Patrizia Garofalo, Il Dio dell’impossibile
(Edizioni Il Foglio, pp. 131, € 12,00, ISBN 978-88-7606-225-4)

Non è casuale che la lettura de Il Dio dell’impossibile, la più recente silloge poetica edita di Patrizia Garofalo, induca in me singolari liaisons, collegamenti remoti nel tempo e nello spazio. Mi è quasi naturale accostare la sua lirica a quanto afferma Stephen Dedalus in Ritratto dell’artista da giovane (1916) di James Joyce: «( […]) e cercherò di esprimermi in qualche modalità di vita o d’arte, quanto più liberamente e integralmente potrò, usando a mia difesa le uniche armi che mi concedo d’usare – il silenzio, l’esilio e l’astuzia».

Eloquenti, in tal senso, sono i versi: «Resto incollata al sedile di questo scompartimento/Anima viva/Di un corpo che non vuole/Scendere alla prossima». C’è l’idea del viaggio («I viaggi avviano percorsi», p. 55) ma anche la sua negazione; terrore e desiderio convivono in una superiore sintesi degli opposti, come spesso accade nella poesia di Garofalo dove, lo rileva con acutezza Paolo Ruffilli nella postfazione, «( […]) a vincere è insomma l’idea di assestarsi al limite dell’io». È l’artista che – a prescindere dalle coordinate geo-biografiche, valevoli per Joyce – si impone una sorta di auto-esilio, di fuga dall’emozione personale, dal sudore e dalle lacrime («E venni a patti con il dolore/Disorientato ospite/Lo ebbi più volte a cena», p. 15), condizione necessaria e insieme urgenza di plasmare la propria materia sensibile e di volgerla ad uno scopo estetico. C’è pena e privilegio nell’esilio, in questa scelta di un altrove come luogo eletto dell’attività creatrice.

Il Dio dell’impossibile è un gioco ininterrotto di ossimori, dove l’approdo non è nella pagina, nell’espressione formale di un dato soggetto lirico. Èun processo simile all’osmosi, dove il movimento è senza sosta nelle due direzioni: dagli affanni della vita, pulsante e mai respinta, anzi, cercata e rimestata nel fango o rubata in un sorriso per assumere le sembianze di «cartomante dei tuoi sogni/dimentica vestale dell’impossibile» (p. 29) al logos, catarsi ed esorcismo insieme, appendice di quel vivere l’amore «ubriachi di luce» (p.31). «Amo la parola/la strappo dal cuore» (p. 115); e ancora: «Soffro e vivo/L’insufficienza della parola» (p. 37). La parola non basta a se stessa, è più importante ciò che la precede: il silenzio.

«Il silenzio è ascolto di sé fino all’esplosione della scrittura», chiosava la nostra poetessa qualche tempo fa. Il silenzio è il transustanziarsi dell’io del poeta nel corpo della poesia: potremmo invitare il lettore a rintracciare come un segugio le numerose occorrenze del termine «silenzio» e dei suoi derivati nell’opera di Patrizia Garofalo. «Il silenzio/per chi lo ascolta è assordante» (p.127), è complice della memoria e del pensiero, generatori di paradossali – per l’artista sradicato, estraneo a se stesso e agli uomini – sentimenti di nostalgia e di appartenenza, di paura del vuoto e dell’oblio: «Tutto desiderai/Tranne la dimenticanza» (p. 15); e oltre: «Sarei solo un libro/Messo alla svelta in uno scaffale/per un’eternità impolverata» (p. 121). Il silenzio è per Garofalo il «belvedere da cui gode della natura in tutto il suo splendore», come scrive William Navarrete nella bella prefazione alla raccolta; è la barca che «passa lenta» (p. 19), preziosa facoltà che trova cittadinanza in quella «(…) città dell’impossibile/Dopo un torpore di secoli» (p. 39), segreta adepta di una confessione laica e misterica dove «Il Dio dell’impossibile/ti significa nell’anima» (p. 95).

Infine l’astuzia. Ovvero un’innata disposizione a volgere a proprio vantaggio situazioni ostili. Il poeta lirico, scriveva Milan Kundera, è il genio dell’inesperienza. Possiamo ridere della sua vulnerabilità, ma il suo corrompersi con l’esistenza permette al suo verso di farsi limpido e definitivo come una profezia. Di questa filigrana trasparente è fatta la poesia di Patrizia Garofalo: «Trascino un verso/senza pagina/senza indirizzo/senza radici.» (p. 125). È poesia del frammento, che proviene da una saggezza antica che non risana cicatrici profonde ma ricompone scissioni e conflitti interiori («Ho curato la pelle/con latte di luna/E/Cerotti di stelle», p.113). Ci piace pensare che le stelle siano quelle che, ancor piccolina, la poetessa cercava nei cieli notturni di Mogadiscio. Memorie rievocate in un recente articolo dove risalta una frase cristallina: «Mi viene da dire che sono un puzzle nel quale le tessere possono essere spostate e staccate dal tutto e vivere di luce propria.»