Le due giustizie

di
Grazia Deledda

tempo di lettura: 19 minuti


In un misero villaggio sardo, il più povero degli abitanti si chiamava Quirico Oroveru, soprannominato Barabba, da una volta che aveva rappresentato questo personaggio in una sacra rappresentazione.

Ziu Chircu Barabba era più povero degli stessi mendicanti: aveva una sola camicia, un solo paio di calzoni di tela, un paio di brache di orbace e un berretto che egli medesimo s’era fatto con una pelle di lepre; non aveva bottoni alla camicia, non avea giubbone, non cappotto, non uose; e neppure scarpe, il che costituiva la più grande miseria per un uomo di quel paese.

Eppure, egli era sano e forte, un bel tipo quasi celtico, alto e rossigno, con occhi sempre sorridenti. Ma che volete, era stato allevato così, abituato solo a portar legna dai boschi e venderla; non sapeva lavorar altrimenti, ma del resto era innocuo come una lucertola e innocente come un bimbo di sette anni. Tutto il suo patrimonio, oltre il vestiario suddetto, consisteva in una medaglia di argento che teneva appesa al collo sin da bambino; in una accetta, una corda di pelo di cavallo – egli stesso l’aveva intrecciata – e in un coltello a serramanico.

Eppure, spesso, egli era contento, e più tranquillo dello stesso signor Saturnino Solitta, il più ricco del paese, la cui ampia casa nuova pareva fabbricata con la neve, qua e là adorna di strisce di cielo. Zio Chircu passava quasi tutti i suoi giorni nel bosco, così bello e silenzioso in qualsiasi ora e in tutte le stagioni, sia quando gli elci si coprivano di fiori d’oro pallido, o quando incombevano gli azzurri meriggi estivi, o quando taceva tutto d’un verde umido, sull’argento del cielo autunnale, o quando i grandi rami s’incurvavano sotto la neve cristallizzata dal gelo. Il taglialegna picchiava sempre. — Toc, toc, toc — diceva continuamente, nel silenzio del bosco, l’albero scosso dall’accetta. — Chiù, chiù, chiùùù… — rispondeva in lontananza, vicino alla fontana verde, un uccello silvano. Null’altro. Ziu Chircu o pregava, o pensava di portar le legna nella casa ove meglio le pagavano, oppure desiderava comprarsi un paio di scarpe.

Aveva circa quarantacinque anni quando un giorno due uomini vestiti di turchino, con bottoni gialli sulla giacca, lo fermarono nel bosco:

— Che fate voi? — gli chiesero.

— Non lo vedete? — diss’egli, fermo e curvo sotto il suo carico di legna, ma a viso alto.

— Avete terreni, voi, nel bosco?

Egli si mise a ridere sporgendo e guardando uno dei suoi piedi nudi.

— Non ho neppure scarpe.

— Ebbene, allora voi siete in contravvenzione forestale. O chi vi ha dato il permesso di tagliar nel bosco?

— Nessuno. Me lo prendo io perché altrimenti muoio di fame.

— Ebbene, allora siete in contravvenzione forestale.

— Cosa vuol dire questo?

— Che dovete pagare una multa o scontarla in carcere.

Zio Chircu non ebbe più voglia di ridere: anzi s’annuvolò in volto.

— Ma se sono trent’anni che taglio legna, e nessuno mi ha detto mai che dovevo lasciar stare e morire di fame.

I due guardaboschi parvero commuoversi.

— Ma che volete, caro mio, ora la legge è così, e bisogna rispettarla. Per questa volta andate pure, ma badate di non farvi incontrare altra volta.

Invece lo incontrarono molte altre volte, e alla fine, un giorno, gli tolsero il carico e lo dichiararono in contravvenzione. Essi non erano cattivi, anzi avevano compassione del povero uomo, ma che volevano farci? Era il loro dovere obbedire alla legge.

Zio Chircu continuò tuttavia il suo mestiere, ma con somma prudenza: s’internava nei luoghi più selvaggi, dove non s’udiva neppure il chiù, chiù dell’uccello silvano. Anche il toc, toc, dell’albero scosso dall’accetta risuonava timido, a intervalli: parea che ogni tanto la pianta fremente, si quietasse in pauroso ascolto. Zio Chircu intanto fu tradotto davanti al pretore del paese, e condannato a una gravissima multa, perché tutti i testimoni, padroni della foresta, dichiararono ch’egli era uno dei più grandi e assidui devastatori del bosco.

Egli doveva scontare questa multa in carcere. Gli pareva un orribile sogno, e soffriva come mai aveva sofferto in vita sua: in pochi giorni parve invecchiare di dieci anni, diventò più sporco e lacero di prima, e i suoi occhi s’offuscarono. Ah no, in carcere egli non voleva entrarci, almeno finché durava la bella stagione. E neppure nella cattiva, avrebbe voluto entrarci, perché era in inverno che le legna si vendevano bene. Ad ogni modo s’intese con un altro uomo del paese, e si diede alla campagna; tanto c’era avvezzo, e poco gli importava rientrar in paese. Egli tagliava le legna, e l’altro uomo le vendeva, recandole al villaggio; però lo truffava della metà, ed egli doveva star zitto e rassegnarsi.

Si sentiva profondamente infelice, doveva andare in boschi lontani, e per lo più tagliava le legna di notte, quando la luna calava sui boschi solitari, e al toc, toc dell’accetta, vibrato in quell’arcano silenzio lunare, rispondeva il cu cu del cuculo, che or pareva salire dalle profondità del bosco, or scendere dalle trasparenze pallide del cielo.

Così passò l’autunno, passò l’inverno, e venne la primavera. Zio Chircu era in estrema miseria, quasi ignudo, coi capelli e la barba inselvatichiti, e spesso soffriva la fame; ma non voleva arrendersi. No, no, non s’era arreso durante i grandi freddi invernali, e tanto meno voleva arrendersi ora che il sole metteva un tepore ineffabile nelle radure del bosco, profumate di ciclamini e viole. Si sarebbe arreso al tornar dell’inverno: c’era tempo ancora.

Intanto, un giorno che attraversava una pianura per recarsi da un bosco all’altro, la fortuna parve arridergli. Sotto un cespuglio trovò un grosso portafogli rosso, due portamonete, una borsetta e delle carte che la rugiada aveva inumidito alquanto. Guardò: denaro non c’era ma le carte dovevano esser d’importanza e forse il padrone gli avrebbe dato qualche mancia nel riaverle. Raccolse quindi ogni cosa e proseguì la sua strada, e quando vide l’amico che gli vendeva le legna, il quale sapeva leggere, gli raccontò ogni cosa.

— Oh, che il diavolo ci aiuti, queste cose erano del signor Saturnino Solitta! — gridò il compagno, guardandolo con diffidenza. Zio Chircu ebbe un brivido di paura, di raccapriccio. Il signor Saturnino Solitta era stato assassinato poco tempo prima, mentre tornava da Cagliari, dove aveva imbarcato e venduto un gran numero di porci grassi. Senza dubbio, l’assassino, dopo aver tolti i denari, aveva buttato via i portafogli e le carte.

— Queste sono cambiali, e questo foglio è come sia del denaro, vedi — disse l’uomo del paese, che sapeva leggere e scrivere ed era stato servo in una casa ricca. — Se tu vai in un negozio te lo cambiano subito. Si chiama un cecco (era uno chèque).

— Ma non voglio andarci. Crederanno sia stato io ad assassinarlo.

— Ebbè, sei uno stupido se non ci vai. Fra uno o due mesi, per esempio, chi vuoi che a Nuoro si ricordi di questo fatto? Tu vai, come che sii un servo, fai delle compre, pigli il resto, e te ne torni tranquillissimo.

— Ma… e non è come un furto?

— Sei uno stupido tu, che il diavolo ti tiri la pelle! Che furto, se il padrone non esiste più? Il furto lo ha fatto colui che gli ha trapassato il collo con una palla. Purché non sii tu…

— Oh, va al diavolo! — disse zio Chircu, ridendo in modo così sincero che escludeva del tutto la strana idea del compagno.

— Perché dunque non dovresti cambiare questo foglio? In ogni caso si può dire d’averlo trovato… Ci sono io, mi pare. Sei una bestia tu? Non vedi che non porti un lembo di stoffa intero?

— Ah, questo è vero! Ma appunto perciò, non diffideranno vedendomi così lacero? Per il resto, dopo quanto mi dici, non m’importa nulla.

— Ebbene ti presterò le mie scarpe, il mio cappotto, le mie uose.

— E anche il giubbone e la berretta?

— Tu vuoi dunque tutta la veste?

— Se tu vuoi darmela.

— Ma… e allora… qualche cosa…

— Si capisce, ti comprerò qualche cosa. Cosa vuoi che ti compri?

— Quello che vuoi tu.

Per qualche tempo zio Chircu Barabba si sentì meno infelice di prima.

Pensava alle belle cose che si sarebbe comprate; agli scarponi, alla veste, all’accetta nuova. Anche roba da mangiare avrebbe comprato, del pane, del lardo, del vino. In fondo in fondo sentiva un po’ di scrupolo e di paura, ma dopo tutto era cosa trovata, e, caso mai, egli credeva ingenuamente che sarebbe bastato dir la verità per liberarsi di ogni molestia. Ogni volta che il compagno veniva a prender le legna lo incoraggiava, e una volta giunse a dirgli che se infine aveva paura sarebbe andato lui.

Ma zio Chircu, dopo gl’imbrogli della legna, non volea fidarsi, e preferì recarsi egli stesso a Nuoro.

Andò difilato a comprar un paio di scarponi di cuoio giallo con dei chiodi così grossi che parevano d’argento, e lunghe correggie nere. Si misurò, strinse le correggie, le slargò, e calzò di nuovo le scarpe dell’amico che gli stringevano assai gli enormi piedi neri. E fu non senza batticuore che cavò fuori dalla cintura lo chèque del morto. Il mercante lo prese, lo esaminò: nessun muscolo del suo viso si mosse, eppure in quel momento egli decise il destino del povero zio Barabba.

— Non ho cambio, — disse, — ma se aspettate un momento, lo manderò a cambiare qui, dal mio vicino.

Zio Chircu provò una leggera inquietudine, ma lasciò fare.

Nel mentre pensò bene di levarsi ancora le scarpe dell’amico e calzare i nuovi scarponi, più comodi, sebbene un po’ troppo pesanti.

— Son duri come di pelle di diavolo, — pensava palpandoli, curvo fino a terra, — ma ci metteremo un po’ di grasso e diverranno morbidi: come sono belli, ma proprio belli!

L’uomo che il mercante aveva mandato a cambiare il foglio tardava assai: inquieto e nervoso, il mercante si faceva ogni tanto alla porta e guardava lontano. Alla fine l’uomo ritornò: subito dietro di lui entrò un signore molto ben vestito, con due labbra grosse e rosse, e dietro questo signore entrarono due poliziotti. Zio Chircu sentì raffreddarglisi il cuore: intuì ciò che doveva accadere, e per un momento ebbe paura. Ma tosto pensò:

— Dirò la verità, e basterà.

Tutto ciò rapidamente.

— Chi vi ha consegnato questo foglio? — gli domandò il signore dalle labbra grosse.

— L’ho trovato — rispose zio Chircu rispettosamente, alzandosi e tenendo in mano le scarpe dell’amico.

— Dove lo avete trovato?

— Così e così.

— Buon uomo, — disse il signore, con una certa buona maniera, forse temendo che quell’uomo alto e selvaggio facesse ribellione, — voi dovete far il favore di venir con noi per raccontar meglio il fatto al signor ispettore.

E zio Chircu li seguì docilmente illuso in cuor suo che bastasse dir la verità per esser creduto. Ma in fondo all’anima sentiva una misteriosa oppressione, l’occulto presentimento di cose spaventose.

Nell’ufficio, il signore e i poliziotti cambiarono di modi. Zio Chircu fu di nuovo interrogato rudemente da un altro signore pallido e calvo, poi fu spogliato e frugato. Gli rinvennero le spoglie del delitto, e passò tosto per l’assassino del signor Saturnino Solitta.

Lo gettarono in carcere, lo sottoposero a lunghi, crudeli, atroci interrogatorii. Ogni giorno venivano dei signori, chi con gli occhiali, chi con la barba bionda, e gli domandavano mille cose strane, e volevano che assolutamente egli dicesse come e quando aveva ammazzato il signor Saturnino Solitta.

— Ma io non ho ammazzato nessuno, — diceva lui, — io queste cose le ho trovate, e non sapevo neppure cosa fossero. Un amico mi consigliò di cambiare quel foglio e siccome io avevo gran desiderio di un paio di scarpe, ho seguito il suo consiglio. Domandatelo a lui se non mi credete.

Lo fecero venire, lo domandarono: l’uomo ammise di aver prestato le sue vesti – e le voleva restituite – di aver prestato le sue scarpe all’Orovei, ma non sapeva nulla, non avea consigliato nulla.

— Che farabutto, che faccia tosta, — diceva fra sé zio Chircu, — eh, già, dovevo pensarmelo, dopo il fatto delle legna!

— Ebbene, — disse al giudice, per vendicarsi, — se non mi ha consigliato nulla, non mi ha prestato neppure le sue vesti —. — Così almeno non gliele restituiscono — pensava. Ma poi si pentì e si disdisse. Ah, no, non voleva offendere oltre la bontà del Signore, sicuro come era che la disgrazia presente gli succedeva perché aveva già peccato, appropriandosi della roba altrui.

Nelle lunghe ore di cella, mentre istintivamente provava la nostalgia dei grandi boschi solitarii e del cielo aperto, si sentiva infelice, infelice; ricordava i giorni della sua latitanza e quanto ne aveva sofferto, e gli sembrava d’aver peccato, allora, lagnandosi, perché il patimento di quei giorni era una felicità grande, in confronto della tristezza presente. Eppure, non aveva ancora una giusta idea delle terribili cose che lo aspettavano. Sperava sempre di venir da un momento all’altro liberato, e ogni notte addormentandosi, sentiva il toc, toc dell’accetta vibrato nel silenzio della foresta, e accompagnato dal grido lento e melanconico del cuculo.

Passò gran tempo. Nessuno si ricordava di zio Barabba; nessuno gli faceva colloquio, come suol dirsi, o gli mandava un sigaro o un litro di vino o un pane o una camicia pulita, come ne riceveva anche il più misero dei prigionieri. Anche quei signori con gli occhiali brillanti, che mettevano paura a guardarli, o con la barba bionda o calvi e pallidi, s’erano dimenticati di lui.

Ma un giorno gli mandarono un foglio, parte stampato e parte manoscritto: egli se lo fece spiegare trepidando. Era la deliberazione della camera di consiglio, che lo rimandava a dibattimento alle Assise. Poi gli mandarono un avvocato, un giovinotto verdognolo in viso, bilioso o indifferente secondo i momenti. Anche questo giovinotto pretendeva che zio Chircu gli dicesse d’aver assassinato il signor Saturnino Solitta.

— Ditemi la verità, — diceva, — agli avvocati si deve confessar tutta la verità, poi le cose s’accomodano.

Per un momento zio Barabba ebbe la tentazione di dire che aveva ammazzato il Solitta; tanto gli parve più facile liberarsi confessando il preteso delitto che affermando la verità. Ma quando la faccia verdognola dell’avvocato non gli stava davanti, tornava a sperare nel trionfo della verità; eppoi, i compagni di carcere gli dicevano che i giurati erano uomini probi, con cuore umano e non con cuore di pietra come i magistrati.

Venne il giorno del dibattimento: zio Chircu si svegliò quasi allegro, avendo sognato di esser nel bosco a tagliar legna, vicino ad un fiume: un uccello palustre, nero, con lunghe e grandi zampe verdi come giunco, modulava uno strano canto su un ramo di salice selvatico.

Fra i testimoni comparve l’amico delle legna, ed altri deposero che l’imputato era un uomo selvaggio, cupo, insocievole.

Il pubblico ministero lo dipinse come “una fiera dei boschi, che aveva lungamente meditato il delitto, aspettando la vittima al varco, come belva appostata in attesa della sua preda”. Proprio così.

Zio Barabba guardava spaventato quel signore dagli occhiali brillanti, al quale non aveva mai fatto alcun male, e ne provava uno strano terrore.

Per confortarsi volgeva lo sguardo ai giurati, uomini dei villaggi, pacifici, grassi, d’aspetto umano, e sperava. Parlò l’avvocato. Era più verde che mai: se aveva qualche slancio, questo consisteva in uno stridere di denti di pessimo effetto.

Basta; il povero uomo fu condannato ai lavori forzati a vita. Egli pianse amaramente; guardò ancora una volta i giurati, quegli uomini grassi, pacifici, d’aspetto buono; ricordò il suo sogno, la sua fiducia cieca nel trionfo della verità, e si disse che tutte le cose che sembrano belle erano false.

Per confortarlo, l’avvocato gli disse che avrebbero tosto ricorso in Cassazione; ma egli non aveva più fiducia, non credeva, non sperava più. Il cuore gli si restrinse, gli si fece secco e amaro come una susina selvatica: non pregò, non pianse più.

E lo portarono lontano, lontano, in una salina; gli rasero i capelli, la barba, i baffi; lo vestirono di rosso e gli saldarono una catena al piede. Nei primi tempi egli visse disperatamente: la vista del mare immenso, a lui avvezzo ai boschi umidi e chiusi, accresceva il senso d’una disperata nostalgia.

Ma col passare degli anni si avvezzò a tutto, si rassegnò, e le sue memorie si confusero: talvolta anzi, pensando che al paese la sua vecchiaia sarebbe trascorsa nella più nera miseria, si confortava sapendola ora al sicuro.

Però era diventato cattivo; aveva perduto l’innocenza serbata fino al giorno della sua condanna; imprecava, e se c’era occasione rubava e s’ubbriacava come il più vile dei galeotti. A Dio non pensava più; o se ci pensava era con ira, come ad una cosa mostruosa che aveva permesso si compiesse su una sua creatura la più infame delle ingiustizie.

Fra i compagni di sventura, zio Barabba strinse amicizia con un altro sardo, un vecchietto che gli arrivava appena alla cintura, con un piccolo volto grasso e rosso nel quale erano affondati due occhietti d’un vivissimo azzurro.

Era nativo d’un paese vicino a quello di zio Chircu; si chiamava zio Pretu (Pietro).

Era un ometto allegro, spregiudicato e bugiardo: però dopo aver fatto credere ai suoi compagni le cose più meravigliose, rideva sguaiatamente, dicendo che le sue storie erano tutte panzane. Quando zio Chircu giunse all’ergastolo, zio Pretu non veniva già più creduto in nulla. Se però diceva qualche verità, il suo accento era tale che s’imponeva: ma questa verità zio Pretu la diceva raramente, e con pochissimi. Con poche parole, e con quel raro accento veritiero, raccontò la sua storia a zio Chircu, dopo che se ne ebbe acquistata tutta la confidenza.

— Senti. Io sono di tal paese. Stavo bene, sai, avevo vacche, alveari, terre seminate di frumento e di fave. Ma volevo star meglio. Sapevo che c’era un prete ricco, il quale teneva persino posate d’oro, e con alcuni compagni andammo a derubarlo. Siccome egli gridava, gli mettemmo le mani al collo, ed egli restò morto. Ma ecco sul più bello la giustizia: pum pum fucilate di qua, fucilate di là. Dovemmo fuggire, ma uno dei nostri compagni restò in mano dei soldati, e rivelò i nostri nomi, il vile! Così io dovetti darmi alla campagna, e perché la giustizia non mangiasse il mio avere, fin dai primi giorni vendetti tutto, e il denaro lo gettai entro una brocca, e la brocca la sotterrai. Poi fui preso.

— E il bottino? — chiese zio Chircu.

— Ah, quello mi servì per mangiare durante la latitanza. Ah, ma ti dico che erano bocconi amari, quelli — rispose il vecchio, sputando lontano. Poi domandò: — E la tua storia?

— Oh, — disse amaramente l’altro, — io pure ho derubato un uomo e l’ho ammazzato, come te. Con la differenza che questi delitti li pretesero loro, non li feci io.

— Ah, questo è ingiusto. Io l’ho veramente ammazzato, non c’è che dire. E me ne son dovuto pentire, perché così ho perduto tutto.

— Ma non hai parenti? — domandò zio Chircu pensando alla brocca.

— Parenti all’inferno! Essi mi abbandonarono come un cane: restino anche loro come cani.

Zio Chircu e zio Pietro strinsero dunque amicizia, che durò lunghissimi anni, confortando in qualche modo i due disgraziati. Essi erano compagni di catena, erano compatrioti, parlavano spesso della loro terra lontana, ed erano anche uniti dalla convinzione di dover entrambi morire laggiù, numeri smarriti nella bianca desolazione delle saline battute dal mare e dal sole.

Zio Chircu era spesso ringhioso e provocante, il suo carattere essendosi del tutto cambiato. In certi momenti di umor nero insultava il vecchio compagno, e per poco non lo percoteva. Allora il vecchietto si metteva a ridere e gli diceva:

— N. tale, se continui a far il cattivo, non ti dico dov’è nascosta la mia brocca.

L’altro s’irritava di più.

— Che il diavolo ti peli, anche se tu me lo dici, che favore puoi farmi?

— Se non altro, lo sai anche tu.

— Che il diavolo ti cavalchi, che il diavolo ti metta in salamoia, non farmi oltre adirare, n. tale.

Quando si dicevano il n. invece del nome, era il più grande insulto che potevano scambiarsi.

Un giorno ch’era di buon umore, mentre stavano al lavoro, zio Chircu disse al compagno:

— Ebbene, perché non scrivi a qualcuno, che cavi fuori la brocca e ti mandi dei denari? Si potrebbe far miglior vita, comprare questo comprare quest’altro.

— Un corno! Si tengono tutto; lo conosco meglio di te io, il mondo.

— Ma e… allora?

— Ebbene, e allora? Lo so cosa vuoi dire. Ebbene, lo dirò ad un povero, in punto di morte. Sì, ad un povero. Che poi preghi per l’anima mia.

E passavano i giorni, i mesi, gli anni.

I capelli di zio Chircu diventarono grigi, il suo petto s’incavò, la sua statura diminuì. Zio Pretu era quasi decrepito, ma sembrava non più vecchio del suo compagno, e continuava a dir bugie e a riderne. Si poteva dire ch’egli narrava con esauribil vena le sue fole, più per divertir se stesso che gli altri.

Un giorno finalmente accadde un fatto straordinario. Zio Chircu fu chiamato dal direttore dello stabilimento penale. Egli vi andò alquanto smarrito, non essendogli mai accaduto una simile cosa. Il direttore gli disse:

— Oramai son trascorsi tanti anni, siete vecchio e potete finalmente dire la verità. Avete sì o no commesso il delitto? Dite la verità, tutta la verità. Vi gioverà; vi chiederemo la grazia, e può darsi che andiate a morire al vostro paese —. Zio Chircu negò ancora, con selvaggia energia.

— No, quando anche io dovessi vivere tanti anni quanti granelli di arena vi sono nel mare e passarli sempre qui, no, io non ho ammazzato nessuno, no, no, e no.

Fu fatto uscire. Ritornato presso zio Pretu, che lo aspettava con ansia, gli narrò irosamente ogni cosa.

— Ah, diavolo, — disse il vecchio, — tutto questo è ingiusto. Io ho veramente ammazzato il prete, non c’è che dire, e se mi chiamano lo confesso ancora, e se mi vogliono graziare mi grazino pure. Ma che tormentino un povero diavolo come te, oh, questo non è giusto!

Zio Chircu fu di nuovo chiamato il giorno dopo dal direttore e nuovamente interrogato.

Egli si sentiva montare il sangue alla testa: ancora un poco e si sarebbe gettato sul direttore, tanto non aveva più nulla da temere.

— Ebbene, quando è così, — disse il direttore cambiando accento, — sappiate che si è scoperto il vero colpevole. Veramente non è si scoperto; è lui che, vinto dal rimorso, ha confessato, ma fa lo stesso. Preparatevi dunque con animo sereno, perché fra poco sarete libero.

E di nuovo fu fatto uscire. Andò via tremando, e giunto presso zio Pretu si mise a piangere come il compagno non lo avea visto mai.

— Ebbene, ebbene, cosa è accaduto?

— Si è scoperto il vero colpevole, — rispose zio Chircu, singhiozzando e ripetendo le parole del Direttore; — veramente è stato lui che vinto dai rimorsi ha confessato, ma fa lo stesso. Bisogna che mi prepari ad esser libero.

Zio Pretu si mise anch’egli a piangere. Entrambi piangevano di dolore e di gioia fusi assieme.

— Come farò io? — chiese zio Pretu.

— Ed io come farò? — disse zio Chircu. — La libertà è bella cosa, e poi riavrò la fama, ma ora sono vecchio, non potrò più lavorare; non potrò più vivere, non ho nessuno.

— Ti daranno qualche cosa.

— Ed io l’elemosina non la voglio. Perché non mi dici dov’è la tua brocca? — disse poi con un triste sorriso, un po’ ironico.

Il volto di zio Pretu s’illuminò.

— Ebbene, sì, perché no? Tu sei un povero. Ebbene, sì, te lo dirò, ci avevo pensato. Ma mi ricorderai nelle tue preghiere.

— Ah, io non ricordo più le preghiere! — esclamò zio Chircu colpito. — Io mi sono dimenticato di Dio, ma Dio non si è dimenticato di me. Mi ha solamente provato, ma io sono vissuto come un ebreo.

Il giorno della partenza zio Pretu gli disse dov’era nascosta la sua brocca. Si separarono tristemente: quello era l’ultimo dolore di zio Pretu, ma il vecchio provava un po’ di consolazione, pensando che, prima di morire poteva far del bene ad un povero sul quale Dio aveva gravato la sua mano. Anche zio Chircu partì tranquillo, pensando alla sua fama riacquistata e al suo avvenire assicurato.

Giunto al suo paese gli si fecero molte elemosine, con le quali poté vivere qualche tempo. Egli pensava sempre alla brocca del vecchio condannato, ma non poteva ancor recarsi a ricercarla perché si sentiva debole, incapace di fare un lungo cammino, e prima bisognava che si rafforzasse. Nei primi tempi del suo ritorno gli si fecero copiose elemosine, e dimostrazioni di affetto; ma a poco a poco gli abitanti del paese si abituarono a vederlo, lo trascurarono e lo dimenticarono.

Egli allora si mise in viaggio e andò a cercare la brocca: il cuore gli batteva forte nel riconoscere i luoghi dove aveva vissuto prima della sua disgrazia. Molti dei boschi erano stati diradati; alcuni spiantati del tutto; ma fra i sambuchi del ruscello tremolava ancora il chiù chiù degli uccelli palustri, dalle macchie di lentischio saliva la nota lenta ed eguale del cuculo, e quelle voci ricordavano al vecchio Barabba tante, tante cose lontane.

Una melanconia misteriosa lo stringeva: pensava come era diventato cattivo dopo quel tempo lontano, e come aveva disperato nella misericordia divina. Pensava a zio Pretu, e si domandava istintivamente se non era migliore di lui quell’uomo che aveva commesso il delitto e lo espiava con rassegnazione e con atti di bontà.

Ah no, non era possibile che ritrovasse la brocca, non lo meritava, perché aveva troppo peccato, troppo disperato! Poi si pentiva di disperare ancora, e pregava, e ripigliava il cammino con più lena.

Arrivò verso sera al luogo indicatogli dal vecchio condannato: era un boschetto di pioppi, in sito assai deserto e lontano da ogni centro abitato. La notte calava limpidissima, scintillante di pure stelle; i pioppi si slanciavano in aria, sui lunghi fusti chiari, come enormi fiori argentei: dal suolo molle di foglie saliva un’umida e indistinta fragranza.

Zio Barabba avea portato seco una piccola zappa: la trasse di sotto il suo gabbano e frugò lungamente per terra, in cerca di un manico qualsiasi, che le adattò. Poi attese il sorgere della luna. Intanto il cuore gli batteva forte; si trattava di tutto il resto dei suoi giorni, da trascorrere nella più oscura miseria, se gli veniva meno l’aiuto di Dio. Si sedette per terra e nascose il volto fra le mani.

Ah, quanto, quanto aveva peccato! Ma si pentiva amaramente, e sentiva che anche non ritrovando la brocca, non si sarebbe lamentato riconoscendo in ciò il giusto castigo di Dio.

Sorse la luna: le foglie bagnate dei pioppi risplendevano come argento, l’odore umido si rendeva più distinto.

Zio Barabba s’inginocchiò e cominciò a zappare pauroso, in quell’infinito silenzio solitario, dell’unico rumore ch’egli stesso produceva. La terra umida, nera, odorosa, veniva fuori, riversandosi sulle ginocchia del vecchio che si curvava sempre più. Alla fine la piccola zappa fece un suono metallico, incontrando un corpo duro. Zio Barabba sprofondò il braccio, toccò l’ansa della brocca; poi continuò a scavare con ardore selvaggio, e dopo un poco la brocca fu fuori. Egli la scosse. Drin, drin, drin, fecero dentro, le monete.

Allora egli si segnò, e col viso sollevato al cielo ringraziò la misericordia divina.

Sembrava un vecchio selvaggio in adorazione della luna.

Fine.


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TITOLO: Le due giustizie
AUTORE: Deledda, Grazia
NOTE: si ringrazia la Ilisso Edizioni / Via Guerrazzi / 08100 Nuoro - Italia / Tel. +39 (784) 33033 / Fax +39 (784) 3

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La regina delle tenebre / Grazia Deledda ; Fa parte di: Novelle (2) / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina . - Nuoro : Ilisso, \ 1996. - 421 p. ; 18 cm.

SOGGETTO: FIC027080 FICTION / Romantico / Brevi Racconti