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Proiettato online il film del regista ravennate, in occasione delle celebrazioni dantesche. L’intervista di Irina Wolf dall’Istituto di cultura italiana di Amburgo
“Il teatro si nutre del mistero della vita, ovunque si trovi. Nei licei di New York come nei bassifondi di Scampìa. Come uno strano vampiro che ha bisogno di sangue fresco, il teatro ha bisogno di chi è giovane, o giovanissimo. Perché, come diceva Novalis, i bambini sono l’oro del mondo. Altrimenti il rischio è quello che il teatro si chiuda in se stesso e diventi una tomba“.
Marco Martinelli, a poco più di un anno di distanza dall’uscita nelle sale del film The Sky over Kibera, risponde così alla domanda della giornalista tedesca Irina Wolf su perché abbia scelto come trasposizi0one della Divina Commedia lo slum più grande del Kenya e come sia riuscito a darle voce attraverso i ragazzi adolescenti e i bambini che ci abitano.
La pagina Facebook dell’Istituto Italiano di cultura ad Amburgo, infatti, nella prima serata di ieri, ha ospitato il fondatore della compagnia del Teatro delle Albe di Ravenna, insieme a Micheal Meyer e Renate Heitmann della Bremer Shakespeare Company. Le due compagnie infatti hanno collaborato insieme nel 2015 e nel 2017 portando in scena Rumore di acque e Siamo asini o pedanti? nella versione tedesca. Dal lungo dialogo tra i tre autori, moderati dalla Wolf, anche traduttrice di opere teatrali dal tedesco e dal rumeno, tanti gli spunti di riflessione e di ispirazione sul teatro.
Il mio lavoro di regista – spiega Martinelli – è soprattutto un mestiere, una parola che si lega etimologicamente all’altra, quella del “mistero”, che procedono una a fianco dell’altra e che prosegue dicendo: “Io ho dovuto solo trovare il punto di congiunzione tra l’opera di Dante e la vita tumultuosa della baraccopoli, senza grosse differenze di metodo rispetto a quanto faccio nei laboratori con gli studenti ravennati”.
Il fulcro di questo lavoro è il coro, chiamato ad amplificare l’intensità di ogni personaggio. ed è sempre dal coro, continua, che parte il cammino dall’essere io individuo all’essere comunità. Un senso di appartenenza che, ho notato, i giovani africani hanno molto più sviluppato rispetto a noi. Perché il teatro è un’arte collettiva, dionisiaca, emozionale e coinvolgente allo stesso modo del calcio. Altrimenti non può essere. Ma mentre nel calcio lo scopo finale è la vittoria, qui è la celebrazione della bellezza. Che si raggiunge solo attraverso il rispetto e l’amore reciproco, il darsi spazio e ascolto senza che questo significhi rinunciare alla propria identità.
Sono partito , precisa Martinelli, con un approccio di tipo esplorativo, per capire se e quanto i ragazzi fossero disposti a lavorare su Dante, intuendone, anche inconsciamente, la sua straordinaria attualità, cosa che si è verificata.
Sia nella presentazione di Dante, che nel film è un giovane ragazzo in giacca e cravatta che si presenta come Dante stesso, poeta di Firenze e dalla pelle bianca, che prende per mano lo spettatore e lo conduce nell’inferno di Kibera, tra rivoli d’acqua sporca, polvere e ruggine.
Sia nel dar voce ai politici corrotti contro cui si scagliava il poeta, che nel film vengono interpretati da quattro ragazzi scelti tra i più grandi, vestiti in camicia e cravatta, che aizzano la folla urlando, ripresi in mime grottesche.
Sia, ancora, nell’incanto del passaggio finale, quando il gruppo di ragazzi con le magliette gialle, in una festosa e liberatoria processione, escono dal Purgatorio e si affacciano finalmente al Paradiso, sulle note della musica congolese tratta dal film di Pier Paolo Pasolini, il Vangelo secondo Matteo del 1968.
Anche per la scelta delle altre musiche, Martinelli ha spiegato di aver attinto a ricordi di infanzia. “Ho visto l’opera di Pasolini da piccolo e quelle musiche le ho portate con me, in attesa di poterle proporre in qualche mio lavoro. E’ accaduto lo stesso con le musiche di contrabbasso di Daniele Roccato che accompagnano il cammino dei ragazzi nel Purgatorio. Per la scena iniziale, che si apre sui tetti delle baracche di Kibera, invece, abbiamo creato dei cori con musiche popolari”.
Quando la Wolf ha fatto notare come il film, che ha comunque una valenza anche di tipo documentaristico, riesca lo stesso a trasmettere l’energia dirompente dei protagonisti, lui risponde che “il film è una trasfigurazione e non una ripresa filmata che tradirebbe il teatro stesso. Il salto che bisogna fare nel passaggio dal teatro al cinema è un salto di linguaggio ed è quello che ho cercato di fare a Kibera”.
La speranza, infine, che ruolo ha avuto in quest’opera? chiede uno spettatore dal pubblico online. “Beatrice chiama Dante uomo della speranza. Il fatto che lui, esule, profugo, che ha vissuto l’inferno per 20 anni, spostandosi da una città ad un’altra con il rischio di essere ucciso per conto dei fiorentini, chiami se stesso così, alla fine, è una testimonianza che ha ancora tanto da dire”.
Anche ai ragazzi degli slums, un inferno a cielo aperto da cui sembra non esserci uscita. Invece, paradossalmente, proprio qui, ha concluso Martinelli, ogni volta che arrivavo nella loro scuola, trovavo questi 150 sorrisi che si aprivano alla vita e alla speranza.
“Breve il tempo. Eccezionali i compiti. Direzione? L’infinito!”.
Anna Cavallo