Ogni cosa al posto giustoPubblichiamo volentieri una recensione di Alessandro Cartoni a “Ogni cosa al posto giusto”, romanzo di Alessandro Morbidelli.

Bruno Pedrini è un ragazzo che vale la pena conoscere.

Se dovessimo cercargli un antenato la memoria andrebbe forse al «Leon» di Luc Besson pur tuttavia con qualche differenza non marginale: la prima è che il «liquidatore» del film di Besson, nonostante l’anima candida e infantile, lavora al servizio della mafia (e viene anche retribuito per questo), Pedrini invece è un libero professionista che lavora in proprio, se mai spende di suo, dato che è ricco. La seconda è che, diversamente da Leon, Pedrini è perfettamente consapevole, che “la morte è una liberazione che non va concessa”, la terza, forse la più interessante, è che Pedrini si muove nelle Marche, tra cittadine (soprattutto Jesi, «la città budello di cui non riesce a fare a meno»), borghi, litorali e campagne, quindi dentro una regione policentrica e differenziata mentre il teatro di azione di Leon è ovviamente la grande metropoli.
Col personaggio di Pedrini, protagonista del suo romanzo d’esordio «Ogni cosa al posto giusto» (ed. Robin, 2010), Alessandro Morbidelli, jesino, scrittore, membro della “Carboneria Letteraria” e architetto marchigiano, centra il bersaglio di una narrazione coerente che al plot a tinte noir sa unire una originale problematicità morale. Se il bene e il male sono categorie oggi deboli e reversibili, quelle della vendetta e del castigo no. In un mondo che ha perduto la pietà e il rispetto per ciò che è umano, Pedrini incarna un’antica funzione di riequilibrio antropologico e riparazione morale.
Pedrini, ci è simpatico, proprio perché a suo modo assomiglia più a un santo inquisitore che un modello legislatore illuminista. Non solo non crede alla funzione sociale della pena, ma non è nemmeno convinto della naturale bontà della natura umana. Altrimenti non avrebbe scelto il lavoro che esercita con tanta passione […]
Simboli di questa funzione, a suo modo catartica, sono l’orologio del padre (posseduto un tempo da un generale dell’Armata Rossa) e le tenaglie del boia. Come dire memoria e castigo. Tempo e giustizia. Perché non vi può essere castigo senza memoria. E Pedrini, ovvio, è uno che ricorda molto bene. Che non vuole e non sa dimenticare.
E se la morte è oblio, il dolore è ricordo, quindi infliggere il dolore significa «educare» a ricordare, cioè a rispettare le conseguenze delle proprie azioni.
Ma oltre allo spessore morale, la cosa che più colpisce in questo romanzo a tinte viola è la cornucopia di ambienti, situazioni, personaggi marchigiani, regionali, locali che girano intorno al protagonista e che creano un mondo fatto di storie personali (Alba e Sokri), abissi interiori (Berto), segreti inconfessabili (don Michele). Del tutto lontane dal «colore locale» che spesso ha sommerso la narrativa o la poesia marchigiana, rendendola oleografica e a volte, provinciale, le creature di Morbidelli, ritratte all’altezza del presente e dei cambiamenti attuali rendono il testo vivo e pulsante. Non vorremmo dire una «fotografia del presente» ma qualcosa che del presente ha il respiro e i contorni sfrangiati.
Il realismo della rappresentazione e quella cura, da autentico architetto, per gliinterni e le strutture portanti della narrazione collocano, a nostro parere, «Ogni cosa al posto giusto» in posizione di apripista in quello che ci auguriamo sia il solco d’inizio del «noir marchigiano».

Del romanzo ci siamo già occupati qui: https://paginatre.it/2010/07/14/2333/.