L’autore è giornalista de La Nazione; vi ha scritto per anni di arte e di cinema. Una importante rivista cinematografica, «La linea dell’occhio», lo ha da sempre quale direttore responsabile. Non più giovanissimo, Rocchi, conoscitore impareggiabile dei segreti della città di Lucca, ha voluto intraprendere l’esperienza narrativa, e al suo attivo sono già molti libri e romanzi. Citiamo: i saggi d’arte «La cornice», «Sì, no, ma» e i romanzi «Diario imprevisto di un serial killer», «Maledettamente Mia», «Casa Balboa – Cronache di ordinario disordine», «Storie di Casa Balboa – Il film a luci rosse», «Merde di razza».
Nel 2009 è uscito, a cura di Prospettiva Editrice,l’ultimo romanzo, «Amaro», che ha in copertina un disegno di Antonio Possenti e in esergo le parole tratte dal film «La fonte meravigliosa» del regista King Vidor. Pittura e cinema, dunque: i suoi due grandi amori.

«Amaro» è ambientato nel futuro prossimo, in un’epoca buia, in cui domina una feroce dittatura «islam-clerico-fascista». Il protagonista, il dottor R., è un intellettuale giornalista ricercato per le sue idee contrarie al regime. La democrazia è tornata ad essere un sogno proibito. L’ambientazione è a Lucca, la città dell’autore, in cui la geografia cittadina è mutata. Addirittura nella grande piazza Napoleone, al posto della statua di Maria Luisa, si erge un alto minareto da cui si odono per la città i canti del muezzin, e sul baluardo delle Mura una grande moschea. Sempre sulle Mura, all’interno, sono state ricavate le prigioni del regime, in cui viene trascinato il protagonista colpevole di aver scritto articoli di critica non graditi.

Il mestiere di giornalista ha regalato a Rocchi una scrittura senza fronzoli, che non si perde in descrizioni e lambiccamenti fini a se stessi. Aspra, e a volte vicina ad una scorrevolezza più popolare che ligia ai canoni di una intellighenzia letteraria che Rocchi, una specie di anarcoide anche in questo, rifugge: «Cosa andavo a cercare ragioni astruse quando la risposta agli interrogativi poteva essere addirittura banale?»; «Noi ora bisognava salire come tre escursionisti in cima a quella montagna ridente»; «Più che ci pensavo e più ne ero convinto.»; «Vagavamo per le strade di Milano fermandoci a bar che non conoscevamo». Una scrittura spuria, ribelle.

Nella sua prigionia, il protagonista viene a conoscere il dramma della tortura inferta ai prigionieri, soprattutto psichica, che li riduce a larve.
I valori della libertà e della cultura guidano il suo pensiero, e li spartisce con i due vicini di cella, uno a destra e uno a sinistra; grazie alla compagnia di essi riesce a sopravvivere.
L’ambiente è dei più tetri: un sotterraneo umido e buio, del tutto isolato dal mondo; l’atmosfera è quella di un’Inquisizione ancora più feroce di quella dei tempi di Torquemada.

Rocchi, con un occhio all’attualità, cerca di delineare le conseguenze a cui si può giungere se l’uomo si distrae e non percepisce le violenze, soprattutto ideologiche, che oggi devastano la società. Un allarme che non risparmia accenti spietati di rimprovero e di sofferenza: «Mentre nelle altre nazioni si riuscì ad arginare questa interferenza, nel nostro paese i legami dell’Islam con il cristianesimo divennero sempre più forti». Al vertice sta un’oligarchia religiosa, composta da «alte gerarchie ecclesiastiche cristiane e maomettane».
Contro di essa si sono organizzati alcuni partigiani in una resistenza al regime che sembra non avere molte possibilità di riuscita.

Fuggito dal carcere, il protagonista, insieme con i due compagni rinchiusi nelle celle accanto, e un Kapò, Antonio, che li ha aiutati, salgono sui monti per unirsi ai rivoluzionari.

Si troveranno, nel romanzo, le tracce di una nuova resistenza che calca le orme di quella che si batté contro il fascismo. Spostata più avanti nel tempo, ci insegna che spesso è proprio una resistenza convinta, coraggiosa e ostinata che può riuscire a battere la tirannia.

Rocchi, in realtà, va oltre e fa dire al protagonista che «La nostra lotta era stata paragonata a quella che diversi decenni prima fecero le cosiddette Brigate Rosse». Infatti, l’obiettivo è quello di eliminare gli uomini politici più influenti, ma anche gli altri, molto più vulnerabili. Rocchi non ha mezze misure e per liberarsi dalla tirannia instaurata in Italia dal «partito di ispirazione clericoislamica» traccia per il suo protagonista un percorso particolarmente violento. A questa scelta sembra dare un valore definitivo. La sola che possa dare un risultato durevole: «ricordatevi la rabbia. È la forza propellente della vendetta.» Furti in banca, uso degli esplosivi, saranno gli strumenti per questa guerra.

Ad essi partecipa con convinzione anche il protagonista. L’autore decide di introdurre alcune pagine in corsivo, per esprimere riflessioni proprie o dei personaggi coinvolti in situazioni intense o drammatiche, come l’esecuzione di Antonio, l’uomo che li aveva liberati dalla prigione e che era stato ripreso dalla polizia. Sono lacerti che mostrano il personaggio nudo di fronte alla propria umanità, ai propri sogni e alle proprie delusioni.

Rocchi si muove bene nella descrizione delle vicende che coinvolgono il protagonista. Ne segue e ne stimola la passione, quasi una sfida che vuole intraprendere contro qualunque disegno oppressivo, ora individuato nella congiunzione di due religioni integraliste, ma sottinteso nei confronti di ogni forma di regime che scalfisca la libertà.

Si avverte che ne parla come di un pericolo che incombe, che forse molti non sanno ancora riconoscere ma che si nasconde nelle cose, si respira nell’aria. Il silenzio sarebbe una colpa. In questa impresa, anche le donne hanno la loro parte: Gina, Elisa e Ilaria soprattutto. È un sentimento per intanto chiuso nel recinto di pochi volenterosi in clandestinità, ma destinato ad aprirsi e ad allargarsi. Il suo motore: l’odio: «la lotta deve essere ispirata dallo spirito di vendetta, una vendetta nata dall’indignazione per gli inganni, la repressione, le sofferenze inutili imposte all’umanità.»

Ilaria tocca l’acme di un odio che fu più delle Brigate Rosse che della Resistenza: «Dopo averlo colpito a morte lo guardai con gusto rantolare in terra e cercare l’aria per respirare mentre il sangue gli otturava la gole. Sapevo che non aveva anima e che per lui finiva tutto. Ero orgogliosa di essere stata la sua carnefice.»

Il disprezzo che l’autore prova nei confronti della situazione politica e economica in cui versa l’Italia gli calca la mano inasprendola di un sentimento più bestiale che umano. Rocchi ipotizza una realtà futura in cui la rabbia e l’amarezza possono portare a questo snaturamento.
Che cosa dobbiamo fare per evitarlo? Soluzioni precise non ce ne sono, salvo fermarsi prima del tempo, prima che la saldatura integralista si compia.

Ciò che il romanzo esprime, cioè, non è un auspicio dell’autore ma un allarme a non proseguire su questa china. È la descrizione feroce di una realtà futura in cui nessuno ha più spazi per vivere, tanto i carnefici quanto le vittime. In cui non si può evitare di entrare «nel baratro della violenza».

Il protagonista era stato un convinto sostenitore della non violenza, ma la terribile dittatura «cristo islamica» che si è instaurata l’ha costretto a passare «decisamente dalla parte opposta.»

La violenza diventa così ragione di crescita e di maturazione: «Solo l’atto di guerra mi aveva fatto crescere da entrare nella vecchiaia tutto di colpo. Nella sana vecchiaia, non nella brutta bestia.»

Gli spazi dedicati alle riflessioni, ed evidenziati in corsivo, si accrescono e si approfondiscono sempre di più nei contenuti, a mano a mano che l’azione violenta si fa continua ed acquista spessore. E ciò a riprova di quanto l’azione, soprattutto allorché ha come fine una rigenerazione violenta, non possa fare a meno di coinvolgere l’uomo interiore e indurlo a porsi una serie di interrogativi ed una serie di risposte sul vivere e sulle ragioni della presenza dell’uomo nel mondo.

L’amore, anche quando si limita all’amore dei sensi, alla ricerca del corpo dell’altra, si trasforma in un desiderio non più fine a se stesso ma sintomo doloroso di un dramma esistenziale: «Come nasceva il gusto dell’eros, aumentava il senso della violenza. Una violenza mirata, puntuale, utile. Una violenza che aveva un effetto catartico su chi la compiva».

Il romanzo si fa via via più complesso e a poco a poco emergono i suoi contenuti più veri che finiscono per trasformarlo da narrazione di un’azione violenta contro un potere tirannico, a romanzo di una purificazione intimamente rivoluzionaria e conflittuale: «Chissà se dentro di me non alberghi un altro io, un io che non ha mai avuto il coraggio di venir fuori, di avere una propria esistenza.»

Rocchi entra nel cuore dell’organizzazione terroristica, facendoci conoscere i piani, il modo di organizzarli e di eseguirli, i rischi, i continui sospetti di essere individuati, le varie attenzioni che si devono avere per non essere scoperti. Il capo della cellula milanese, dove il protagonista opera con il nome di battaglia di Valerio, è Audisio, un avvocato di poche parole, ma sicuro di sé, in grado trasmettere la sua sicurezza al gruppo. È lui la mente dell’organizzazione.

Valerio, però, a volte si lascia trascinare dalla sua passione per le donne, e teme di non comportarsi come dovrebbe; sempre si interroga se qualcuna di esse non sia una spia. Conduce una vita, dunque, di insicurezza e di paura.

La spia c’è, in realtà, infiltrata nell’organizzazione e sarà una sorpresa per il lettore. Una sorpresa anche per il modo sobrio con cui l’autore riesce ad evitare di cadere nella trappola di un pathos che avrebbe soddisfatto le corde di un romanticismo da feuilleton. Insicurezza e delusione, dunque, sono parte ineludibile della vita; dobbiamo sempre farci i conti, con sofferenza, con rabbia, per riuscire ad andare avanti, a non mollare: «Attesa, tempo senza tempo che infrange i pensieri più nobili per concentrare tutto nel tormento di un unico pensiero che diventa tutto.»

È un brano di una delle riflessioni del protagonista che l’autore ha voluto mettere in corsivo e che fanno da ossatura al romanzo, un romanzo in cui l’azione non è mai fine a se stessa ma produce sempre nell’uomo occasioni di mutamento.

Mentre fa questa riflessione, Valerio attende con i compagni l’arrivo di un treno che transiterà sopra un ponte che è stato minato. Lo faranno saltare in aria. Ma quel treno non rappresenta forse anche la vita?
Non rappresenta forse anche la lotta e la disperazione che sempre ci accompagnano?: «La vita per me era la battaglia, era la lotta, era la ribellione.»

Le parole con le quale il romanzo si conclude rappresentano la migliore sintesi di un sentimento che non appartiene solo a Valerio ma a tutti gli uomini:

«Tutto passa, tutto ci lascia, tutto si cancella. Eppure il dolore e la morte sono state presenze indelebili, ma vedo con gli occhi del mio cuore, il prossimo venturo ricordare il passato come quando si ricorda i genitori scomparsi e si vorrebbe abbracciarli, noi corrosi dal rimorso, ora. Però non si può più, e ci troviamo a protendere le braccia in avanti alla ricerca di qualcosa da stringere. Ma non troviamo che impalpabile, inutile aria.»