Manoscritto trovato in una bottiglia
di
Edgar Allan Poe
tempo di lettura: 17 minuti
Chi non ha più che un momento da vivere
non ha più niente da dissimulare.
Quinault.
Non ho gran che da dire del mio paese e della mia famiglia. I cattivi trattamenti e l’accumularsi degli anni m’hanno fatto estraneo all’uno e all’altra.
Grazie al mio patrimonio potei avere un’educazione poco comune e la contemplatività del mio spirito mi permise di classificare metodicamente tutto quel materiale d’istruzione diligentemente ammucchiato con uno studio precoce. Quelle che mi procuravano proprio dei grandi piaceri eran le opere dei filosofi tedeschi; e ciò non per una inconsulta ammirazione della loro eloquente follia, ma pel piacere che provavo a sorprendere i loro errori, grazie alle mie abitudini d’analisi rigorosa. Hanno voluto rinfacciarmi spesso l’aridità del mio genio; una mancanza d’imaginazione m’è stata imputata come un delitto e il pirronismonota 1 delle mie opinioni m’ha fatto proprio famoso. In verità è stata, temo, una forte appetenza per la filosofia fisica che m’ha impregnato lo spirito d’uno dei difetti più comuni del secolo, quello cioè di riferire ai principii di questa scienza anche le circostanze meno suscettibili d’un tale rapporto. E, sopratutto, nessuno era meno esposto di me a lasciarsi trascinare fuor della severa giurisdizione della verità dai fuochi fatui della superstizione.
Ho creduto utile di cominciare con questo preambolo perchè non ci sia pericolo che l’incredibile racconto che ho da fare venga considerato piuttosto come la frenesia d’un’imaginazione indigesta che come l’esperienza positiva d’uno spirito pel quale le visioni dell’imaginazione furon sempre lettera morta e nullità.
Dopo avere speso parecchi anni in un lontano viaggio, m’imbarcai, nel 18.., a Batavia, nella ricca e popolosa isola di Giava, per una escursione nell’arcipelago delle isole della Sonda. Mi misi in viaggio come passeggero, senz’aver altro movente che un’instabilità nervosa che mi perseguitava come uno spirito maligno.
M’imbarcai su un bastimento di circa 400 tonnellate, foderato di rame e costruito, a Bombay, in legno di teck del Malabar. Era carico di cotone, di lana e d’olio delle Lachedive e qualche altra merce. Lo stivaggio era stato mal fatto e così il legno sbandava un poco.
Mettemmo fuori la vela con un leggero venticello e per parecchi giorni rasentammo la costa orientale di Giava, senza che alcun incidente venisse ad interrompere la monotonia della nostra rotta, fuorchè l’incontro d’alcuni battelletti dell’arcipelago dove stavamo confinati.
Una sera, mentre me ne stavo appoggiato all’impagliettatura del casseretto, osservai una nuvola singolarissima, isolata, verso nord-ovest. Era notevole tanto pel suo colore quanto perchè era la prima che avessimo veduta dal giorno della partenza da Batavia. La sorvegliai attentamente fino all’imbrunire; allora s’estese d’un tratto dall’est all’ovest, circondando l’orizzonte con una cintura precisa di vapore, che appariva come una lunga linea di costa assai bassa.
Quasi subito dopo, la mia attenzione fu attirata dall’aspetto rosso cupo della luna e dal carattere particolare del mare. Questo subiva un rapido cangiamento, e l’acqua sembrava più trasparente del solito. Discernevo chiaramente il fondo: eppure, gettato lo scandaglio, trovai quindici braccia d’acqua. L’aria, divenuta insoffribilmente calda, si caricava d’esalazioni spirali come quelle che si levano dal ferro riscaldato.
Colla notte, il vento cadde del tutto, e fummo presi da una calma tale ch’è impossibile concepirla. La fiamma d’una candela bruciava sulla poppa senza il minimo movimento sensibile, e un lungo capello, tenuto tra il pollice e l’indice, cadeva diritto e senza la più piccola oscillazione. Tuttavia, siccome il capitano diceva di non vedere alcun sintomo di pericolo, e siccome andavamo alla deriva verso la terra in vista, comandò di imbrogliar le vele e filar l’áncora. Non si mise alcuna guardia, e l’equipaggio, composto principalmente di Malesi, si mise senz’altro a dormire sovra coverta.
Io scesi, – non senza il perfetto presentimento d’una disgrazia. In verità, tutti quei sintomi mi facean prevedere un simun. Ne parlai al capitano; ma non mi badò neppure: se n’andò senza degnarsi di rispondere. Tuttavia quel malessere m’impedì di dormire, e verso mezzanotte, salii sul ponte.
Avevo salito appena l’ultimo gradino che rimasi atterrito da un rombo profondo, cupo, simile a quello prodotto dalla rapida evoluzione d’una ruota di mulino, e, prima che potessi verificarne la causa, sentii che la nave tremava nel suo centro. Forse due secondi dopo, un colpo di maree ci buttò su un fianco, e, correndo sopra noi, spazzò letteralmente il ponte dall’uno all’altro estremo.
L’immensa furia del colpo di vento fece, in gran parte, la salvezza della nave. Benchè fosse stata buttata quasi sott’acqua, siccome gli alberi s’erano schiantati, andando in mare, un minuto dopo si rialzò lentamente, e, vacillando per alcuni istanti sotto l’immensa pressione della tempesta, finalmente si raddrizzò.
Non saprei proprio dire per qual miracolo io sfuggissi alla morte. Stordito dal colpo dell’acqua, mi trovai preso, quando risensai, fra la ruota di poppa e il timone. Mi ci volle non poca fatica per rimettermi in piedi.
Quando ebbi girato vertiginosamente lo sguardo intorno, fui colpito dapprima dall’idea che ci trovassimo su dei frangenti, tanto ora spaventevole, al di la d’ogni imaginazione, il turbine di quel mare immenso e schiumante in cui ci trovavamo inabissati. Di lì a pochi istanti udii la voce di un vecchio Svedese ch’era venuto a imbarcarsi all’ultimo momento ch’eravamo in porto. Lo chiamai con tutte le mie forze, e venne barcollando a raggiungermi sulla poppa.
Dovemmo presto riconoscere che s’era rimasti i soli superstiti del disastro. Tutto quanto era sul ponte, eccettuati noi, era stato spazzato, portato via sovra bordo; il capitano e i marinai eran periti durante il sonno, e le cabine erano state inondate dal mare. Senz’ajuti, noi non potevamo sperare di far gran che per la sicurezza della nave e i nostri tentativi furon dapprima paralizzati dalla persuasione che avevamo di dover colare a picco da un momento all’altro. La corda dell’áncora, per fortuna, si era spezzata come un fil di ragno al primo soffio dell’uragano; se ciò non era, saremmo andati a fondo istantaneamente. Si fuggiva davanti al mare con una velocità spaventevole e ad ogni istante s’aprivano falle visibili. Tutta la poppa era gravemente danneggiata; avevamo sofferte avarie quasi sotto tutti i rapporti; ma, con nostra gran gioja, trovammo che le pompe non s’erano ostruite e che il carico non s’era spostato.
La più gran furia della tempesta era passata e ormai non avevamo più a temere la violenza del vento; ma pensavamo con terrore al caso che cessasse del tutto, persuasissimi che, così avariati come eravamo, non avremmo potuto resistere alle ondate spaventevoli che sarebbero venute a colpirci; ma questa giustissima apprensione non pareva si avesse a verificare sì presto.
Per cinque notti e cinque giorni, durante i quali vivemmo d’alcuni pezzi di zucchero di palma tolti con gran fatica da una botte a prua, il bastimento filò con una velocità incalcolabile dinanzi alle riprese di vento che si succedevano rapidamente, e che pur non uguagliando la prima violenza del simun, erano tuttavia più terribili di qualunque tempesta avessi fino allora sofferto.
Durante i quattro primi giorni la nostra rotta, salvo leggerissime variazioni, fu al sud-est quarto di sud, e così saremmo andati a gettarci sulla costa della nuova Olanda.
Il quinto giorno il freddo divenne estremo, quantunque il vento avesse girato d’un punto al nord. Il sole si alzò con un chiarore giallo e triste, levandosi appena di qualche grado sull’orizzonte, senza projettare una luce chiara e decisa. Di nuvole apparenti non ce n’erano, e pure il vento rinfrescava, soffiando con degli accessi furiosi. Circa verso mezzogiorno, per quanto potemmo giudicare, la nostra attenzione fu nuovamente attirata dalla fisionomia del sole. Non emetteva luce, precisamente, ma una specie di fuoco cupo e triste, senza riflesso, come se tutti i raggi fossero polarizzati. Proprio nel momento prima di tuffarsi nel mare burrascoso, il suo fuoco centrale disparve d’un tratto come se una potenza inesplicabile l’avesse bruscamente estinto. Non era più che una ruota pallida e color d’argento quando si precipitò nell’oceano profondo.
Aspettammo invano la venuta del sesto giorno; – questo giorno per me non è ancora arrivato, – per lo Svedese non è arrivato mai. Da allora fummo seppelliti in tenebre fittissime, tanto che non avremmo potuto scorgere un oggetto a venti passi dalla nave. Fummo ricinti, avviluppati da una notte eterna, non temperata neppure dalla fosforescenza del mare a cui eravamo abituati sotto i tropici.
Osservammo ancora che, quantunque la tempesta continuasse rabbiosa, senza un istante di riposo, non scoprivamo più alcun’apparenza di quella risacca e di quei cavalloni che ci aveano accompagnati fin là. Attorno a noi tutto era orrore, fitta tenebra, un vero deserto d’ebano liquido. Un terrore superstizioso s’infiltrava a grado a grado nello spirito del vecchio svedese, e quanto a me, la mia anima era immersa in una muta stupefazione. Avevamo tralasciato ogni cura della nave, come cosa più che inutile, e, attaccandoci come meglio potemmo al troncone dell’albero di mezzana, volgevamo gli sguardi amaramente sulla superficie immensa dell’oceano.
Non avevamo alcun modo di calcolare il tempo, nè potevamo fare alcuna congettura sulla nostra situazione. Nondimeno eravamo ben sicuri d’essere andati al sud più lontano di qualunque altro navigatore precedente, ed eravamo assai stupiti di non trovare gli ordinari ostacoli di ghiaccio. Intanto, ogni minuto minacciava d’esser l’ultimo, – ogni enorme ondata si precipitava per ischiacciarci. L’onda sorpassava tutto quanto avevo mai imaginato di possibile, ed era proprio un miracolo d’ogni momento se non ci seppelliva.
Il mio compagno m’andava ricordando la leggerezza del nostro carico e le eccellenti qualità della nave; ma io non potevo fare a meno di provare l’assoluta sfiducia della disperazione, e mi preparavo melanconicamente a quella morte che niente, secondo me, poteva protrarre di la d’un’ora, perchè, ad ogni nodo che il bastimento avanzava, la commozione, la tempesta di quel mare nero e prodigioso, diveniva più lugubremente terribile. Talvolta a un’altezza più grande di quella dell’albatro, ci mancava il respiro, e poi ci prendevano le vertigini discendendo con una velocità orribile, da impazzire, in un inferno liquido, dove l’aria diveniva stagnante e dove niun suono potea disturbare i sonni del kraken.
Eravamo in fondo ad uno di quegli abissi, quando, d’un tratto, un grido del mio compagno scoppiò sinistramente nella notte.
— Guardate! guardate! – mi gridava nelle orecchie; Dio onnipotente! Guardate! guardate!
Allora scòrsi un lume rosso, d’uno splendore cupo e triste che galleggiava sul versante del baratro immenso dove eravamo seppelliti, e gettava al nostro bordo un riflesso vacillante. Levando gli occhi, vidi uno spettacolo e m’agghiacciò il sangue.
A un’altezza terribile, proprio sopra noi e sulla cresta del precipizio, si librava una nave gigantesca, forse di quattromila tonnellate. Quantunque si trovasse sulla cima d’un’onda alta cento volte la sua altezza, pure appariva d’una dimensione assai più grande di quella d’alcun vascello di linea o della Compagnia delle Indie. Il suo enorme scafo era d’un nero profondo, non temperato da uno degli ornamenti ordinari delle navi. Dalle sue cannoniere aperte s’allungava una semplice fila di cannoni, che riflettevano sulle loro superfici terse i fuochi d’innumerevoli fanali di battaglia dondolanti nell’attrezzatura. Ma quel che c’incusse maggior orrore e stupefazione fu che andava con tutte le vele spiegate, malgrado quel mare prodigioso e quella tempesta sfrenata. Dapprima, quando ce ne accorgemmo, non ne potevamo vedere che la prua, perchè non s’elevava che lentamente dal nero e orribile abisso che si lasciava dietro. Per un istante, – istante d’immenso terrore, – fece una pausa su quella cima vertiginosa, come nell’ebbrezza della sua elevazione, – poi tremò, – s’inchinò, – e finalmente scivolò sulla china.
In quel momento, non so qual improvviso sangue freddo s’impadronì del mio spirito. Buttandomi indietro quanto potei verso la poppa, aspettai, senza tremare, la catastrofe che doveva schiacciarci. La nostra nave, dopo tante avarie, non lottava più col mare e s’affondava a prua.
L’urto della massa precipitata la colpì quindi in quella parte ch’era già sott’acqua ed ebbe per risultato inevitabile di lanciarmi nell’attrezzatura dello straniero.
Mentre cadevo, quella nave si sollevò, poi virò di bordo; e fu, credo, per la confusione che ne segui ch’io dovetti sfuggire all’attenzione dell’equipaggio. Senza troppa fatica potei arrivare, non visto, fino al boccaporto principale, ch’era mezzo aperto, e trovare un’occasione propizia per nascondermi nella stiva. Perchè mi nascosi? Non saprei dirlo precisamente. Vi fui indotto forse da un sentimento vago di terrore che s’era impadronito di me all’aspetto dei nuovi naviganti. Non mi fidavo di gente che, al primo colpo d’occhio sommario che avevo gettato su loro, m’aveano offerto il carattere d’una indefinibile stranezza, e tanti motivi di dubbio e d’apprensione. Gli è perciò che pensai a trovarmi un nascondiglio nella stiva. Tolsi un po’ del falso bordo, in modo da farmi un comodo ricovero fra le enormi membrature della nave.
Avevo appena finito quel lavoro, che un rumore di passi nella stiva mi costrinse a farne uso. Un uomo passò rasentando il mio nascondiglio, con un passo incerto e malsicuro. Non potei vedere il suo viso, ma ebbi agio di osservarlo nel suo aspetto generale. Era in lui tutto il carattere della debolezza e della caducità. I ginocchi gli vacillavano sotto il peso degli anni, e tutto il suo essere tremava. Parlava da sè, borbottando con una voce bassa e tronca alcune parole d’una lingua che non potei capire, e frugava in un angolo dove si trovavano ammucchiati strumenti d’un aspetto strano e carte marine logore. I suoi modi erano un miscuglio singolare della malagrazia d’una seconda infanzia e della dignità solenne d’un dio. Dopo un po’, risalì sul ponte, e non lo vidi più.
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Un sentimento, pel quale non trovo parole, s’è impossessato dell’anima mia, – una sensazione che non ammette analisi, che non trova la sua tradizione nei dizionari del passato e di cui temo che non trovi la spiegazione nemmen l’avvenire. – Per uno spirito costituito come il mio, quest’ultima considerazione è un vero supplizio. Non potrò giammai, lo sento, – non potrò giammai essere appagato, istruito, sulla natura delle mie idee. Tuttavia non è da meravigliare che queste idee siano indefinibili dal momento che hanno sorgenti sì intieramente nuove. Un nuovo sentimento – una nuova entità – è aggiunta all’anima mia.
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È già da ben lungo tempo che ho toccato per la prima volta il ponte di questa nave terribile, e i raggi del mio destino stanno, credo, concentrandosi e precipitandosi in un focolare. Che gente incomprensibile! Sprofondati in meditazioni di cui non posso arrivare a capir la natura, mi passan d’accanto senza notarmi. È una pura follia la mia di nascondermi, perchè quella gente non vuol vedere. Appena un momento fa, passavo proprio sotto gli occhi del secondo; poco prima m’ero arrischiato fin nella cabina del comandante stesso, e fu là che potei procurarmi i mezzi di scrivere questo e tutto quanto precede. Continuerò di tanto in tanto questo giornale. È vero che non posso trovare alcuna occasione per trasmetterlo al mondo: ma pure proverò. All’ultimo momento chiuderò il manoscritto in una bottiglia e getterò ogni cosa in mare.
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È sopravvenuto un incidente che m’ha dato ancora assai da riflettere. Cose simili son forse l’opera d’un caso disciplinato? Ero salito sul ponte e m’ero steso, senza attirar l’attenzione d’alcuno, su un mucchio di corde e di vecchie vele, nel fondo della yole. Sempre pensando alla singolarità del mio destino, stavo cincischiando, senza pensarci, con una spazzola di catrame uno scopamare accuratamente piegato e posato accanto a me, su un barile. Ora lo scopamare è spiegato e steso sui suoi bastoni, e i tocchi irriflessivi della spazzola figurano la parola Scoperta.
Ho fatto recentemente parecchie osservazioni sulla struttura del vascello. Quantunque ben armato, non è, credo, un bastimento da guerra. Il suo attrezzamento, la sua struttura, tutto il suo equipaggiamento respingono una tale ipotesi. Quel che non è, lo capisco facilmente; ma quel che è, temo mi sia impossibile dirlo. Non so come sia, ma esaminando lo strano modello e la forma singolare delle sue caviglie, le sue proporzioni colossali, quella prodigiosa collezione di vele, la sua prua severamente semplice e la poppa d’uno stile disusato, mi sembra talvolta che la sensazione d’oggetti che non mi sono sconosciuti traversi come un lampo il mio spirito, e sempre a quelle ombre vaghe, intermittenti della memoria si mescola un ricordo inesplicabile di vecchie leggende straniere e di secoli antichissimi.
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Ho esaminato bene l’armatura della nave. È fatta di materiali che mi sono ignoti. Nel legno c’è un carattere che mi colpisce, perchè, mi sembra, lo rende improprio all’uso a cui è destinato; dico della sua estrema porosità, considerata indipendentemente dai guasti fatti dai vermi, che son la conseguenza della navigazione in questi mari e della putrefazione risultante dalla sua vecchiezza. Forse si troverà un po’ troppo sottile la mia osservazione, ma mi pare che questo legno avrebbe tutto il carattere della quercia spagnuola, se la quercia spagnuola si potesse dilatare con mezzi artificiali.
Rileggendo quest’ultima frase, mi ritorna alla mente un curioso apoftegma d’un vecchio lupo di mare olandese. Quando qualcuno esprimeva dei dubbi sulla sua veracità diceva sempre:
— Questo è tanto vero com’è vero che c’è un mare dove la nave stessa ingrossa, come il corpo vivente d’un marinajo.
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Sarà appena un’ora, ho avuto l’ardire di ficcarmi in un gruppo d’uomini dell’equipaggio. Non hanno mostrato d’accorgersi di me, e, quantunque stessi proprio in mezzo a loro, sembrava non avessero alcuna coscienza della mia presenza.
Come quello che prima avea veduto nella stiva, aveano tutti i segni d’una gran vecchiezza. I loro ginocchi tremavano per debolezza; le spalle aveano curve sotto il peso degli anni; la loro pelle raggrinzita s’increspava al vento: la loro voce era bassa, tremolante, rotta; i loro occhi stillavano lacrime brillanti di vecchiezza, e i loro capelli grigi si stendevano indietro allungandosi terribilmente nella tempesta Attorno ad essi, da ogni parte del ponte, giacevano sparpagliati degli strumenti matematici d’una struttura antichissima e del tutto caduta in disuso.
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La nave, cacciata dal vento, non ha mai interrotto la sua corsa terribile, diritto al sud, carica di tutta la sua tela disponibile dai pomi degli alberi fino ai più bassi buttafuori, immergendo le sue cime di verghe nel più spaventoso inferno liquido che mai cervello umano abbia potuto concepire. Ora ho lasciato il ponte, non riuscendo a reggermi su alcun punto; tuttavia l’equipaggio non par che soffra molto. Siamo condannati senza dubbio, a costeggiare eternamente il confine dell’eternità, senza far mai il nostro tuffo definitivo nell’abisso. Si scivola colla velocità della rondine di mare su onde mille volte più spaventose di quante ne abbia mai viste; ed altre colossali elevano le loro teste al disopra di noi come demoni dell’abisso, ma come demoni ristretti alle sole minacce, ed a cui è proibito distruggere. Son inclinato ad attribuire questa salvezza perpetua alla sola causa naturale che possa legittimare un tale effetto, cioè ad una forte corrente o risucchio sottomarino che sostenga la nave.
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Ho visto il capitano proprio in faccia, e nella sua stessa cabina; ma, come me l’aspettavo, non ha fatto alcuna attenzione a me. Quantunque non ci sia niente nella sua fisionomia generale che riveli, all’occhio del primo venuto, qualche cosa di superiore o d’inferiore all’uomo, tuttavia lo stupore che provai al suo aspetto era misto con un sentimento di rispetto e di terrore irresistibile. Ha a un dipresso la mia statura, cioè circa cinque piedi e otto pollici. Nell’insieme è ben fatto, ben proporzionato; ma questa costituzione non annunzia nè vigore particolare, nè qualunque altra cosa notevole. Ma è la singolarità della espressione che regna sul suo viso, – è l’intensa, terribile, profonda evidenza della sua vecchiaja, così intiera, così assoluta, che crea nel mio spirito un sentimento – una sensazione inesprimibile. La sua fronte, quantunque poco rugosa, sembra portare il suggello di una miriade d’anni. I suoi capelli grigi sono archivi del passato, e i suoi occhi, ancora più grigi, sono sibille dell’avvenire.
Il pavimento della sua cabina era ingombro di strani in-folio dai fermagli di ferro, d’istrumenti di scienza logori e d’antiche carte d’uno stile completamente dimenticato. Teneva la testa stretta fra le mani, divorando con occhio ardente e inquieto una carta ch’io presi per un ordine, e che, ad ogni modo, portava una firma reale. Parlava da sè solo, – come il primo marinajo che avea veduto nella stiva, e borbottava con voce bassa e come dolente alcune sillabe d’una lingua sconosciuta; e, quantunque stessi proprio accanto a lui, mi parea che la sua voce m’arrivasse da lontano un miglio.
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La nave, come tutto quel che contiene, è impregnata dello spirito delle antiche età. Gli uomini dell’equipaggio scivolano qua e là come le ombre dei secoli morti: nei loro occhi vive un pensiero ardente e inquieto; e quando, sul mio cammino, le loro mani cadono nella luce cupa dei fanali, provo qualche cosa che finora non ho mai provato, quantunque sia stato sempre amante delle antichità e mi sia immerso nell’ombra delle colonne diroccate di Balbek, di Tadmor e di Persepoli, tanto che infine l’anima mia stessa è divenuta una rovina.
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Quando mi guardo intorno, mi prende vergogna dei miei primi terrori. Se la tempesta che ci ha inseguiti fin qui mi faceva tremare, ora non dovrei tremare d’orrore dinanzi a questa battaglia del vento e dell’oceano, di cui i nomi volgari di turbine e di simun non posson dare la minima idea?
La nave è letteralmente rinchiusa nelle tenebre d’una notte eterna e in un caos d’acqua che non spumeggia più; ma alla distanza d’una lega circa, da ogni parte, si posson vedere, distintamente e ad intervalli, dei monti prodigiosi di ghiaccio che salgono verso il cielo desolato e pajono le muraglie dell’universo!
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Come ne avevo avuto l’idea, la nave si trova evidentemente in una corrente, – se proprio si può dar questo nome a una marea che va muggendo e urlando traverso i biancori del ghiaccio e fa sentire dalla parte di sud un frastuono, uno scroscio più precipitato di quello d’una cateratta che cada a piombo.
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Concepire l’orrore delle mie sensazioni credo che sia assolutamente impossibile; tuttavia, la curiosità di penetrare i misteri di queste spaventose regioni soprafa ancora la mia disperazione e basta per riconciliarmi col più orribile aspetto della morte. È evidente che stiamo precipitandoci verso qualche grande scoperta, – qualche segreto incomunicabile, la cui conoscenza implica la morte. Forse questa corrente ci conduce allo stesso polo sud. Non si può disconoscere che, per quanto strana, questa proposizione ha per sè ogni probabilità.
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L’equipaggio percorre il ponte con un passo tremante ed inquieto; ma c’è in tutte le fisionomie un’espressione che assomiglia piuttosto all’ardore della speranza che all’apatia della disperazione.
Intanto abbiamo sempre il vento in poppa, e con tutta quella tela che portiamo, la nave qualche volta emerge quasi intieramente dal mare. Oh! orrore, orrore! – il ghiaccio s’apre d’un tratto a destra e a sinistra, e noi giriamo vertiginosamente sopra immensi cerchi concentrici, torno torno a un immenso anfiteatro i cui muri si perdono nelle tenebre dello spazio. Ma non mi resta che poco tempo per pensare al mio destino! I cerchi si restringono rapidamente, noi c’immergiamo vertiginosamente nella stretta del turbine, – e, a traverso il muggito, lo scroscio, l’esplosione dell’oceano e della tempesta, la nave trema, – oh! Dio! – manca, – s’affonda!
Fine.
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nota 1 – Pirrone, filosofo antico, sosteneva che nulla esiste.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Manoscritto trovato in una bottiglia
AUTORE: Poe, Edgar Allan
TRADUTTORE: Arbib, Rodolfo
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Nuovi racconti straordinari / di Edgardo Poe ; traduzione di Rodolfo Arbib. - Milano : Sonzogno, 1885. – 91 p. ; 17 cm.
SOGGETTO: FIC027040 FICTION / Romantico / Gotico