Notte di festa

di
Cesare Pavese

tempo di lettura: 36 minuti


I.

Sull’aia liscia e soda come un tavolo di marmo, saliva il fresco della sera. Ai piedi di una collina, quando il sole è appena calato dall’altra parte, la terra pare schiarirsi di luce propria, una luce fresca e silenziosa, che esce dai sassi e dalle cose nude. Nell’aria immobile, dietro la stalla, scoppiava a tratti da lontane colline, dondolando sul vento, un frastuono di musica ballerina, che pareva una rissa di gole squillanti.
I garzoni strisciavano i piedi scalzi sulla durezza fresca del suolo, spazzando con scope di frasche l’ultimo tratto d’aia. Con l’occhio losco i due coglievano l’attimo che il Padre piegava il capo nella botte, e giú una sferzata sulle orecchie dell’altro. Un terzo, anche lui scalzo e coi calzoni lunghi, era seduto sul muricciolo e annodava con una scorza di salice le sue frasche scompigliate. Gli cadevano i capelli sugli occhi ogni volta, e si liberava rigettando il capo. A uno scroscio piú forte di quei due, sogguardò verso il Padre che, con la sottana succinta, continuava piegato sulla botte a rimenarvi il bastone, e sibilò al piú piccolo:
— Dàgli bagnato di merda.
C’era un’altra botte aperta sull’aia, e anche da questa usciva un tanfo estuoso e gagliardo che s’ammorbidiva salendo nel crepuscolo. Il ragazzo levò la frasca, per immergervela, ma gli cadde di mano. Il Padre s’era rialzato, rosso in faccia, forbendosi le dita al grembiale di sacco, e l’altro garzone fuggiva muggendo: – Padre, Rico mi vuole sporcare, Padre.
Il Padre fece gli occhiacci e si voltò a quello seduto. – Sei tu la pietra dello scandalo, – gli vociò, levando alla fronte il dorso della mano per detergersi il sudore e arrestandosi a mezz’aria. – Sei sempre tu, Biscione. Che cosa fai lí seduto? Avete già mangiato cena, eh? Vi gonfia il ventre? A far letame siamo tutti buoni; solo a impastarlo vanno giú le braccia. Animo, spazzate quest’aia, viene notte.
— L’aia è pronta, – disse Biscione, senza muoversi.
Svoltò allora dal sentiero del letamaio, il Professore, con la giacchetta sulla spalle, affibbiandosi la cinghia dei calzoni.
— Che bel fresco fa qui, – brontolò camminando rasente il muro della stalla, dove l’aia non era battuta. Venne a sedersi sulla vaschetta della pompa, una vaschetta disseccata e piena di stracci, e allungò le gambe, aspirando per le narici e socchiudendo gli occhi.
— Guardate qui le formiche che passeggiano, – diceva il Padre, curvo a terra. – Guarda tu, Biscione. Vanno anche loro in festa. Come corrono. Sentono che verrà la meliga. Gliela daremo noi la meliga.
— Si riposi un momento, Padre, – ruppe il Professore, inzeppando una pipetta, – e ascolti suonare. Sembra che sia il cielo limpido che suona; è il vento stesso che fa musica, stasera.
Biscione stava parando gli altri due al mucchio di frasche. Il Padre si volse al Professore e s’accostò, fra le botti.
— È un gran brutto vento che ci ha portato questa musica. E lei parla del cielo. I nostri ragazzi, chi li vuole trovare, deve andarli a cercare fra i baracconi. Tirasegno e serraglio, serraglio e tirasegno. Quanti ne son venuti oggi a ripetizione?
— Due.
— Ma bene. E i parenti sono anche peggio. Mangiano e bevono, bevono e ballano. L’ascoltassero almeno la musica. Vuol credere che ieri passavo in piazza per salire in comune e ti vedo – eran le sei del pomeriggio – quella… quella maestra della stazione – avrà già la sua età, Professore – che a braccetto di suo padre – di suo padre, le dico – montano sulla giostra degli automobilini e cominciano a girare avanti e indietro, gridando, saltando contro le altre macchine, cozzando come bestie. Pensi quel che succede in quelle automobili alla notte. Uno però, mi han detto, si è schiacciato la mano tra due macchine.
Il Professore, con un sorriso giallo, guardava il fumo della sua pipa e, al di là, come in uno specchio annebbiato, i due garzoni che legavano frasche. Biscione era sparito.
— Non giudichiamo, Padre. Non tutti gli scapoli sono penitenti come noi.
— Ma la sente lei, – brontolò il Padre, cavandosi una cicca dalla sottana e mordendola vivamente, – la sente lei la gioventú che ritorna tutta la notte per lo stradone, da un fossato all’altro, brilli che non si tengono in piedi, vomitando tutte le enormità che sanno, e quelle che non sanno, tirando calci nel nostro cancello, come fosse l’osteria? E non mancano le donne, nemmeno.
— Vuol dire che alla Madonna di Settembre una bella processione laverà anche il cancello.
— Bastasse! – sbuffò il Padre. – Questi zingari dei baracconi hanno fiutato l’affare e non usciranno tanto presto dalla valle. Sono come – col nostro rispetto – questo sterco del preparato: a ficcarci una volta le mani, non se ne perde piú l’odore.
E il Padre tornò a stropicciarsi i pugni contro il sacco che gli pendeva dal collo. Erano grossi pugni bruni, striati di nero nelle pieghe, sotto le unghie, ai polsi. Parevano di legno o di polpa rugosa. Da sotto il telo di sacco gli uscivano i piedi scalzi, anch’essi nodosi, interrati e contorti come radici.
— Non è cattivo quest’odore, – fece il Professore impassibile. – Non dev’essere spiacevole nel primo mattino, sparpagliato in mezzo ai solchi.
— Fin che fosse di bovina, son d’accordo, – disse il Padre. – Ma questo qui fa pianger gli occhi. Tanto scalda e inacidisce, che non serve nemmeno d’ingrasso.
Il Professore tirò alla pipa. – Per me questo è un segno del privilegio e della miseria della nostra condizione. Nel nostro corpo c’è un elemento diabolico – la cattiva volontà – che avvelena anche ciò che espelliamo. L’acidità è dello spirito, – e sbirciò nel fumo sornione la faccia scarna del Padre.
— Niente di piú facile, – disse il Padre, – niente di piú facile… Biscione! sono pronte le scope? Dov’è andato quel boia?
Mentre Rico e l’altro venivano avanti, brandendo lunghi ciuffi di frasche d’ontano, Biscione ricomparve di corsa, facendo l’atto di tirarsi ancor su i calzoni. Il Padre gli andò incontro guardandolo fisso e lo afferrò per un polso. Biscione aveva quasi la sua statura, ma era gracile e piú pallido.
— Stavi a fumare, eh? – gli fece il Padre accostandogli il viso. – Dove li prendi i soldi? – Senza rispondere, Biscione divincolava il braccio prigioniero e con l’altro ostentava di allacciarsi i calzoni.
— Stavi a fumare? – ripetè il Padre, senza mollarlo. –Non fare commedie. Si sente al fiato. Dove li prendi i soldi? – Biscione non rispondeva.
— Raccoglierà le cicche, – disse il Professore dalla pompa.
— Macché cicche. Ho persino trovato le sue, di cicche, – ringhiò il Padre. – Mi va a vendere le pesche a cestini; se non mi fa peggio. Ma lo sai che derubi il bene del Signore, tu? Lo sai? – E gli frugò nelle tasche ansimando e strattonandogli il braccio. Non trovò nulla. – A sedici anni! Questi sono i poverini che raccogliamo per carità. Dice che son scemi, il Superiore. Che da soli dormirebbero nei fossati, che finirebbero male. Sei scemo come me e il Professore, tu! Nei fossati sí che finirai, se non peggio. Vagabondo! – E gli tirò un ceffone. – Scappami ancora di notte per San Rocco –. E gliene tirò un altro. – Tu non sai quello che fai! – E d’un calcio del piede nudo lo spinse a tre passi. – Raccogli una frasca e lavora, Biscione. Ti sta bene quel nome.
Ma Biscione, scattando da terra dove s’era lasciato afflosciare, fu sul punto di saltare sul Padre. Lo si vide tremare, levare le braccia, afferrarsi la stoffa e la pelle di un fianco, e piegarsi all’innanzi. Il Padre indignato stava dritto in attesa e la sottana dietro gli era ricaduta sui talloni. Biscione sputò, mugolò, poi volse il capo e tutto il corpo, e prese a correre e sparí dietro le stalle.
Il Professore s’era alzato e brandiva la pipa in una mano.
Il Padre restò a bocca aperta come sul punto di gridare; poi scrollandosi si volse agli altri: – Sono pronte le scope? Alla botte. Suonatori del boia, non smettono nemmeno per l’Ave Maria. Avanti voialtri.
Il Professore si tornò a sedere. L’aria limpida, vitrea, cominciava a imbrunire attutendo e isolando i rumori, che parevano tutti piú freschi e sommessi sotto il lago del cielo. Le colline eran nere e lontane, dietro il fruscio dei gelsi oltre il rialto. Quegli scoppi di musica adesso giungevano aerei, frequenti, turbinando nell’aria tranquilla, liberandosi nel cielo del tumulto, della foga e del vino da cui nascevano, puro suono oltreumano come quello del vento.
Sulla pallida sodezza dell’aia scalpicciavano i piedi nudi. I due garzoni si curvarono avanti alla botte, pronti con le frasche d’ontano. Non si vedevano piú in faccia, parevano tesi a un gioco. Il Padre si piantò dietro alla botte, gambe larghe nelle mutande pallide e afferrò a braccia aperte l’imboccatura. Come un lottatore diede una scossa al grosso fusto, dondolandolo per farlo sciaguattare. Sibilò: – Pronti –. I due garzoni stavan tesi. Allora spinse innanzi la botte, dirigendone la bocca in mezzo a loro, verso l’aia. L’equilibrò un istante cosí obliqua, e poi piú adagio, con cautela, se la lasciò cadere innanzi, accompagnandola, piegandosi e ansimando, tendendo le braccia, la schiena, i garretti, scricchiolando anelante. Davanti a lui, fra i due garzoni cominciò a scorrere quel liquido nerastro, in un impeto schiumoso. Piombò giú come l’olio e allagava. I due garzoni eran saltati indietro. – Sotto, voi, – ruggí il Padre nei muscoli tesi, – sotto, dentro, allargate.
E allora i due si piegarono e menarono le frasche. Veniva giú uno stramazzone dopo l’altro e faceva uno scroscio schiumoso sprizzando le zacchere da tutte le parti. C’eran saltati anche coi piedi e si dibattevano a gara, levando in alto le scope fischianti, abbassandole subito perché sgocciolavano, serrando gli occhi e distogliendo il naso, sfiorandosi a volte nel colpo, sordi e invasati. – Assassini, – urlava il Padre nello sforzo. – Assassini; basta, ché piove. Date di fianco. Che la possiate mangiar tutta… date di fianco, umanamente… accompagnate… Ah! – e sputacchiava scatarrandosi, sempre curvo sulla botte, sempre inchiodato a quell’urna che versava, versava inesorabile e lenta il preparato.
Fino al Professore giungevano zaffate quasi liquide, quasi palpabili, di quel tanfo e si sentiva preso al capo, occhi e narici gli mordevano, la musica lontana rimbombava, e lo invadeva una smania di scalzarsi, di spogliarsi, di gettarsi anche lui, barbetta al vento, negli spruzzi e saltare e gridare. Ma non batté ciglio, se non per le lacrime che gli spicciarono dagli occhi stralunati.
I due garzoni s’eran già calmati. Sotto la voce del Padre passettavano ora compunti, curvi, e con la lunga scopa irriconoscibile menavano lente spazzate gorgoglianti stemperando la schiumaglia, accompagnandola lontano, sorvegliandosi a vicenda. Scolando la botte il Padre nella foschia s’era piegato fino a terra, e facevano un ammasso solo.
— Quest’odore, Padre, dà alla testa come il mosto, – disse nell’ombra il Professore sputando.
— Ne siamo un poco tutti responsabili.

II.

Rico posò il lanternone sul davanzale della finestra e guardò nel magazzino. Ballarono un poco con la fiamma i grossi ammassi d’ombra, tutto vacillò in un terremoto rossastro, e poi le corone d’aglio penzolanti, le gialle pannocchie sfogliate dell’anno prima, la catasta rigonfia dei sacchi di grano, si calmarono e apparvero, incerti.
— È qui, dorme.
Entrarono sul pavimento di terra battuta i due garzoni scalzi, lasciando il lume alla finestra.
— Il Padre voleva che ci lavassimo, – ansò in un bisbiglio Rico. – Io ho sonno; piuttosto tengo i piedi fuori del pagliericcio.
— Se il Padre ti prende, vedi cosa ti fa. Guarda Biscione che oggi si è rivoltato, – muggí Gosto sottovoce.
— Sei un somaro. Biscione fa tutto apposta. Guarda che cosa gli ha fatto. Niente. Biscione è scappato e venuto a dormire. Cosí non ha piú lavorato. Tutte le volte che Biscione si fa dare dei calci, restiamo noi soli a lavorare. Quando c’era da zappare il giardino, ha fatto lo stesso. Poi il Padre l’ha perdonato, ma intanto ho zappato io. Tu eri nella vigna allora.
Rico scosse il lanternone per spegnerlo. Nelle vampe traballanti balzarono in luce i tre pagliericci allineati contro la parete: sopra l’ultimo, sdruscito, stava bocconi a gambe unite e torso nudo Biscione, le braccia pallide incrociate sotto la faccia. Non si era mosso. Nemmeno al muggito di Gosto, né al crepitio delle foglie secche dei pagliericci. In un grande oscillare d’ombra Gosto fece il gesto di tirargli un sasso, e storceva la bocca.
— No, – bisbigliò Rico, mentre al suo soffio il magazzino precipitava nelle tenebre.
Si sentirono gli ansiti dei corpi che si allungavano, il gemito crepitante dei pagliericci, grugniti, un sospiro; e poi la gran finestra riapparve spalancata nella penombra incerta.
Per la finestra, nella notte fresca, tornò a echeggiare vicinissimo e remoto un clamore di musica, insieme limpido e attutito. Parve ansare col vento; cessò d’un tratto; ritornò confuso fra gli stridi dei grilli; fu coperto da una voce gagliarda, chi sa dove, che si mise a cantare; poi la voce si perse, morí nella notte e l’ondata dei suoni s’allontanò tra le piante.
— Rico, – muggí Gosto, – puzzi che fai venir male.
— Sei tu che puzzi. Io sono andato a correre nel prato per lavarmi i piedi.
— Non è bastato, Rico. Non c’era ancora la rugiada.
— Il Padre ti griderà domani. Vedrai. Non sei Biscione tu.
— Io domani, – disse Gosto, soffocando la voce contro il pagliericcio, – chiedo al Padre se mi lascia andare a fare il bagno alla Piana. Ha detto che, se non scappiamo di nascosto, una volta ci lascia. So un laghetto fresco come il pozzo, dove ci vanno le ragazze. Ne ho già viste una volta, che tenevano solo la camicia. Gli dico che ci portiamo le braghette e poi correndo arriviamo fino al bagno delle ragazze. Il Padre ci lascia andare per lavarci, se ci portiamo le braghette, e cosí ci fermiamo fin che vogliamo.
— Come hai fatto per vedere le ragazze, Gosto? Non si lasciano.
— Ci sono delle canne sulla sabbia del fiume; si può arrivare vicino senza che se ne accorgano. Chiedi anche tu al Padre, cosí ci lascia. Hai bisogno anche tu di lavarti.
— Sei un somaro, Gosto. L’aia è già finita; domani raccogliamo la meliga. Vengono i lavoranti e si va in campagna avanti giorno. Proprio domani ci lascia andare! Porteremo tanti di quei cavagni invece che il bagno lo faremo alla camicia. Dovrà lavorare anche Biscione domani.
Gosto grugní un sospiro e si rivoltò strepitoso. Nel magazzino formicolavano cigolii, rodimenti, frulli. Biscione non si muoveva.
— Andremo un’altra volta e con Biscione, – bisbigliò Rico. E dopo un silenzio: – Vanno sempre le ragazze?
— Se viene anche Biscione, il Padre se ne accorge. Oggi si è già rivoltato. È capace di mettersi a parlare con le ragazze, e allora io non vengo piú, – brontolò Gosto.
— Come sono le ragazze? Si vede?
— No, perché tengono la camicia. Ma si vedono le gambe. Quelle grandi le hanno bianche come il burro.
— Biscione ne ha vista una volta una con un uomo, quando è andato a pestar l’uva ai Rossi. Dice che erano coricati dietro i rovi verso sera, nel Pratone, e facevano come i cani. Ha sentito che la donna rideva.
— Quando?
— L’anno scorso, la festa del Rosario.
— Fa peccato, Biscione. Perché non l’ha detto al Padre? Solo noi dobbiamo confessarci?
— E poi l’uomo è andato via e la donna ha visto lui e dice che si è lasciata abbracciare nell’erba, – la vocetta trafelata di Rico ruppe in un ghigno soffocato.
— Uh, – muggí Gosto, schiacciando la bocca sul guanciale.
— A me Biscione ha dato una sigaretta una volta, – riprese Rico sommesso.
— Hai fumato?
— Sicuro.
Di nuovo il vortice lontano della musica echeggiò tra le piante. Rico attese che morisse fra le vocette dei grilli, poi ripeté intento:
— Sicuro. E mi ha detto che al Padre non viene il gozzo solo perché cicca. Vedi il Professore che fuma nella pipa: non ha il gozzo come te. Tu dovresti fumare per guarire. Io fumerò perché non mi venga.
— Ma Biscione non l’ha mai avuto.
— Appunto perché fuma. Mi ha detto che il Padre non ci lascia fumare, perché cosí verrà il gozzo anche a noi e nessuno ci darà da lavorare fuori di qui.
— Ma le donne, che non fumano, non l’hanno mica tutte, il gozzo.
— Le donne è diverso. E poi, una volta sullo stradone è passata una in carrozza che veniva da Canelli e ho visto che fumava.
Disse Gosto dopo un certo silenzio, formando appena le parole:
— Vedrai che stanotte non scappa piú come domenica. Se il Padre se ne accorge non lo lascia piú entrare. È per questo che oggi ha risposto al Padre.
— Biscione scappa quando vuole e ritorna sempre, – disse Rico fermamente, – anche se gli fai la spia come domenica.
— Ma era andato a ballare.
— Somaro. Come vuoi che lascino entrare al palchetto uno scalzo. Invece è andato a vedere il baraccone del serraglio, e dice che ci sono tante altre cose, ma questa è la piú bella.
— Davvero?
— C’è una donna vestita come fosse nuda, di una maglia che luccica, che aspetta sulla porta e chiama la gente. Dentro si sente il leone che salta nella gabbia e il domatore che batte con la forca sui ferri per farlo voltare. Dice che fa degli urli come il tuono. Vanno tutti a vedere. Biscione non poteva entrare perché si paga dieci soldi, ma dice che si sente tutto da fuori, perfino il domatore che parla con il leone e la donna quando balla. Si sente perfino l’odore di selvatico dello strame: altro che il nostro. Poi Biscione, quando chiudevano, ha parlato col domatore. Dice che porta gli stivali e i braccialetti di cuoio. È un ungherese che conosce i leoni come fossero i buoi. È andato un momento al tirasegno e ha sparato quattro colpi a piumetto, tutti nel centro. Poi, dice che rideva e parlava con le ragazze in ungherese, e la donna è venuta cosí nuda con quella maglia a prenderlo e lui le è corso dietro con la frusta fin nel vagone dove dormono.
— Davvero la donna ha solo una maglia? – muggí Gosto sottovoce nel silenzio.

III.

A uno scoppio piu forte della musica Biscione levò il capo di soprassalto. Nella notte deserta quel tumulto avvinazzato era solo, sul vento. Stette immobile sbarrando gli occhi, e presto distinse le pareti immense, l’incubo vago degli utensili, dei sacchi, e le pannocchie penzolanti. Dal pagliericcio muggiva il respiro spesso di Gosto.
Biscione si alzò cauto e scavalcò la finestra. Fuori, la notte era fresca e alta. Levò gli occhi tra gli alberi pieni di stelle, per assicurarsi che non fosse tardi. Non sentí cantare i grilli. Corse leggero attraverso il cortile fino alla porticina del Padre. Correndo teneva una mano serrata sulla gamba dei calzoni.
Giunto alla porta, si guardò intorno a fronte bassa, tendendo l’orecchio. Sotto il fragore che cadeva lontano sul vento, la musica era cessata. Nulla si sentiva, nemmeno lo sgocciolio della pompa. Ci sarebbe voluto il clamore di un ubbriaco sulla strada, l’urlo di un cane, qualcosa: invece la notte pareva tutta vuota, sospesa, ostile, e rombava nelle orecchie di Biscione, come attendendo.
Giunto alla porta, si guardò intorno a fronte bassa, tendendo la roncola. La brandí un attimo nella penombra del muro. Era fredda, la gran lama adunca, ma la liscia impugnatura di corno, rotta in cima, conservava il tepore dei calzoni. Biscione ridendo se la passò sulla gota e il gelo gli diede un brivido. Poi la menò in aria col braccio silenzioso. Se il Padre avesse avuto il gozzo come Gosto, eccolo squarciato. Biscione si ricordò di quando aveva troncato in due quella biscia. Che colpo. E i due pezzi non la smettevano di saltare. A Biscione sfuggí un mugolio.
Spinse la porticina. Era chiusa. «Bastardo, non si fida di nessuno», sibilò indietreggiando e corse alla finestra. Quest’era aperta, spalancata. Biscione si sporse e gli parve di non udir nulla in quel buio. I grilli stridevano a gola spiegata. Non si sentiva altro. «Se non lo svegliano i grilli, non lo sveglia nessuno. Purché non si mettano adesso a gridare gli sbronzi». Dal buio venne un lieve scricchiolio – forse il legno nel vento – e a Biscione sfuggí di mano la roncola. La riprese al volo, quasi a terra, con uno spasimo e un gemito: piegandosi, aveva picchiata la fronte sul davanzale. Gli parve che tutto crollasse: la notte, le stelle, nel buio. Cadde in ginocchio sotto la finestra e restò istupidito, premendosi il male, ansimando sommesso.
Nulla si mosse nella stanza. «Nostro Signore, fa’ che non mi abbia sentito». Poi si rialzò, in ascolto. Scavalcò il davanzale.
Posati i piedi sulle fredde mattonelle, si avanzò alla cieca, serrando gli occhi per abituarsi piú presto. Si arrestò a un tratto, cogliendo un urlio nella notte, lontano. Stringendo la roncola, aguzzò gli occhi nel buio. Si rivolse alla finestra. Nella penombra scorse le prime mattonelle sotto il davanzale, una sedia nell’angolo, l’armadio vago. Si voltò: ecco la macchia pallida del letto. Tenne il fiato e avanzò un altro passo. Scattò la luce e l’inondò sul posto.
Drizzato nel letto, una gamba a terra, il Padre capelli irti gli sbarrava gli occhi addosso e da una mano teneva ancora l’interruttore. La gran camicia aperta gli scopriva la gamba ossuta, tesa fra le coperte rigettate, a cercare il pavimento. Si levò la sinistra dal petto e la tese verso Biscione che si ficcò in fretta la roncola dentro i calzoni.
— Cosa cerchi, assassino?
Biscione buttava il capo da tutte le parti per pigliare la corsa e saltare in cortile, salvarsi nel buio. Ma sentí scivolarsi la roncola gelida úper la gamba e imbrogliarlo nel piede.
— Non scapperai, – gridava il Padre, saltando dal letto e svolazzando nel camicione bianco, – non scapperai fin che son vivo. Dove volevi scassinare? – Gli fu addosso e lo scosse. Biscione si contorse, tentando di curvarsi. – Posa lí. Posa lí. Di notte in notte ci facciamo piú ladroni. Cos’hai nei piedi? – Biscione cercò di buttarsi per terra, stringendo i denti e mugolando. Ma il Padre lo scostò di peso con un pugno e chinandosi raccolse l’arnese ch’era caduto sferragliante. – Malandrino. Con le roncole si gira a mezzanotte. Cosa volevi scassinare qui con questa? Pratichi i ferri del mestiere già?
— Io non volevo scassinare nessuno, – ringhiò Biscione, afferrato dietro la schiena al tavolo, dov’era finito ansante.
— Delle due l’una: con la roncola o si scassina o si ammazza. Da ammazzare per te non c’è ancora nessuno; che cercavi qua dentro?
Si fissarono nella luce cruda abbagliati: il Padre, losco, scarmigliato, in quella camicia che pareva gliel’avesse sbattuta addosso il vento; Biscione, ansimante, floscio come i calzoni che lo tiravano a terra. Si fissarono muti. Un sogghigno scontroso passò sulla bocca di Biscione. Fin nella pozza della gola aveva pelo il Padre.
Gli occhi del Padre a quel sogghigno balenarono. Si scosse tutto come a un tremito. Girò la testa da ogni parte, smemorato. Poi levò gli occhi con una guardataccia, cambiò di mano la roncola e si fece un grande segno di croce, imbrogliandosi nel giungere le mani. Biscione stava attento, a fronte bassa.
— Non muoverti, – gli borbottò rapido il Padre. E corse alla finestra e guardò fuori. Poi chiuse. Ritornò al letto e cercò le mutande. – Non muoverti, – ripete minaccioso. Posò la roncola sul comodino; s’infilò le mutande, sforzandole nella fretta, e poi cercò la sottana. Se la passò sul capo, rapidissimo, riemergendo a guardare prontamente Biscione, che non si muoveva dal tavolo ma ci si era appoggiato e seguiva ogni gesto del Padre con quell’ombra di sogghigno di prima.
— Non c’è niente da ridere, allocco, – fece il Padre, venendogli addosso, vestito. Biscione si piegò da lato, quasi a parare un colpo.
— Inginocchiati adesso.
Biscione invece si issò con le mani sul tavolo, sempre fissando il Padre.
— Inginocchiati, – ruggí il Padre levando il pugno. – Insensato, inginocchiati, che potresti morire stanotte.
Biscione si lasciò scivolare a terra e batté le ginocchia sulle mattonelle. Vide i piedi nodosi del Padre e, sbirciando al-l’insu, gli occhi curvi indignati.
— Mi pento Signore mio Dio
— Mi pento Signore mio Dio
— dell’orrendo pensiero che ho avuto
— dell’orrendo pensiero che ho avuto
— contro il mio benefattore
— contro il mio benefattore
— e vi ringrazio d’avermi salvato
— e vi ringrazio d’avermi salvato
— nella vostra infinita Misericordia
— nella vostra infinita Misericordia
— dalla morte dell’anima
— dalla morte dell’anima.
— Fatti il segno della Croce adesso e recita l’atto di contrizione –. Biscione si raccolse le mani al petto, piegò il capo e cominciò a susurrare tra sé, devotamente. Il Padre gli stava sopra col braccio teso, accompagnandolo. Quando Biscione rialzò il capo esitando, gli tracciò in fronte, severo, l’assoluzione.
— Meno male, – disse ansando. – Speriamo che ti serva. Sabato ti confesserai di nuovo con gli altri, capito? e allora farai la confessione generale e vedremo cosa meriti. Reciterai cinque pater, ave e gloria, tutte le sere, fino a sabato.
Biscione s’era rialzato e si batteva, con le mani incrociate, sulle braccia, guardando inquieto il Padre che si tergeva la fronte.
— Vagabondo, era questa che volevi scassinare? Ma lo sai che anche solo pensarci è peccato mortale? Ringraziamo il Signore che ha voluto salvarmi e salvarti. Ma che cosa ti ha preso? Non lo sai nemmeno tu. Tutto perché non ti lascio fumare?
Biscione, sempre inquieto, lo lasciò dire, poi fece scontroso, guardando la finestra accecata:
— Sabato non ci sono piú.
— Come…?
— Io ve l’ho poi detto, Padre. Di qui vado via.
— Dove vuoi andare?
— Qualche posto lo trovo, ma qui non ci sto.
— Ma dove vuoi andare, vagabondo? Con quello che hai fatto e farai? Cosí ti penti, cosí muti vizio? Dio ti ascolta, carogna. Ma se non ti tiene il Padre, chi vuoi che ti tenga? Vuoi davvero morire in un fosso? Proprio domani che cominciano i raccolti, e col peccato mortale alla gola? Smettila, Biscione, non hai bisogno di scappare: davanti a me sei perdonato, ma Dio ti chiama a render conto e cambiar vita.
— Vado via perché qui siamo bestie.
— Bestie come?
— Bestie. Dite quel che volete a Rico e Gosto, davanti a chi volete; ma a me dello scemo e del morto di fame – in presenza del Professore – non me lo dovevate dare. Io lavoro come gli altri, piú degli altri perché non sono uno scemo; ma quando ho finito, ho finito, e mi voglio riposare, come si riposa il Professore e si riposano tutti; e, se ho voglia, fumare e passare in paese a giornata finita come tutti i lavoranti. Di stanotte mi pento e non lo farò piú, ma non sarò tanto scemo da lavorare ancora per chi non mi paga.
— Biscione, – gridò il Padre, – ti sei pentito e pensi ancora alla paga? è cosí che temi Dio? alla tua età?
— Io non volevo rubarvi niente, – riprese Biscione, – e se sono giovane non è colpa mia. Lavoro come un altro, quando è tempo, e voglio essere pagato altrettanto.
— Ma quello che mangi, quello che dormi, quello che porti indosso, non è paga che basti?
— No che non basta. Da mangiare ne date anche ai lavoranti. E gli date da bere l’acquetta e a noi no. Dormire non costa. E i calzoni ve li danno già strappati, per carità. Rico che è piú basso, ci stava due volte e li ha dovuti tagliare. Io non sono contento.
Il Padre andò lento alla finestra e l’aprí. Entrò nel caldo soffocante, un alito morbido di notte. S’allungò nel cortile, incerto, il rettangolo di luce dentro il fragore vago della notte, corso da brividi di tonfi e da trilli lontani.
— Senti, Biscione, tu sei nato disgraziato; fuori non hai famiglia, non hai nessuno, vieni dall’ospedale. Non pensare adesso al Professore. Voi non siete i figli dei signori che vengono a ripetizione. Qui trovate una casa, imparate un mestiere, avete sotto gli occhi il buon esempio. Perché non ti contenti? perché non ringrazi il Signore? Credi forse che via di qui troveresti lavoro, alla tua età, senza il nostro aiuto? Disgrazie, troveresti, vizi e tentazioni. Quel che sai fare l’hai mostrato già stasera. Minacceresti qualcun altro, che ti prenderebbe sul serio, questa volta.
— Il mondo è pieno di gente che minaccia e si fa rispettare. Quand’uno ha la sua paga, non patisce tentazioni.
— Vedi, Biscione, tu per disgrazia non sei scemo, ma il Signore ti avrebbe voluto bene, se ti avesse fatto nascere allocco. Nei lavori di campagna è una fortuna essere semplici di spirito e non guardare mai piú in là dei propri buoi, ringraziando il Signore di quel poco di bene…
— Neanche voi, Padre, siete un allocco, e non ci sono solo i lavori di campagna.
Il Padre si accostò aguzzando gli occhi.
— Che altri lavori?
— C’è uno della Piana che guadagna quattro lire al giorno a governare i cavalli della giostra in piazza. Un po’ di paglia mattino e sera e portarli alla vasca. È già d’accordo per andare con loro in Alba…
— Eccolo il demonio, – ruggí il Padre scattando. – I cavalli del baraccone, tutto il giorno a girare, andare in Alba, far la vita dello zingaro. Se dovevo pensarlo, che veniva di lí… Queste sono le feste e gli effetti che fanno. Te l’hanno dato loro quel bel consiglio di prima? Tu sei pentito come me, sei pentito. Vagabondo. Osi parlare di paga. Ma la paga la prende chi lavora, non chi gira le strade suonando e ballando. E bastasse. Che altri miracoli ti han fatto sperare?
— I miracoli li fate voi, Padre. Chi parla di suonare e ballare?
— Ma boia d’un vagabondo, lo sai che son tutti scappati di casa e delinquenti? Se con la vita che fai qui, sei già tanto carogna; cosa farai con quella gente?
Il Padre agitava le braccia congestionato, imponendo la voce su un’urlata di cani e di sbronzi, che scoppiava in quel mentre di là dalle piante sulla strada. Anche Fido s’era messo a latrare e far sibilare il filo, cui era legato scorrevole, presso il cancello. D’un tratto il Padre corse alla finestra e scrutò fuori. Borbottò un poco a voce rauca e ritornò verso Biscione, menando il capo a scossoni.
— Ecco i frutti di questa esistenza, – disse acido, a voce piú bassa. – Questo è quanto vuoi fare anche tu? Non ti manca la stoffa, non ti manca. Ma sta’ attento che non c’è che i furbi per farsi fregare dai piú furbi. Non saresti il primo che ammazzano di lavoro e, finita la festa, ti piantano in strada, senza dargli un quattrino.
— Dappertutto è difficile farsi pagare, e per questo non chiedo che di passare a mezza giornata. Mezza paga fino alla vendemmia, e mangiare e dormire. Perché sono giovane. Alla semina se ne riparla. Libertà la domenica e permesso di uscire, quando il lavoro non spinge.
Biscione guardava dritto in faccia il Padre e teneva ora le mani ficcate alla cintola sul ventre nudo.
Il Padre disse rapido:
— Ti do la domenica, se non ritiri la paga e la metti a frutto nelle semine. Però prima sentiremo il Superiore.
— La domenica senza paga è come la messa senza vino. E il Superiore siete voi. Sono troppo giovane per entrare a frutto. Vuol dire che al sabato mi confesso da voi.
Il Padre si tirò le nocche delle dita.
— Adesso è tempo di dormire, Biscione. Ne parleremo al Superiore. Queste cose non si combinano di notte e non posso…
— O di notte o di giorno. Basta intendersi. Vuol dire che io sono scappato e tornato ai raccolti e che c’era bisogno di braccia e mi avete impiegato a giornata. Per levarmi dalle tentazioni. C’è qualcosa che non va?
Il Padre andò adagio a prender la roncola sul comodino e ritornò al tavolo. – Boia d’un Biscione, la meriteresti in testa –. Gliela tese, dicendo: – Va’ a dormire e rimettila a posto.
— D’accordo, Padre, – e si ficcò la lama alla cintola. Poi si volse, si guardò in giro, e tornò deciso al tavolo. – Ma questa è una messa senza vino, Padre.
— Cosa c’è?
Biscione fece un ghigno. – I patti bevuti sono quelli buoni –. E non si mosse.
— Vagabondo d’un vagabondo, – sbottò il Padre. – Anche a quest’ora. Proprio tu, non ti fidi?
Ma andò all’armadio e tirò giu un bottiglione con un bicchiere. Tornò al tavolo e mescè il vino, nero. – Prendi su, ch’io domani ho la messa. È già passata mezzanotte.
Mentre Biscione sorbiva, dalla finestra rimbombò un’altra urlata e calci contro la lamiera del cancello, che gli ululati deliranti di Fido coprivano appena.

IV.

Dal tavolino in ferro a cui era seduto, il Professore ascoltò morire strepitosamente l’ultimo ballabile nella piazza, piu vibrante e clamoroso che mai. Il rombo dei tromboni coprí il sibilo dei clarini, infuriarono i piatti, si raccolsero e distesero le trombe in uno squillo lacerante, e tutto tacque inaspettatamente, in un vocío sommesso e brulicante, quasi la voce della musica giunta all’apice ripiombasse a terra ronzando.
Nella notte fresca ammorbidita dal vino riprese l’andirivieni degli avventori. Nello stanzone, sussultante alle vociferazioni, si soffocava. Agli urlacci, che scuotevano il coltrone di fumo, strizzava il sudore. Facevan crocchio ai tavoli carrettieri dalle cinture di lana rossa, vecchi villani col cappello sugli occhi, giovanottoni infagottati, bicchieri in mano, labbra succhianti, schiaffi sul tavolo, urlacci, carte buttate, pozze di vino. Fuori c’era la festa, perdio.
Il Professore dal suo posto accanto alla porta, si rinfrescava accostando la mano alla bottiglietta vuota della birra, col suo sorriso imbronciato, poggiato alla parete. Fra le penombre e le schiene la brusca serva navigava. Era una grande ossuta a fianchi forti, che mescendo dai litri o dai fiaschi spagliati atteggiava la bocca a una smorfia sdegnosa, come se vino e festa, tutto fosse un disgusto. Le scattavano i fianchi ogni volta che si drizzava e il Professore socchiudeva gli occhi.
Fuori della porta, dove il Professore vedeva cadere la luce rossastra della lampada appesa all’architrave, era cominciata una rissa tra due villani dalle voci pesanti. Non si muovevano: si udiva soltanto, nel vocío crepitante di trombette e di grida e l’immenso scalpiccio interminabile, suonare le ingiurie rauche, faticose, come gli ansiti di un paio di buoi. Continuarono un pezzo testardi, fra grida lontane che si cercavano e tonfi, finché la serva non si fece sulla soglia e cominciò a inveire stridula per scacciarli altrove. Allora seguí un gran silenzio, in cui soltanto una strombettata rabbiosa si levò chi sa dove, e respingendo la serva i due villani entrarono a passo imbrogliato, stretti a braccetto gravemente, e puntarono a un tavolo in fondo.
La serva rimase un attimo sulla porta, il suo fianco a due palmi dalla gota del Professore, tendendo il collo nella luce rossa a guardare verso la penombra sbiancata di oscillanti fiammelle ad acetilene. Si sporse anche il Professore a sbirciare tra il fianco e lo stipite, e la serva si piegò brusca e gli guardò le mani accigliandosi in faccia e gracchiando: – Che scusi.
— Levate l’aria, – barbugliò il Professore.
— Non è l’aria che manca, – ribattè l’altra, scattando a una chiamata.
Inoltrandosi la notte, il fragore esterno si faceva meno assordante. Soltanto qualche rombo sperduto di musica levava ancora il capo nel brusio moribondo e rianimandolo moriva. Ma si spegnevano le lampade e la piazza sfollava. Cominciavano lontano, sulle vie delle colline, clamori vaghi, barcollanti al vento. Nello stanzone c’era meno gente e piú fumo, piú fortore di vino e un chiacchierio rauco.
Il Professore aveva acceso la pipa cacciandosela fra i denti sani e guardava ogni cosa attraverso quel fumo, con gli occhi piccini. La serva s’era venuta a sedere all’altro lato della porta, rivolta all’esterno, dando occhiate inquiete agli scarpiccii, puntata una manaccia sulle ginocchia sporgenti. La sua smorfia erano rughe di stanchezza.
A un certo punto si schiarí a un sorriso. Era comparsa sulla porta un’altra donna, avvolta fino a terra in un mantello scuro che si stringeva al seno, dal viso biondo, avvampato e disfatto. Esitò sulla soglia e sorrise alla serva.
— Adele, – disse.
Adele, scostando le ginocchia, la fece passare fra sé e il tavolo, a sedersi nell’angolo.
— È finita, – sospirò la bionda abbandonandosi contro la parete ad occhi chiusi. – Sono assai piú stanca di un cavallo.
Adele sorrideva un ossuto sorriso. – Io no, forse? – disse senza muovere la bocca. Poi si alzò per andare, e si fermò alla porta, cercando fuori con gli occhi.
— Non c’è fretta, Adele, non ho nemmeno desiderio del latte stasera. Dappertutto c’è odore stasera: che tanfo qui dentro. Gridano e puzzano come le bestie. Esse almeno non sanno lavarsi.
Mentre allungava le gambe sotto il tavolo apparvero scarpini rosa e, scivolando un lembo del mantello, la calza rosa che continuava attillata fino al seno. Raccolta cosí nell’involucro disfatto pareva nuda, di una posticcia nudità senza vita.
— Aspetti sempre colui, Adele? – chiese fiacca guardando a mezz’aria nel fumo.
Adele si volse vivamente. – Io mi domando perché le altre volte salta giú dal carro che è ancor sera, e non si leva piú dai piedi – si siede lí dov’è lei – e mi tiene che casco dal sonno a sentire fino a giorno mangiando e ridendo, e a dargli ascolto mi farebbe anche ballare…
La bionda ascoltava arricciando il labbro inferiore sui denti, levato il mento, risentita.
— …Viene San Rocco, e non lo vedo piú. Tira via sul suo carro, ubbriaco, gira tutte le osterie della vallata, dorme sotto le stelle, ma finché c’è la festa e c’è un banco, qui non passa nemmeno a morire. Dappertutto va a bere, qui no. Figurarsi se voglio aspettarlo. Ma io domando: non è lo stesso dappertutto il vino? che gli farebbe di venire qui? gli costerebbe meno, anche.
— Nessun uomo bada alla spesa, quando vuol divertirsi, – disse la bionda, adagio. – E non amano il vino di casa. Non tornassero almeno quando al mattino non osano farsi vedere, hanno la testa che duole e ci parlano piagnucolando. Siamo noi le stupide che gli diamo ancora il caffè.
— Non l’ho ancora sposato e non posso comandarlo, – ringhiò Adele. – Ma se viene quel giorno, il caffè glielo macino in testa a quel vagabondo. Nei fossati dovrà dormirci con me.
L’altra sorrise appena. – Credi a me che ci sono cascata: se ora ha ancora vergogna e va a bere lontano; una volta sposato non avrà piú vergogna.
La bionda aprí il mantello e se ne sventagliò il lembo davanti alle gote magre. Inguainata in quel rosa flaccido, i capelli leggeri agitati al suo gesto, le labbra troppo rosse corrugate a soffiare, pareva una figura da calendario nell’angolo fumoso, e da qualche crocchio della stanza la fissavano accostando il capo e confabulando. Il Professore, soffiando la sua pipa nell’altra direzione, non smetteva di guardare sottecchi e ascoltare, e trangugiava discreto la saliva.
— Per me tutto l’anno è San Rocco, – ansimava la bionda. – E noi siamo sempre nei fossi, sulle strade in un carro che balla e che prende la pioggia. Il tuo carrettiere almeno va solo e tu lo aspetti in pace. Non ti tocca andargli dietro di giorno e di notte, e non conoscere nessuno in nessun posto come noi e farti compagnia con due bestie prepotenti che si sporcano e mangiano, si sporcano e mangiano, tutto il giorno, tutto loro, e bisogna pulirle e bisogna nutrirle, altrimenti si ammalano e non si mangia piú noi. Lui non pensa che alle sue bestie e se piove bisogna uscire a coprirgli la gabbia, se non c’è soldi bisogna trovarne per loro, se mi nascesse un bambino lo mangerebbero loro…
Il Professore non batté ciglio.
— …Eppure tutto sopporterei se non fosse questo puzzo, – continuava quell’ansito. – Sono sei anni che non sento che questo puzzo. E dappertutto la gente puzza: musica, baccano, facce rosse, ubbriache, gente che spalanca la bocca, gente che grida, che beve. Se è d’estate odor di sudore, se è d’inverno odor di stalla. Fin nel letto me lo sento delle notti. È lui che me lo porta; lui che, appena siamo fermi, corre a riempirsi di vino, a sfregarsi con tutti, e ha un bel passare la notte nei fossi, ce l’ha ormai nella pelle il selvatico, puzza piú del leone…
Adele era balzata alla porta allo sferragliare fragoroso di un carro e la bionda continuava, rivolta al Professore:
— …Delle notti non capisco come faccio a dormirgli insieme: tanto varrebbe dormir nella gabbia, ma dev’essere che ormai puzzo anch’io. Perché sono qui dentro, per esempio, perché? – Si guardò intorno, sbarrando gli occhi. – Vino e sudore. Non ci sono che ubbriachi. Dammi il latte, Adele. Puzzo anch’io, puzzo.
Il Professore batté la pipa sul cavo della mano e si asciugò la fronte, senza rispondere.
Adele si voltò dalla porta e guardò smemorata la bionda. – È passato, – esalò in un soffio.
— Chi? Ah, il tuo carrettiere? Vedi, dunque.
— Ma erano in quattro che frustavano il cavallo. Ubbriachi eran già e vanno a berne dell’altro.
La bionda le prese la mano, contratta sul tavolo e le fece, senza scomporsi:
— Consòlati, Adele, il mio che l’ho sposato, ha piantato persino i leoni stasera, a metà spettacolo. Mi è toccato frustarli da me. Se mi sono sfogata. Mi pareva di battere lui, e di vendicarmi di tutta questa sudiceria. Chi sa in che stato mi ritorna domattina: non vi lavate voi donne in questo paese. Su, vammi a prendere il latte, piuttosto.
Quando Adele si fu allontanata torva, il Professore si schiarí la gola e disse a un tratto:
— Ma non le tiene caldo quella maglia?
La bionda lo sogguardò, aprí il mantello abbassandosi gli occhi sul seno, e rispose:
— Vuole che vada senza?
Dopo un certo silenzio il Professore riprese:
— Non mi pare che lei abbia odore.
— Che cosa ne sa? – fece la bionda.
Quando Adele ritornò col tazzone, la bionda le chiese assonnata:
— Ti ha mai messo le mani addosso, questo signore?
Adele guardò malamente il Professore che spalancava gli occhi, e scoprendosi i denti come un cavallo distorse la bocca:
— Quello lí? È il Professore: sta coi preti.
La bionda, dilatando gli occhi mentre beveva, coprí col tazzone una pallida smorfia.
— Volevo esserne sicura, – disse gravemente quand’ebbe finito. Poi si raccolse sulle spalle il mantello.
— Se vuole proprio, signore, andiamo dunque a prendere il fresco. Questa maglia mi tiene davvero molto caldo.

V.

Il Padre spense la luce e uscí nel cortile buio. Sotto le piante che nascondevano la strada, sentí Fido guaiolare, e fin sul suo capo vibrava il filo di ferro scosso. Chiamò con un anelito e il cane, catapulta scura, gli piombò, dimenandosi, le zampe sul ventre. – Buono, Fido, – susurrò il Padre. – Anche a te è entrato il diavolo addosso. Buono. In queste notti devi stare a casa.
Fido, sfregandosi alla sua mano, gli porgeva il collo per essere liberato e guaiva di smania. Il Padre ne rigettò le zampe e si scostò ripetendo: – Buono. Fa’ la guardia e da’ tu il buon esempio –. Strattonando il filo, Fido cercava di raggiungere l’ombra scura che se ne andava, e mezzo strozzato, ricadendo, divincolandosi, cacciava latrati sommessi.
Il Padre andò alla finestra del magazzino e cercò a tastoni la lanterna. L’accese, piegandosi a terra, e poi si drizzò a mano tesa, gettando la luce improvvisa nello stanzone, sui pagliericci. Tumultuarono le grandi ombre, e un fortore misto di erbe secche, cessina e sudore esalò in viso al Padre. – Non si sono lavati, villani –. I corpi seminudi, scoperti, tremolavano gialli e schiacciati. Rico dormiva raggomitolato e contorto con la faccia nel pagliericcio, e sporgeva un gomito riverso. Gosto, coi calzoni sbottonati sul ventre nudo, fissava il soffitto a bocca aperta, emettendo un barbuglio dal gozzo gonfio e brunastro, come una poppa nata a soffocarlo. Sopra l’ultimo giaciglio, Biscione era disteso di fianco, sempre in calzoni, con le palpebre serrate, raggrinzite alla luce. – Quello dorme com’è vero che dormo io, – mugolò il Padre. Per la prima volta s’accorse che le gote di Biscione mostravano qua e là chiazze rosse di peluria. O forse era il riflesso di quel lume.
Dondolò in alto la lanterna, scorrendo l’occhio sopra i sacchi, sulle pannocchie secche, sulle lame di falce accatastate nell’angolo, e gli giunse nella notte immobile il clamore attutito di un canto da qualche cascina remota, una voce grave e gagliarda che non stonò nel silenzio e morí a poco a poco allontanandosi. Quello almeno faceva San Rocco da solo.
Scuotendosi, il Padre abbassò il lanternone e si volse alla stalla. Nell’ala sbieca della cascina sotto il fienile, si allungava il basso muro, bianco e cieco, della stalla. Il Padre girò l’angolo e, levando la lanterna, spinse il legno levigato della porticina.
Era tutto quieto, nella grave penombra. I due buoi ruminavano accosciati in abbandono sullo strame, di là dallo scalino. Mossero appena le orecchie all’afflusso improvviso di luce, e continuarono a guardar nel vuoto, i gran musi ondeggianti al ritmo uguale e silenzioso delle mandibole.
Il Padre posò la lanterna sulla finestra bassa. Di là dall’inferriata il cerchio di luce scoprí il terreno sodo dell’aia, qua e là oscurato e raggrumato dall’umidità recente. Invece che dai gelsi l’aia era limitata da un muro di tenebra.
Il Padre, tridente in pugno, venne allo scalino e menò una pacca al bue, sulla schiena. L’animale rivolse la fronte, pacato, con un tintinnio di catena. Allora il Padre lo punse col tridente per farlo levare; e cigolando, sbuffando, urtando il muso nella greppia, il bue si rizzò sulle ginocchia anteriori, poi, menando la coda, issò a livello le gran cosce inzaccherate.
— Sbrodolone, – disse il Padre. – Sei piú sporco dei garzoni.
Puntando il piede nudo sullo scalino, piantò il tridente nello strame, presso gli zoccoli, dove la paglia era tutta intrisa, e levò una gran fetta nerastra. Reggendo il manico a due mani, andò verso il barile in fondo e vi scaricò il tridente, con un sospiro di sollievo. Ritornò poi con una forcata di paglia che gettò e rimescolò sotto il bue. Appena il Padre ebbe finito, l’animale senza smettere di menar la mandibola, piegò le zampe e si adagiò di nuovo. Per tutto il tempo, l’altro bue guardò nel vuoto, continuando a masticare.
Nel tepore soffocante il Padre venne alla finestra e spense la lanterna e guardò fuori tra le sbarre, al buio. Dalla distesa incerta dell’aia saliva impastato alle tenebre il tanfo non ancora dissolto nella freschezza della notte. Prendeva allora la rugiada, e sotto questa doveva impregnare il terreno assodandolo senza crepe. Inquieto, il Padre diede un’ultima occhiata alle masse pallide dei buoi che si staccavano appena nell’ombra, e venendo alla gran porta tolse il trave attraversato ai battenti, e sgusciò fuori. Era avanzato di un passo per tastare col piede lo spazio battuto, quando intravide, alla luce ambigua delle stelle, una figura umana che si muoveva sopra il terrapieno del letamaio cercando il sentiero.
— Chi viene? – esclamò.
Dopo un istante di silenzio, l’ombra immobile disse:
— Non c’è modo di fargliela, Padre, son io.
E saltò giú nell’aia. Calpestando il battuto, venne svelto alla volta del Padre che fece appena in tempo a gridargli – Rasenti, Professore, – e già l’aveva accanto.
— Non fa nulla, – disse quello, scarpicciando. – Fango, sterco e rugiada, son gli elementi della notte.
— Fa sí, – sbottò il Padre, – mi guasta il battuto con le scarpe. A quest’ora va in giro? La credevo da tempo di sopra a dormire.
Il Professore si guardò tutt’intorno, aspirando dal naso. Levò la testa al cielo nero e tornò ad aspirare, rumorosamente. Guardò l’ombra scura del Padre che s’era mossa verso la finestra della stalla. Sentí sfregare un fiammifero e al bagliore improvviso lo vide avanzarsi nell’aia, proteggendo con la mano la fiammella ballonzolante; e piegarsi al suolo, reggendo scalzo la sottana, a esaminare lo stato del terreno.
— E lei, fa sera o mattino, Padre? – chiese imperterrito, con una vibrante giocondità nella voce.
— Lei, mi pare, ha fatto tutta la notte, – venne il brontolio di risposta. La luce scarsa dondolò disperata, e rimbalzando, le tenebre, piú nere, si richiusero intorno. – Non è andato a dormire? – ansimò la voce rialzandosi.
— Troppo baccano di ubbriachi e di festa, troppi canti di grilli, troppo caldo, – fu la risposta tumultuosa. – A proposito, – riprese, – non mi accorgevo che i grilli hanno smesso e che fa quasi freddo: chi sa mai?
— È che siamo già sotto l’alba, – rilevò venendo alla sua volta il Padre.
— Possibile? come passano presto le notti d’estate.
— Specialmente a San Rocco. Dicono cosí anche i lavoranti che al mattino si addormentano sul solco.
— Quanto a me non ho sonno, ma un grande appetito. Non ho piú sonno, mi pare di aver scoperto che la notte stimola tutti i sensi.
— Per questo, di notte è usanza dormire.
— È un peccato, Padre.
Ormai tutti e due distinguevano nel buio le sagome scure delle cose. Appoggiati contro la parete sassosa della stalla, avevano innanzi la bassa distesa dell’aia, oscurata in fondo dalla muriccia del primo campo rialzato che i gelsi, neri, coronavano. Di là dai gelsi, la collina immensa, saliente, si rivelava soltanto come un vuoto di stelle, una plaga del cielo deserta. Una bava di brezza agitava, stimolante, l’aspro tanfo notturno e le foglie accompagnavano sommesse, cigolando.
— Io siedo qua, – fece il Professore. – Aspetto l’alba –. E si cacciò la pipa in bocca, poggiato alla pompa. – Tanto non può tardare.
Il Padre camminava avanti e indietro in mezzo all’aia, intento a saggiare sotto le piante nude l’umidità persistente di certi tratti. – Se il sole del mattino mi trova questi laghi, – brontolava tra i denti, – me li crepa come vetro. Maledetti garzoni, invece di allargare, hanno fatto la pasta –. E si succhiava il dito pollice, sputando subito; esponendolo in alto a saggiare la brezza.
— Che pace questa notte, – emetteva il Professore tra il fumo. – Non mormori, Padre.
— Maledetto Biscione.
— Ma lei, Padre, che assiste sempre all’alba, perché non mi ha mai detto quanto son belle queste ore notturne? Cosí misteriose e tranquille. È un altro mondo. Tutto ha mutato faccia e tutto vive in segreto. Accadono le cose piú strane. Solamente a respirare, si gode. Ci si sente carezzati dal buio, dagli odori, dal silenzio. Ci si sente piú grandi, nel bene e nel male. Si sta bene soli e si sta bene in compagnia. Persino questo lezzo fa bene, è fresco e tiepido, è gagliardo, è umano. Pensare che di notte si fanno i delitti. Com’è assurdo il mondo. Può accadere ogni cosa di notte.
— Non lo sapeva?
— Mi ricordo solo adesso che lo sapevo da ragazzo. Ma allora avevo paura del buio.
— Senta, Professore, – disse il Padre, piantandosi nell’aia, – mi pare che a lei l’aria fresca faccia l’effetto del vino. Fino a ieri l’ho creduto astemio.
Il Professore si fermò un momento sulla sua pipa, poi sgranocchiò una risatina rauca.
— Infatti, – barbugliò scatarrando, – infatti: ho bevuto un vino; il vino che si beve soltanto di notte… il vino della meditazione, – aggiunse guardandolo.
— Sono contento d’essere al mondo, Padre, – riprese improvviso, levando la faccia e brandendo la pipa. – Lei non l’ha mai questo contento?
— Non a San Rocco, di tutto l’anno, e se chiedeva il mio consiglio, non le dicevo di cercare la pace e il silenzio in questa notte. Dove diavolo li ha trovati?
Il Professore sputò a terra.
— Non li ho cercati, sono venuti a me, – disse lento e convinto, e sul viso che già affiorava nella foschia, passò una smorfia d’orgoglio.
Il Padre alzò le spalle. Poi volse il capo ansioso alla collina che spiccava nera sul cielo pallido, e aspirò ancora il vento.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Notte di festa
AUTORE: Pavese, Cesare

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)