Mario Bonfante, La discarica degli angeli
(Morganti Editori, pp. 187, € 13,50, ISBN 978-88-95916-24-8)
In un mondo dove tutti urlano e sgomitano per avere un po’ d’attenzione, il pregevole esordio narrativo di Mario Bonfante (Verona, 1956) richiede il silenzio, una dimensione di quiete senza la quale non è possibile apprezzare le voci della natura, l’alternarsi delle stagioni, il fluire soggettivo del tempo. È un romanzo, La discarica degli angeli, di una bellezza quasi impalpabile, che poggia su equilibri instabili quanto lievi e dinoccolati. Vi si narra, infatti, la normalità quotidiana di una piccola comunità fuori dell’ordinario.
Bruno, il protagonista, è il custode di una discarica. La vita non è stata prodiga nei suoi riguardi: l’infanzia gli è stata negata in seguito a un fatto di sangue che l’ha marchiato in maniera ineluttabile; poi il ricovero in un manicomio criminale. A quasi quarantanni si ritrova privato di tutto, o forse no, perché la spinta allo scavo interiore, al recupero della propria umanità passa attraverso il potere taumaturgico della parola, quel raccontarsi e mettere insieme le tessere di un io disgregato: «(…)a pensarci ora, era l’unico modo per uscire veramente dal reparto psichiatrico dell’ospedale. Vai lontano con una lettera. Mandi dei pezzetti di te in giro per il mondo anche se, il più delle volte, il vero destinatario di quelle lettere sei proprio tu, che te ne stai rinchiuso». C’è un desiderio di compiutezza, di realizzazione di sé in Bruno, la salda volontà di «finire le storie» dei libri custoditi nella biblioteca del reparto, secondo il proprio uzzolo, là dove molte pagine sono state strappate e perdute.
Bruno può contare sul supporto di una famiglia di freaks, persone simili a lui, con dei buchi neri nell’anima, piegati ma non ancora vinti dall’esistenza. Aldo, per esempio, artista di grande sensibilità, che annega in una colla maleolente gli scarti opportunamente selezionati per divenire oggetti che raccontano un mondo di reietti ed emarginati. Bìcio, uomo scarmigliato e senza parole, con una piccola e innocua ossessione per gli abiti femminili. Lisa, l’ex-prostituta rumena, la prima a soccorrere Bruno, a tendergli la mano nel vuoto e nella disperazione delle corsie ospedaliere. Consulich, lo slavo senza braccia, saltato su una mina cercando di strappare invano la figlia alla morte, orgoglioso e indiscusso monarca di un popolo di straccioni.
Ecco l’ossimoro di cui dicevo in apertura: entrare nelle vite così «speciali» e «sommerse» degli ultimi, osservarli sbarcare il lunario, descriverli con naturalezza mentre si dedicano alle loro abituali attività. È una scommessa riuscita, quella di Bonfante, servita egregiamente da una scrittura piana e umilissima, in precario equilibrio nell’accostarsi ad una realtà che trasposta sulla carta rischia pericolosamente di deragliare nel pietismo ma che in La discarica degli angeli si ammanta di poesia e di una commozione intensa e partecipe per l’atavica forza di vivere che si sprigiona dai personaggi.
La discarica degli angeli è pure un romanzo dalla grande forza ecologista, che vede nel personaggio di Nane, il vecchio partigiano che resiste all’avanzare della cementificazione selvaggia – rifiutandosi di cedere la propria casa alle autorità locali -, una precisa denuncia dello scempio del paesaggio che si è compiuto in molte parti del nordest in modo indiscriminato, col solo fine del profitto immediato. Le campagne della bassa veronese, dove Bonfante colloca la discarica in cui si svolge l’azione, vengono tratteggiate con grande efficacia naturalistica, col rammarico per un mondo di cui restano soltanto rovine, per un’identità e una cultura che vanno scomparendo: «Questo mondo di sogni realizzabili era svanito e la gente delle casette era arrivata a vergognarsi della propria storia».
Bruno diviene perciò il simbolo di una resistenza etica ed estetica; il suo riscatto personale si attuerà nella concreta edificazione della sua casa in valle, costituita dai rottami, a forma di conchiglia. Una conchiglia che si attorciglia su se stessa, il progetto di una serie di casette che convergono in una corte, luogo di curiosità, di incontri per gli abitanti del posto nonché dimora dei suoi affetti: Teresa, l’angelo salvifico che muta la rotta del suo destino e il figlio che porta in grembo, quel futuro misto di trepidazione e timori per il nostro protagonista che ha il potere di nobilitare quel che il mondo ottuso e distratto getta via: «A volte trovo delle cose così belle che, purché non vadano perdute per sempre, cerco d’inventarmi come poterle adoperare. E’ come dare alle cose un’altra possibilità, una ripetenza, una seconda occasione».