere la piccola e fragile giovinetta che lo aveva stregato, e per la quale avrebbe dato un’archibugiata magari al re.
Nania indossava un costume della parte di Ozieri, donde era nativo zio Gavinu Faldedda, ma conservava il fazzoletto disteso come le campidanesi. Il corsetto, di broccato molto consunto, veniva allacciato sul davanti da una molteplice incrociatura di stringa rossa, e così senza maniche talari della camicia, abbottonate ai polsi.
La sottana e il grembiale erano semplicissimi, d’indiana oscura, e Nania non aveva altro ornamento che una piccola collana di corallessa intorno al sottile collo gentile. Era scalza e a testa nuda e recava un boccale d’acqua nella camera dell’ingegnere.
Jorgj vide la sua innamorata sorridere al bel signore e questi avvolgerla tutta in uno sguardo ed in un sorriso di amore. Graziosa e svelta, Nania depose il boccale in un canto, e poi si fermò vicino all’ingegnere. Parlavano. Dal sito dove si trovava Jorgj non sentì nulla, e d’altronde era colto da vertigini spasmodiche di collera e di gelosia. Ah, non vi era dubbio, non v’era dubbio… Nania lo tradiva, a Nania piacevano i bei signori puliti e ricchi.
Tutto il sangue affluiva al volto di Jorgj e le tempie gli picchiavano a martello. Se avesse avuto un archibugio avrebbe sparato, traverso i vetri, uccidendo quel signore che veniva a rubargli la vita.
Ad un tratto impallidì e diede un secondo sbalzo, più serpentino e fremente del primo.
Ah, ciò che egli vedeva!… Credé di impazzire e mai dimenticò la sensazione provata in quell’istante.
L’ingegnere, dopo molti sorrisi e molte parole aveva preso la testolina di Nania tra le sue mani, tra le sue lunghe mani di un candore e di una delicatezza femminile, e l’aveva coperta di baci. Poi aveva abbracciato, tenendosela lungamente a seno, la fanciulla, che sorrideva e piangeva tutt’insieme. Jorgj gemé sullo stradale. L’ingegnere dovette sentir qualcosa perché lasciò bruscamente Nania e si avvicinò ai vetri. Jorgj ebbe il sangue freddo di ritirarsi presso il muro e non fu visto. Egli però vide il quadrato di luce sparire dallo stradale e si accorse che gli sportelli della finestra erano stati rinchiusi.
Allora fu preso da una rabbia immane e da una grande vigliaccheria, e fu per picchiare alla porta della cantoniera per dire a zio Gavinu:
— Guardate ciò che accade, guardate!… —. Ma non lo fece. Prese invece la decisione di massacrare l’ingegnere, e quasi calmato da quest’idea si allontanò, mentre strani singhiozzi aridi, strazianti, gli contorcevano la gola…
All’alba Jorgj Preda, appostato dietro una fratta, a un quarto d’ora di distanza dalla cantoniera, armato con l’archibugio di zio Concafrisca, attendeva il passaggio dell’ingegnere per tirargli un’archibugiata numero uno. Arrosa gli aveva detto, la sera prima, che i due signori avrebbero proseguito l’indomani verso l’altra cantoniera, dunque dovevano passare di là, e egli aspettava… con una feroce decisione nel volto orrendamente scomposto, e negli occhi più tetri e annuvolati del solito. Nell’alba fresca di aprile un magico incantamento di vaghe luminosità e di profumi allagava la campagna; l’orizzonte del bosco sfumava nell’oriente color d’oro; e nelle macchie lucenti di rugiada le agasselle cantavano gaiamente, ma Jorgj Preda badava a tutt’altro che alla idilliaca poesia mattutina.
Dalla sua fratta dominava un gran tratto di stradale e vedeva il ponte sotto il quale scorreva un nastro d’acqua smorta, assorbita da alti giunchi e dall’asfodelo che cominciava a fiorire.
E ripensava ai sogni fatti tante volte, seduto sull’orlo del ponte, alle canzoni cantate a voce altissima, per esser intese da Nania in lontananza, accompagnate dal susurro dei soveri e dal tintinnio delle greggie che ogni notte venivano ad abbeverarsi in quel sito, giacché l’altro ruscello Jorgj lo rispettava come cosa sacra, servendo l’acqua per la cantoniera.
A momenti lo spirito del giovine pastore veniva conquisto dalla tenerezza delle ricordanze, e allora pensava di allontanarsi, chiedendosi se tutto non era stato un cattivo sogno, ma la sensazione della realtà lo riprendeva tosto e non si muoveva.
Ma gli aspettati non passavano più, e ogni minuto gli pareva un secolo, giacché poteva passar gente e scoprirlo, e nella paura temeva anche di sbagliare il tiro.
Eccoli finalmente! Il sole stava per spuntare sull’estremità lucente del bosco, allorché Jorgj scorse i loro cavalli e sentì la voce aborrita del suo rivale. Traverso i cespugli intricati del suo nascondiglio, con gli occhi acuti di falco spalancati e avidi, fissò l’ingegnere, per esaminarlo meglio che non l’avesse fatto la notte prima, e un sorriso amaro gli contrasse le labbra sottili e belle, rese bianche e aggrinzate dalla disperazione di quella lunga notte infernale.
Ah, quel signore era bello e gentile. Cosa contava lui, Jorgj Preda, la Tiligherta, col suo volto nero ed i suoi stracci, cosa contava in paragone di quel signore bianco e biondo, così ben vestito ed elegante? Nania sottile e vezzosa come una signora, aveva ben ragione di preferirlo; ma allora perché, se le piacevano i signori, perché lo aveva stregato, dicendogli che gli volea bene e lo attenderebbe per marito?
Sul punto di assassinare un uomo Jorgj Preda sentiva una spasmodica volontà di piangere. I signori si avvicinano. Jorgj rivide Nania, la sua piccola Nania che adorava ancora come Nostra Signora del Miracolo, fra le braccia dell’ingegnere e alzò il vecchio archibugio di zio Concafrisca.
Passando sotto il suo tiro, l’ingegnere, che non pensava certo al terribile pericolo sovrastante, alzò la testa, si levò il cappello bianco da campagna e lo tenne un poco sull’arcione e un momento dopo sorrise, sempre ragionando col compagno, col viso rivolto verso la fratta ove stava Jorgj. Pareva lo scorgesse. Il sole spuntò e la sua prima luminosità di un giallo roseo inondò lo stradale e le persone dei due cavalieri.
Jorgj non sparò e lasciò passare sano e salvo il suo rivale.
Egli aveva veduto gli occhi e il sorriso dell’ingegnere e uno strano pensiero, balenandogli all’improvviso nella mente sconvolta, aveva fermato la sua mano.
Alle due, appoggiato alla sua lunga pertica – il suo scettro da pastore – ritto come il giorno prima sul ciglione pieno di erba e di margherite, spiava l’arrivo di Nania. La mattina recatosi a Nuoro con l’entrata, cioè col formaggio fresco, la ricotta ed il latte, Jorgj si era tutto cambiato di vesti ed ora nella bianchezza opaca della sua camicia, col volto fatto pallido dalle terribili emozioni sofferte, pareva quasi bianco. La sofferenza e l’insonnia gli avevano affilato i lineamenti, tanto che Nania, appena furono nell’ombra del ciglione gli disse:
— Perché sei così bello, oggi?…
La piccola fanciulla possedeva una voce dolce e triste resa più affascinante dalla schietta pronunzia logudorese del suo linguaggio.
Jorgj, cupo negli occhi, sulle prime non rispose e la fissò acutamente, quasi volendo penetrarle nell’anima.
— Sei più bella tu… — rispose con voce irata. E prendendole di mala maniera l’anfora la depose in terra dicendo: — Oggi dobbiamo parlare a lungo, Nanì…
Essa ebbe paura e lo guardò spaventata. Nel suo gran fazzoletto color d’oro, a fiorami, disteso come un manto sulle spalle, Jorgj la trovò tanto bella che si addolcì improvvisamente e restò estatico a guardarla. Pareva una di quelle figure sacre dipinte sullo sfondo di arazzi moreschi, che si ammirano in qualche tela italiana del secolo XV, e Jorgj, pensando alle brune bellezze delle ragazze che fino ad allora aveva conosciuto, si convinceva nel suo dubbio.
— Siedi — disse, costringendola a sedersi sopra una pietra — ché parliamo.
— Non mi fermo, non mi fermo… — disse lei, tremando. — Il babbo…
— Tuo padre è lontano e nessuno ci vedrà. E anche se ci vedono che male c’è?… Non possiamo esser amici, conoscenti?…
— Dio mio, Dio mio, non posso…
In realtà Nania sentiva un grandissimo piacere all’idea di starsene per un buon pezzo seduta presso Jorgj e benché provasse una grande paura non si muoveva.
— Cosa hai oggi? — gli chiese tremando. — Cosa hai? Sei forse stizzito perché ieri non son venuta? Sai c’era l’impresario, c’era l’ingegnere e ho dovuto lavorare tanto. Non c’è nessuno nella cantoniera.
Tacque, con gli occhi perduti in un pensiero triste e doloroso e Jorgj, vedendola impallidire ancora di più, senza dubbio al ricordo dell’ingegnere, fremette e si allontanò un poco.
Egli spiava sempre il volto della fanciulla e un gran buio si faceva nell’anima sua. Non c’era dubbio, no. Nania lo tradiva, e l’ingegnere era il suo amante.
— Cos’hai, cos’hai? — ripeté essa.
— Cosa ho? — gridò Jorgj, agitando le braccia come un pazzo. — Tu lo sai meglio di me cosa ho…
— Io non so nulla! Diventi matto?
— Sì, credo di impazzire. Nania, senti, tu sei piccola, ma sei più maligna di me. Tuttavia non continuerai a ridere di me, no, non continuerai. Tu mi hai preso per un ragazzo, ma non lo sono, no. Sono soltanto un povero disgraziato, ma tu non dovevi riderti di me, perché io sono buono a farti pagar caro questo gioco, Nanì, lo senti, Nanì?
Nania lo guardava stupita, e non trovò che rispondere alla sua sfuriata.
— Non rispondi? — gridò Jorgj.
— Parla piano… — disse la ragazza, balzando su, tendendo le orecchie. — Se mio padre ci sente…
— E cosa me ne importa? Tanto non ho più nulla da vedere con te…
— Ma cosa hai, cosa ti hanno raccontato? — domandò lei con disperazione.
— Nulla, non mi hanno raccontato nulla, ho veduto io, con questi occhi, ho veduto ieri notte.
Eh, perché avete lasciato la finestra aperta, bella mia? Ma questa mattina se l’ha veduta tra il naso e le labbra ad esser massacrato il tuo bel signore.
Non l’ho fatto perché mi è venuta una pazza idea. L’ho visto a sorridere e mi è sembrato che ti rassomigliasse, e ho pensato, guarda che matto, ho pensato: chissà che sia suo padre… Ora mi accorgo ch’era una pazzia. Che tuo padre! Tuo padre è zio Gavinu, il diavolo lo pigli e tu sei… tu sei… — conchiuse Jorgj ingoiando un terribile insulto — tu sei l’amante dell’ingegnere.
Tutti i colori dell’arcobaleno passavano sul viso dolente di Nania. Il cuore, il suo piccolo cuore appassionato, pareva volesse squarciare il broccato consunto del vecchio corsettino, e grosse lagrime le brillavano negli occhi. Non cercò di negare, e neppure di parlare. Con una immensa paura infantile, temendo che Jorgj le facesse del male, pensò di scappare e si mosse con un atto così repentino che il giovine stentò a raggiungerla, nello stradale.
— Nania — esclamò, sorridendo suo malgrado e afferrandola al braccio — non ti credevo sì cattiva… Perché fuggi? Temi che ti uccida, forse?… —. Anche essa non poté fare a meno di sorridere, il fazzoletto le era caduto di testa e il sole le inondava tutta la bionda testolina.
Jorgj mandò una esclamazione di gioia e di stupore scorgendo il suo volto sorridente e i suoi occhi azzurri – di un azzurro verdognolo – perfettamente simili a quelli dell’ingegnere.
— Nania, Nania, perdonami — le disse, sorridendo e singhiozzando. — Vieni, vieni, e facciamo la pace. Come è vero Dio, come è vera Nostra Signora del Miracolo, io non dirò a nessuno questo fatto. Non ne farò parola neppure a te, mai, mai, mai più. Vieni là a prender l’anfora, vieni, vieni…
La prese quasi fra le sue braccia e la ricondusse all’ombra. Nania sembrava morta, tanto restava pallida e immota, ma quando Jorgj disse:
— Chi lo credeva, chi lo poteva pensare… tua madre… —. Nania si eresse, col volto infuocato e con gli occhi lucenti d’ira e di pianto e gridò:
— Mia madre è morta! Rispettala perché era una santa. L’ingegnere mi ha baciato e mi ha abbracciato perché io sono la sua amante… Uccidimi pure, Jorgj Preda, uccidimi, ma non cercare mia madre…
E cadde a terra, schiattando in pianto. Con quelle parole essa perdeva tutto. Perdeva l’amore di Jorgj che essa adorava con tutto l’entusiasmo dei suoi quindici anni, del suo primo amore, perdeva i suoi sogni e le sue dolci speranze, perdeva l’onore e forse metteva in pericolo la sua vita e quella dell’ingegnere, ma che importava? La memoria di sua madre – la cui colpa era ignota a tutti e specialmente a Gavinu Faldedda, che ancora la piangeva, adorandone il ricordo – veniva salvata dal suo sacrifizio…
Ma Jorgj Preda aveva veduto.
Per qualche momento restò immobile e silenzioso a guardare la piccola fanciulla seduta sull’erba, che piangeva sempre. I suoi singulti infantili, disperati si perdevano nel gran silenzio meridiano, e per l’immensa campagna dormiente Jorgj non udiva altro rumore.
E fu per fuggire, sentendosi vile e indegno davanti alla piccola Nania, ma naturalmente non poté muovere un passo. Si ricordò invece tutte le belle promesse che si erano scambiate, si ricordò i sogni d’amore fatti specialmente la notte, mentre le greggie si abbeveravano sotto il ponte, laggiù, tra l’asfodelo e gli oleandri, pensò che fra tre anni sarebbe in grado di sposare Nania, e si chinò.
— Lasciami stare… — disse lei.
Ma Jorgj la sollevò come una piuma, se la prese tra le braccia e le coprì il volto di baci finché riuscì a rassicurarla e a farla sorridere.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: I primi baci
AUTORE: Deledda, Grazie
NOTE: si ringrazia la Ilisso Edizioni / Via Guerrazzi / 08100 Nuoro - Italia / Tel. +39 (784) 33033 / Fax +39 (784) 3
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La regina delle tenebre / Grazia Deledda ; Fa parte di: Novelle (2) / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina . - Nuoro : Ilisso, \ 1996. - 421 p. ; 18 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)