Le tre ragazze
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 17 minuti
Mi stupisce che Clara, Lucetta e perfino la signora Ugolina che non è piú una ragazza, ripetano tanto volentieri che tutti gli uomini sono disgustosi e che loro li disprezzano e non sanno che farsene. Non parlano d’altro. Io non credo di aver mai dormito in lenzuola di seta, ma nemmeno quand’ero una sciocca dicevo tra me queste cose. Veramente di Clara, che trova disgustosa persino me perché vado in barca, non c’è da stupire. Clara è fatta di cristallo e potrebbe rompersi. A sentir lei, c’è un gran liquore in quel cristallo e non bisogna versarlo. Se lo berranno insieme nel palazzo d’inverno con quella brutta strabica che si porta dappertutto, quando avranno il palazzo d’inverno. Lucetta poi dice per dire: sono violenti, ingannatori, nientedibuono, ma se cosí non fossero, li farebbe diventare e va a cercarseli con lo stecchino. Quel suo aviere impudente, per esempio, che morde la sigaretta a mano riversa storcendo la bocca e strizzando gli occhi, di cui è tanto matta e viene a sfogarsi con me. Quello la maltratta, le dice villanie, si fa prestare i soldi, ma che lasci a mezz’aria una boccata per farle un sogghigno, e Lucetta gli salta al collo. Ha un fegato simpatico Lucetta: a me sembra piú sveglia del demonio e non può non piacere; peccato quel chiodo. Qualche volta penso però che è troppo furba per crederci davvero, e non mi stupirebbe se a lei piacessero e dessero uno sfogo proprio i cattivi trattamenti di cui si lagna.
Non posso dimenticare la sera che venne quel suo ragioniere a prenderci all’uscita. Ciò fu prima che conoscesse al Nirvana il suo grande amore rabbioso. Davanti a quel tipo occhialuto io stavo per andarmene ridendo, ma Lucetta, che meditava qualcosa, mi fece restare, con un’esaltazione fredda negli occhi, e volle che il serio Gino ci prendesse a braccetto tutte e due. Ce lo portammo cosí a passeggio per il centro, io gentile e contegnosa, Lucetta saltellante e dandogli ogni tanto una gomitata e scattando in risate folli che facevano contrar le orecchie all’individuo sotto le occhiate dei passanti.
— Calmati, calmati, – le diceva. Con me faceva il tollerante, esagerando in compitezza per correggere gli strappi di Lucetta; e m’informava della sua vita, dei suoi disgusti, e poi dei suoi divertimenti. Aveva qualcosa della cimice, cercava di sgusciare, di nascondersi, come se io fossi un lenzuolo. Lucetta spietata lo faceva parlar forte, lo scrollava, minacciava anche il mio contegno. Lo chiamava «Mal di Pancia». Balbettante e allarmato costui lasciava in tronco la spiegazione del suo orario e bisbigliava a quella matta: – Calmati, Luci, calmati.
— Un uomo come te dovrebbe nascondersi, quando passeggia con ragazze tanto maleducate. Su, perché non ti nascondi? Perché non salti in un tombino? Che uomo sei? Che cosa vuoi da me? Se ti vergogni, dillo. Noi non ci vergognamo.
Questo davanti al Centrale. Io scrutandolo aggiungevo un sorriso di mamma buona che scombussolava del tutto il disgraziato.
Cosí è fatta Lucetta, che nei giorni di pioggia chiama malvagi gli uomini. Ma Lucetta è spensierata, vive del momento gaio come di quello triste, e si dispera quando il suo sardonico amore le dice chiaro che non intende sposarla. È tutt’altro che stupida, solamente un poco pazza: si aspetta troppo dal mondo. Fa la disinvolta per strada e ride degli uomini, ma nulla è piú facile che sorprenderla e spalancarle gli occhi di voglia. A me sembra qualche volta che vada nuda e non lo sappia. Una sera che uscivamo, ci si mette al fianco un seccatore. Io la tirai via e non risposi. Dopo un po’ Lucetta osservò indispettita: – Peccato che non fossero due.
Non invidio queste bambine di città. Sono cresciuta in mezzo alle vigne scalza e poi chiusa in un collegio, e mio padre ancor adesso sparpaglia lui il letame, ma mi pare di saperne piú di loro. Gli uomini non mi fanno né schifo né pena, ma nemmeno li vado cercando come una gatta. Passeggiando per le strade, vengono tante idee, ma si può dimenticare che come gli altri solo sbirciando come siamo vestite non san nulla di noi, cosí di loro non sappiamo nulla? Mi pare un bel gioco questo, di scegliere colori, adattar fogge, studiare il passo o lo sguardo; ma appunto, so che è un gioco. Lucetta lo prende sul serio.
Chi non capisco è la signora Ugolina. Quando le salii in casa, accompagnata dalla zia, baciò e abbracciò la zia e poi anche me. Pazienza; ma quando cominciò, sedendosi appena, a chiazzarsi di rosa e mangiarmi con quegli occhi foschi, e la zia le parlava e lei si rivolgeva a me dimenando la testa, dal dispetto le risi in faccia.
Poi restandole in casa, la conobbi meglio. Adesso ho imparato a distinguerle in viso la contrazione di ogni piccola ruga e quale vampa l’accenderà a seconda della passione. Non è vecchia, ma ossuta; pure a guardarla sono certa che aveva una meno bella persona da giovane; e Clara, che viene qualche volta a cena, mi susurra socchiudendo gli occhi, che ancor adesso la nostra ospite è donna amorosa.
Con me nei primi tempi fu di molto tatto. Con casuali osservazioni mi rimondò di certi impacci provinciali, mi consigliò senza parere come meglio vestirmi, mi accompagnò qualche volta per strada: ma soprattutto mi lasciò fare e girare e provare da sola.
— Mi confondete, voialtre ragazze, – sospirava in quei giorni, – col vostro impiego. Fate una vita da scapoli che non vi dona affatto. Quando ti fai svegliare il mattino, Lidia, per vestirti in furia e scappare, io restando qui sola mi sento l’unica donna al mondo. Che cosa sono i giorni per voi? Fogli del calendario. Ah, m’invecchiate a vedervi passar cosí il tempo. Tu Lidia, non pensi a prepararti un miglior avvenire? Bada che non vengano un giorno altre ragazze piú spietate e vi caccino via come fate a noi vecchie e vi chiudano in casa a ricordare. Si resta giovani, solo quando lo si è state.
Tutta accesa invece e stirata, le lustra la pelle, ora che mi ha in maggiore confidenza e può sfogarsi. Ci siamo presto intese: lei non è piú vecchia di me che negli anni; tutto il resto, pensieri, ansie, fissazioni, può scoprirmelo come a un’amica. Mi lascia intravedere un convulso livore che faccio sforzo a penetrare, tanto l’ha sempre ben celato sotto il sospiro benevolo della saggia signora.
— Lidia, – mi dice angosciata, – la sorte piu atroce è arrivare ai miei anni e convincersi che tutto è illusione, sporca, disgustosa illusione. Non serve dar tutto, abbandonare tutto, fare l’ultimo sacrificio, essersi messe anche in ginocchio; fin che ci resta un po’ di grazia e di sangue, ce lo prendono, se lo dicono e strappan fra loro, ci sopportano; e poi, quando non sanno piú che farsi di una donna, le rinfacciano la stessa umiliazione che ha sofferto innanzi a loro. Se sei piaciuta, se li hai divertiti una volta, dovrai saperli divertire sempre. Anche questo è accaduto. Questo è terribile, Lidia, dovertelo dire alla mia età.
— Mi lasci dunque le illusioni, signora.
— Ah tu scherzi, Lidia, tu mi geli il sangue a volte: vi conosco voialtre ragazze, voi credete che basti guardare gli uomini negli occhi come i cani, e dominarli. Voi non sapete che l’uomo piú vile, piú meschino, piú fatuo, può piegare una donna, umiliarla, schiantarle l’esistenza. La natura ha voluto cosí.
Queste cose dice a tavola, fissandomi negli occhi, trascolorando, riversando il suo disgusto sul boccone che ha posato. Io piegata mangio svelta, studiandola di sotto in su. Quella durezza dei suoi occhi m’impedisce di capirla. Non è, benché tanto ci tenga, una donnetta spaurita e calpestata, e s’accanisce con troppo vigore sulle sue umiliazioni. A me non riuscirebbe di parlarne, se qualcosa m’avesse tanto umiliata. O forse le piace esagerare per sentirsi piú donna.
Però è vero che in città non si può vivere senza pensarci. Me ne accorgo vestendomi, camminando, guardando in giro. Comprendo adesso perché i primi giorni uscivo di casa tanto leggera e vogliosa d’andare e guardandomi innanzi, beata di quella striscia di cielo che precede ogni via. Queste cose in campagna non dicono nulla: ce n’è troppo di cielo, e non serve a nessuno. Ma non è solo il cielo. Dà gioia pensare che al disopra e nel mezzo delle strade c’è una luce fresca, il sole e l’ombra, il marciapiede, la gente che va: ma non è solo questo. C’è la sorpresa, la felicità di sapersi una donna, e di non dover nulla a nessuno e, guardando negli occhi chi passa, saperlo un eguale. C’è – piú che tutto – una calma tensione, quasi un’ansia raccolta, di attesa, di assurda speranza.
Non si può non pensarci. È un bel gioco e dà un senso al trambusto, ai colori, a ogni cosa. Fin qui capisco Lucetta: lei mi parla dei soliti casi, dei giocondi dispetti, delle tristezze assurde; io l’ascolto e altro intendo, che le scappa dagli occhi. I primi giorni bastava una voce per strada, un saluto, un sorriso del primo passante, per levarmi a una limpida, aerea gioia tanto piú intensa quanto piú segreta. D’istinto giocavo a lasciare animarsi le vie intere in quell’ebbrezza, e io stessa bevevo ardita l’impalpabile senso di ignoto. E poi mi stupivo accorgendomi che, sotto tutto, c’era l’occhiata involontaria di un uomo, che la sua donna riafferrava scattando risentita. O un bel pensiero nato allora fatto di nulla, di un ricordo sorridente. O il pulsare tranquillo del sangue.
Ma rimango la stessa anche in questi momenti. Studio il passo e li godo da sola; tutt’al piú mi riscontro alle pietre dei muri o alle macchine in fuga, senza lasciar la presa di me stessa, senza tradirmi. Perché questo è il pericolo, tradirsi. La signora Ugolina e Lucetta sono gente che si tradisce, e di qui nasce ogni loro immaginaria disgrazia. Lascian capire che fanno sul serio quel che è un semplice gioco.
Quanto non si agitò la signora quella volta che Nanni venne a prendermi in casa. Gli studiò tutte le grosse nocche delle mani, mentre lo intratteneva; gli fece dire come mi chiamava; se veniva in barca solo per farmi piacere; se portava sempre quel maglione bianco; se stava in camera ammobigliata o coi suoi; tentò insomma di penetrarlo tutto, anelante e graziosa, convincendosi di farlo per me. Nanni la stava a sentire con quella sua placidezza e la giacca buttata alle spalle, ridendole appena. Quando uscimmo, mi prese il sacco e mi chiese brusco: – Fa l’amore cosí, anche con te?
— Abbiamo tutte questa malattia, – gli spiegavo. – Quand’ero bimba anch’io, baciavo il gatto e gli facevo i discorsi che la signora ha fatto a te. Poi diventando donne… – (Nanni se la godeva) – …innamorandosi, c’è chi capisce che gli uomini voglion altro, e chi no. Ma è un pregio raro restar bimbe, come lei.
— Donne che siete, – scattava Nanni.
L’ultimo mese non stemmo una sera senza vederci. Lui lavorava nella stessa via e passava a prendermi all’uscita. Andavamo insieme a cenare, e sempre aveva già telefonato alla signora che sarei tornata tardi. Col batticuore la signora mi attendeva sveglia e mi avvertiva che mi ero troppo abbandonata e lo lasciavo far troppo. Non si capacitava di quegli occhi imperturbati e di quella giacchetta sulla spalla. Gli supponeva i piú loschi disegni e mi chiedeva come stava in calzoncini.
Ma Nanni mi aveva capita o forse era stato sempre cosí. Ricordo ancora i suoi silenzi quelle sere che salivo da lui, nella penombra variegata da spire di fumo. Faceva tutto con semplicità come a me piace – un ragazzo che mangia la frutta – e non mi chiese mai se ero sua. Lo vedevo agitarsi: temevo ogni volta che stesse per dire qualcosa di sciocco e invece usciva nell’invito imbarazzato a discendere, muoverci, sbatterci altrove.
Appena fuori diventava vispo, come la strada fosse cosa sua, e andavamo d’impegno. Lui non era mai stanco, io ben presto mi chinavo ridendo a soffregarmi una caviglia, e allora Nanni si rassegnava per un caffè.
Discorrevamo di minute cose: lui mi parlava della sua smania di viaggiare e rimpiangeva di non esser marinaio, e mi chiedeva delle mie campagne e se avrei sempre continuato in quegli uffici. Non gli piaceva la città e mi consigliava di piantare quella gente e ritornare ai miei paesi. Che bisogno abbia una donna di impiegarsi non capiva. Io stavo a sentire, ogni volta sorpresa, la semplicità con cui spiegava i suoi pensieri e mi pareva di specchiarmi nella sua compagnia, ascoltandolo esprimere tanto tranquillo ciò ch’io dicevo soltanto a me stessa.
Quando partí per le miniere (era stufo di stare a un tavolo) me lo disse sommesso, come ci avesse qualche colpa.
— Ma, Nanni, fai benissimo. Vivrai come piace a te, senza la giacca e sempre sporco. Non si portano gli stivaloni in miniera? E poi non ci sono donne. Vorrei poter venirci anch’io.
Nanni mosse le labbra per dire, ma poi mi sorrise intento tacendo. Se altro non ricordassi di lui, mi basterebbe l’ombra di quel sorriso per farmi ogni volta chiuder gli occhi dalla tenerezza. Ero tanto felice che non mi chiedesse nulla che, se avesse parlato, temo ancora avrei detto di sí.
Mi fece pena come a una sciocca vederlo partire e dover ritornare all’ufficio. Venivo dalla stazione, dove l’odore stesso del carbone (era un mattino fresco) mette voglia di buttarsi in un treno e scappare. Pensavo alla terra brulla e affumata che Nanni amava, a quelle buche fredde e senza fondo dove sarebbe sceso, e levavo gli occhi al cielo arioso, come Nanni li avrebbe levati risalendo.
Quant’ero sola, lo capii con Clara giorni dopo. Mi chiese ammiccando s’era lecito andare in barca sole donne. Le consigliai il costume sotto l’abito e ci trovammo una domenica sul fiume. Clara portò con sé la strabica, che faceva il broncio, e si distesero in fondo alla barca lisciandosi le gambe e spogliandosi cautamente. Scivolavamo sotto una riva d’alberi, deserta. Clara, che è snella come una bionda, rimase in un bel costumino bianco. Io remavo e loro bisticciavano. Bisticciavano a occhiate, volgendosi le spalle, strappandosi indumenti, tacendo. C’era un gran sole e socchiudevo gli occhi, remando, ripensando al passato, come se Nanni fosse ancora là a dar gli strattoni e io, seduta, a fissare le nuvole.
Clara, con quel suo fare freddo, sa parlare. Si mise a scherzare sul mio allenamento e tappò intanto la risata sgradevole dell’altra con una manciata di caramelle. Costei, smorta e ossuta, fatta su nell’accappatoio, si grattava i polpacci pelosi, e succhiando non smetteva di lagnarsi del sole. Non capisco come Clara, che vuol essere di fine cristallo, sia cosí intima di tanta bruttezza e scioccheria. Si vogliano pur bene se ci tengono, ma perché mostrarmela anche in costume? e perché venirmi a richiedere, quando il sole gliela offende?
Scorata e seccata, non godevo piú con serenità nemmeno la gita e avrei dato volentieri i remi in testa a tutte e due. Mi vergognavo, al confronto, d’esser stata una volta, fra quelle stesse rive, tanto scioccamente felice.
Ma fu proprio la strabica a levarmi d’impiccio. Passandoci a fianco una barcata di giovanottoni allegri che vociarono i soliti auguri, lei si slacciò l’accappatoio, entusiasmata, e lo sbandierò in alto agitandosi. Ne seguí che i giovanotti si vollero avvicinare, dicendo ancor altro, e ci porsero i remi e uno già stava saltando nella barca, se Clara non avesse menato un secco schiaffo al suo tesoro e io, dando nei remi, scostato il bordo, per cui quell’altro stramazzò nell’acqua. Ci furon grida, risa; ce la cavammo a malapena.
Ormai Clara e la strabica non eran piú da vedere: invelenita l’una, tremante l’altra, si litigavano a non piú finire. Alla fine, io lasciai la voga e sibilai a Clara: – Le scenate fatele in casa. Qui imparate a trattare con gli uomini –. E Clara mi guardò, non trovò da rispondere, gettò un ultimo cipiglio a quell’essere, poi disse: – Sarà meglio che torniamo.
È d’allora che son disgustosa perché vado in barca. Ma non rimpiango quella gita, perché soltanto ripensandoci ritrovo quel senso di liberazione che avevo già dimenticato. Non m’importa di Clara o Ernestina: ritorno in me stessa. Discendendo dalla barca con quelle due intruse, come un peso mi cadde ogni pena di sciocco rimpianto, ogni tristezza di ricordo: Nanni era stato una compagnia cara, e io tale ero stata per lui; c’eravamo compiaciuti e abbracciati, c’eravamo lasciati: bastava. Senza saperlo c’eravamo compresi. Quella stessa serena chiarezza che avevamo cercato a vicenda, non doveva incrinarsi nel nostro ricordo. Né le amiche né il peso dei giorni contavano nulla. Non tradirsi: nemmeno a se stessa. Ritornare sul fiume, rievocare il passato, ma studiare ogni passo e ogni sguardo. Chiuder gli occhi, piuttosto.
La baldanza di essermi ritrovata mi dovette dare un’allegrezza incontenibile i primi giorni, se Lucetta che di allegrezza s’intende mi disse: – Che hai Lidia? il tuo canottiere ritorna? – Io le chiesi se andava a ballare e la volli con me. Lucetta aveva la promessa che il suo tormento veniva a prenderla e passò un pomeriggio al tavolino scattando e ridendosi attorno. Poi se ne andarono insieme a braccetto. Li raggiunsi dopo cena, al Nirvana.
Ora si è accorta anche la signora Ugolina che non c’è piú Nanni e mi guarda alla sera con occhi solleciti come io fossi malata. Arrossisce e sospira, e fa discorsi anche piú convulsi, spiandomi addosso la pena. Non si capacita ch’io torni in barca, cosí, sola.
— Ah Lidia, sentivo che doveva finire cosí. Mi metto nei tuoi panni e soffro io per te. Ti vedevo presa talmente. E adesso che vuoi fare? dimenticarlo, Lidia. Vi scrivete?
— Oh ti capisco Lidia, questi dolori tolgono il fiato, ci fanno disprezzare noi stesse. Ma che ti ha detto? ti ha promesso qualcosa? Non credere a queste promesse, non credere a nulla. Poverina, gli andavi in casa?
Lascio che dica e le rispondo a smorfie, senza darle la soddisfazione che vorrebbe, di raccontarle umiliazioni e indegnità. La signora per incoraggiarmi apre a volte le fogne del suo passato e bisbiglia i segreti. È curioso come qui non arrossisca. Diventa invece smorta e traspira.
Eppure avrei cose da contarle che la farebbero trasecolare. Allora sí che fui malata. Uscivo appena dal collegio quando mi prese quella febbre. Ma capirebbe come quegli inizi sono finiti a questa pace?
Se talvolta mi sveglio di notte e mi stringo al cuscino, con l’angoscia di un sogno e la mano che brucia, e non oso nemmeno di muovere un dito, mi ricordo d’allora. Torno a sentirmi sradicata e miserabile, torno a vedermi traversare la campagna, a balzi ansiosi, a improvvise fermate, col cuore in bocca e le narici tese, atterrita di quel che facevo ma piú atterrita di non farlo. E poi Giusto arrivava fischiando, mi diceva «la povera figlia!» mi prendeva alla vita palpando gli schianti del cuore e lodandomi, poi discendeva nel ritano: io lo seguivo.
C’eran piantine di castagno in quella riva (ancora piú tardi ho ritrovato in un mio libro una gran foglia disseccata) e letti di felce nodosi e taglienti, con qualche po’ di muschio. Le prime volte Giusto mi sbatteva a terra dove gli capitava, e rideva se io mi divincolavo sopra un sasso intollerabile. Mi disse un giorno che lui si sentiva maschio e che, se io ci venivo, ero dunque contenta di lui. Come una sciocca gli nascosi il volto sul petto e mi sforzai di non piú lagnarmi. Non sapevo nemmeno ch’ero io la piú forte.
Ma cosí sconvolgendomi, queste corse almeno mi sfogavano, mi lasciavano sola e sfibrata al ritorno, qualche volta persino serena. Mi sedevo da parte nell’aia e ripensavo avvampando, alla scappata. Ero come una cagna che ha sonno: ora tremo pensando al pericolo corso, ma proprio la violenza di quella mia febbre e i terrori e ogni cosa, mi protessero forse. Giusto, fresco di moglie, neanche ci pensava; io avevo sedici anni.
Tutto questo potrei raccontarlo, ma come descrivere il mio stato tra i miei: le notti insonni, il disgusto ai risvegli e l’angoscia rabbiosa di quando avvilita pensavo al futuro e non osavo sperare che quell’assurdo attaccamento sarebbe mai cessato? A Lucetta forse, potrei raccontarlo, se mi ammirasse un po’ meno.
Giusto aveva una moglie di un anno, palliduccia e asservita; e, lo seppi piú tardi, già incinta. Gli badava alla casa e al negozio, un negozio di stoffa, quasi fuori paese. Io fui presa da Giusto proprio nella gioia che mi dava, quell’estate, correr da casa nel nuovo negozio e sceglier le stoffe del primo vestito che mamma mi concesse dopo il collegio. Sotto gli occhi della moglie, Giusto mi strizzò la mano tra le pieghe di una mussola verde di seta che mi faceva trepidar tutta tant’era bella. E malgrado l’abbia poi conosciuto per un qualunque avventuriero da fossati, mi turbo ancora a ricordare il lampo cangiante di quegli occhi fermi, tra le stoffe.
La moglie timida mi sorrideva, ogni volta che passavo. Sapeva, credo, d’esser già tradita, non con chi; e non lo chiedeva e s’umiliava tutta sola. Era molto di chiesa. Ora so di non essere stata nemmeno la prima. Potevo capir quella donna: io stessa non ne ero gelosa, ma nell’avvilimento mio e suo vedevo una specie di sorte comune, una gioia e una pena comune (non aveva vent’anni). Una cosa ricordo bene: mai le invidiai d’essere lei la moglie; e ciò vuol dire che qualcosa resisteva allo sconquasso, forse solo un istinto, una voce affiochita, ma salda, di me stessa quale ero bambina, ma quale tornai. Quando penso al pericolo in cui sono stata di perdermi, e come mi sono salvata d’istinto, d’un tratto, come per forza inconscia, davvero credo che ogni cosa accade in noi senza che noi possiamo nulla; e che ragione e volontà sono parole; che non c’è chi si perde o si salva, ma quali siam nati tali sempre restiamo.
Giusto volle servirsi di me e gli accadde invece che tra le mani gli divenni una donna. La sua forza era stata il mio disperato bisogno di uscire dai campi, di venire in città, di conoscere meglio me stessa, come mi ero sognata in collegio. Mi trovò temeraria e spaurita, e non ebbe che a porger la mano e credette di avermi sedotta. Ma la verità vera è che mi compiacqui della sua cruda intimità e degli occhi freddi, come di me stessa allo specchio. Nessuno del resto ha saputo finora sedurmi.
Intanto, scatenata com’ero, soffrivo e avevo fatto anche l’imprudenza di parlargli dei miei sogni, per cui spesso mi chiamava dattilografa. Una volta che gli dissi esitando: – Sei pazzo: domani non vengo, – lui si provò a farmi paura, figgendomi un gelido sguardo. Ma l’estate bruciava e non potevo fermarmi. Non lo desideravo del resto nemmeno. Quella nettezza di decisione per cui piú tardi convinsi la zia a trovarmi lavoro qui e piegai tutti a consentire, mi s’era come intorbidata. Mugolavo tra me abbassando il capo.
Poi d’un tratto fui libera. Senza volerlo e senza sforzo. Non mugolavo e non soffrivo piú. Lí per lí non compresi neppure. Mi trovai sola e palpitante e un poco stanca, ma serena, serena e schietta come l’acqua, come non era nemmeno quel cielo. Attraversavo quel giorno una nostra vigna per raggiungere il sentiero dei castagni; era già tardo pomeriggio e tra le piante s’innalzava una gran luna trasparente. Non avevo quella sera speciali rancori, anzi m’ero convinta che Giusto faceva sul serio e la sua bruscheria celava soltanto il timore di perdermi. M’ero mossa da casa piuttosto impaziente e pensando che forse avrei fatto un po’ tardi. Camminavo raccolta, bucavo i filari, pensando all’incontro e sorpresa di me. Mi piegavo a strattoni, incespicando sulle zolle, irritata d’andare.
E d’un tratto fui libera. Mi soffermai drizzandomi, chiedendomi quel che cercassi da Giusto. Sorrisi a me stessa. Lo immaginai solo, in attesa, insinuante, accigliato, tagliente. Mi sentii ridere in silenzio. M’invase un’ansia di provarlo, di ferirlo, feci un passo di corsa; mi rifermai a sorridere, sentii i pipistrelli che guizzavano sopra la luna; e levai allora le braccia come una bambina, come una sciocca, cacciando strida, ridendo, rovesciandomi indietro. Ero sola. Bastavo a me sola. Anche l’ansia maligna di rivedere Giusto abbandonato mi lasciava. Ero libera e sola.
Né quella sera né i giorni seguenti andai da Giusto. I primi tempi feci la stanca in casa e cosí Giusto sentí dire che non ero in salute. La verità è che lo temevo ancora un poco e non avrei forse saputo stargli a fronte. Ma appena mi seppi convincere che davvero la febbre di tutta l’estate mi era uscita dal sangue come a un tuffo dileguano la stanchezza e il sudore, non ebbi piú ritegno a uscire.
Lo rivedo ancora gironzare per i campi, spiarmi, seguirmi, e una volta affrontarmi scuro in faccia, avvilito. Ma le minacce e le suppliche m’impazientirono soltanto; le scenate alla moglie arrivavano in piazza e indignarono tutti; da me non ottenne piú nulla. Poi gli nacque una bambina, io decisi di venire in città e non ne sentii piú parlare.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Le tre ragazze
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)