Elena Bono, Per Aldo Gastaldi “Bisagno”, collana “Smeraldi”, Edizioni Ares, Milano 2020, pp. 140, € 13,00, EAN: 9788881559336
Bisagno, per i genovesi, non è solo il torrente che taglia la città e sbocca alla Foce. È anche un uomo, amato e ammirato. Un partigiano, anzi “il primo partigiano d’Italia”, che sulle montagne alle spalle della città aveva formato e comandato la Divisione “Cichero”, circondata da un alone d’invincibilità.
Aldo Gastaldi, a Genova, era nato nel 1921. A guerra iniziata, fu arruolato nel Genio, a Casale Monferrato. Le sue qualità si fecero notare e venne mandato nella severissima Scuola Allievi ufficiali di Pavia. Risultò terzo su 700 allievi. Venne destinato, come tenente di prima nomina, al 15° Reggimento Genio, di stanza a Chiavari. 3a Compagnia Radiotelegrafisti. Con gli altri ufficiali della Compagnia nacque subito una grande amicizia: due di loro lo seguiranno in montagna: Aurelio Ferrando (che prenderà il nome di battaglia “Scrivia”) ed Elvezio Massai (“Santo”).
In quella sua prima esperienza di comando si forgiarono le qualità che ne faranno un ‘capo’. Ricorda Ferrando: «era chiaro a tutti i soldati che […] per ottenere giustizia, per risolvere problemi importanti di ogni genere, anche personali, bisognava rivolgersi al sottotenente Gastaldi. E quando lui era ufficiale di picchetto, il rancio era migliore e il caffè al mattino meno amaro» (p. 36).
Giunse l’8 settembre, e non colse Gastaldi di sorpresa. Mentre i tedeschi avevano circondato la caserma costringendola alla resa, dalla sua postazione distaccata riuscì a porta fuori con i suoi uomini un incredibile quantitativo di armi e a nasconderle nel retrobottega di un calzolaio fidato. E prese la strada delle montagne che da anni conosceva come le sue tasche. Scelsero come base la val Cichero, nell’entroterra di Chiavari. Pochi, nei primi mesi, anche a causa dell’arrivo dell’inverno. Furono i mesi che Gastaldi “Bisagno” dedicò a formare i suoi uomini. Anni più tardi sarà chiamata la “scuola di Cichero”. Scrive la studiosa Anna Maria Manaratti: «Il comportamento di Bisagno in quel periodo di incubazione non fu di chi vuole mostrarsi il migliore, ma di colui che, incapace di persuasione teorica, si propone come esempio quotidiano di autodisciplina, di responsabilità, di rigore morale, di spirito di sacrificio, realizzando così il più efficace mezzo di educazione alla guerriglia. Non bastava insegnare a sparare, e, del resto, in quel periodo mancavano quasi del tutto le armi, occorreva in primo luogo forgiare gli uomini a una lotta incruenta ma quotidiana contro la fame, il freddo, la paura, la solitudine, il dubbio» (p. 43).
Da subito la formazione diede prova di grande efficienza, anche grazie all’avvedutezza e alla prudenza responsabile del comandante. Ma «non sta qui la novità della “scuola di Cichero”, quanto nel ribaltamento di una mentalità e di una prassi militare. Per Bisagno il comando altro non è che servizio. Il capo è colui che mangia per ultimo, se qualcosa è rimasto, fa i turni di guardia più lunghi, si accolla i compiti più faticosi, e accetta soprattutto di essere discusso» (p. 44). Le sue doti di coraggio, di prontezza, di intelligenza tattica e strategica attingono più alle riserve interiori che alle sue, pur notevoli, qualità fisiche e psicologiche. I suoi uomini gli riservano così una fedeltà incondizionata.
Con la primavera la formazione cresce e in luglio diviene Divisione: duemila uomini, che hanno il controllo della Valle di Fontanabuona e della Val Trebbia. La sua integrità morale riesce a costruire una rete di fiducia, di mutuo aiuto anche con le popolazioni delle valli. La responsabilità per la vita dei suoi uomini lo spinge a pianificare minuziosamente ogni azione e a prevedere. «Per conto suo, rienventò l’antichissima tecnica dei liguri in lotta con i romani: il predisporre delle “buche” entro cui occultarsi al passaggio del nemico, per sopravvivere in quei momenti di emergenza con i viveri indispensabili e risaltar fuori incolumi e riprendere i combattimenti» (p. 50). Questi e altri accorgimenti di grande mobilità su un territorio conosciuto palmo e palmo gli consentirono un piano di “difesa elastica” che gli permise ad esempio, durante l’imponente rastrellamento dei tedeschi nell’agosto 1944, di far ripiegare ordinatamente i suoi uomini per venti giorni senza che si perdessero mai i collegamenti.
Tra le molte imprese di quei mesi, il suo capolavoro avvenne in ottobre. Travestitosi da tenente degli Alpini, si recò a più riprese nell’accampamento del Battaglione “Vestone”, inquadrato nella Divisione Alpina Monterosa della RSI: il 4 novembre tutto il reparto con le armi e le salmerie abbandonò la Divisione e passò nelle file partigiane. La ‘Monterosa’, per lo scacco subito, dovette essere ridislocata altrove, ricostituita e impegnata in altre zone. Un fatto clamoroso, unico nella guerra partigiana, dovuto al suo magnetismo ma anche alla sua moderazione. «Tutti quelli che gli furono vicini sui monti concordano nel testimoniare della sua riluttanza – o meglio ripugnanza – allo spargimento di sangue non soltanto dei suoi uomini ma anche dei nemici: famoso l’episodio di una colonna di Alpini che egli, pur potendola attaccare da posizione favorevole, lasciò allontanarsi ignara e tranquilla, tra la sorpresa dei partigiani, giustificando poi il mancato ordine di attacco col dire che sarebbe stato un massacro inutile» (pp. 70-71).
La Divisione Cichero, in quell’anno e mezzo di guerra, mise a segno un gran numero di azioni, alcune molto ardite, che paralizzarono gli invasori, e sempre con pochissime perdite, tanto da suscitare il timore e anche l’ammirazione del nemico e da meritarsi una nomea di invincibilità. E il nome di Bisagno è ancora ammirato e amato in Liguria, e se ne tramanda la memoria. Da poco la Casa Editrice Ares ha ripubblicato, a venticinque anni dalla prima edizione, una raccolta di documenti e testimonianze curata da Elena Bono (Per Aldo Gastaldi “Bisagno”, collana “Smeraldi”, Milano 2020, pp. 140). Elena aveva la stessa età di Gastaldi e in quei mesi era sfollata poco sotto il Passo della Forcella. Erano i giorni immediatamente precedenti al 25 aprile 1945. Poco dopo mezzogiorno sentì il rombo di una motocicletta ed ebbe «un presentimento, ansioso e gioioso a un tempo». Si affacciò alla finestra; sulla strada una moto con due partigiani in sella. «Di quello che guidava, non ricordo nulla perché non lo guardai. Dell’altro che gli era alle spalle vidi nella piena luce solare il volto. Sollevò per un istante gli occhi. Che mi parvero celesti tanto erano chiari, di un chiarore abbagliante. Mai più, nella mia vita, ho incontrato uno sguardo così: uno specchio assolutamente pulito, limpido in cui tu all’improvviso vedevi te stesso, la tua coscienza, per ciò che avresti voluto e dovuto essere, e se tale non eri – coraggio – dipendeva da te, con un piccolo sforzo, diventarlo» (pp. 25-26). Con la sensibilità e l’intuizione propria dei grandi scrittori – ed Elena Bono davvero lo è stata – gli bastò quello sguardo fuggevole.
In queste pagine la Bono non affronta il mistero controverso della morte di Bisagno – avvenuta meno di un mese dopo – forse anche per non turbarne la memoria. Perché Gastaldi non è stato un “eroe contro”.
Ne parlano invece diversi altri studi, tra cui quelli di Pier Lorenzo Stagno-Elvezio Massai, Bisagno: la vita, la morte, il mistero (Ed. Le mani, Recco 2004) e la prima parte del volume di Luciano Garibaldi, I giusti del 25 aprile (Ares, Milano 2005) che riporta anche un’importante intervista di Riccardo Caniato a Dino Lunetti, cugino e partigiano agli ordini di Bisagno (pp. 39-61).
Aldo Gastaldi, uomo di profonda fede, fu comandante di una Divisione “garibaldina”. Cosa non tanto anomala come potrebbe sembrare. Il comandante della Sesta Zona era Victor Ukmar, nome di battaglia “Miro”, direttamente gestito dal Partito comunista e, attraverso di questo, da Mosca. Ben presto nei vari distaccamenti arrivarono i commissari politici. Ma di fronte alla martellante propaganda di un solo partito, Bisagno si ribella. E scrive ai suoi: «Noi non abbiamo un partito, noi non lottiamo per avere domani un “cadreghino”. Vogliamo bene alle nostre case, vogliamo bene al nostro suolo e non vogliamo che questo sia calpestato dallo straniero. Questo è quanto noi vogliamo oggi. Domani, quando lo straniero sarà uscito dai confini, parleremo d’altro. Io mi impegnerò più che mai al fine di rimediare radicalmente a ogni screzio. […] Dobbiamo agire con la massima giustizia e liberi da prevenzioni» (p. 66). Il cugino Lunetti ben ricorda il suo turbamento per l’intrusione della politica e come abbia impiegato tutte le sue energie per l’unità nella lotta partigiana. Questo, per “Miro” e i suoi, era intollerabile e Bisagno venne progressivamente emarginato. Gastaldi ne aveva piena coscienza, ma non era disposto a cedere. Lunetti racconta: «Gli raccomandai: “Aldo, per carità, stai attento, ti vogliono fare la pelle”. Lui, calmo come al solito, rispose: “Finché siamo sui monti non ho nulla da temere. Qui hanno ancora bisogno di me. Una volta in città, sarà diverso». Al termine della guerra Bisagno fu, in effetti, uno degli ultimi a scendere in città, profondamente disgustato dai quotidiani “regolamenti di conti” nei confronti di ex fascisti o bollati come tali.
Aveva promesso agli alpini del “Vestone” – quasi tutti della zona del Garda – che li avrebbe personalmente riportati a casa e avrebbe garantito per loro davanti a chi li avrebbe potuti accusare di essere stati repubblichini. Firmati i fogli di smobilitazione, parte il 19 maggio e in due giorni riporta a casa tutti. Il 21 maggio, ormai sulla via del ritorno, avviene un misterioso incidente automobilistico e Bisagno muore poco dopo, all’ospedale di Desenzano del Garda. Luciano Garibaldi mette in luce tutte le contraddizioni delle testimonianze, oltre al fatto che non fu mai eseguita un’autopsia sul cadavere. A Genova quasi nessuno credette, già allora, alla versione ufficiale e si parlò insistentemente di avvelenamento. In ogni caso la sua salma – riportata in città – fu esposta e per due giorni quasi tutta la città sfilò per rendergli omaggio. Dal 2005 il corpo riposa nel Pantheon del cimitero di Staglieno.
A settantacinque anni di distanza il suo nome e la sua memoria sono più vivi che mai, tanto che nel 2019 l’arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco ha dato solennemente avvio al processo di beatificazione del “primo partigiano d’Italia”. Dalle oltre 200 lettere ai genitori (nel libro di Elena Bono vengono pubblicati alcuni stralci) emerge limpidamente un cristianesimo profondamente interiorizzato come cosciente motore delle sue azioni. Che si rivelava all’esterno – oltre che dal suo comportamento – proprio nel suo sguardo, cui quasi tutte le testimonianze dei suoi uomini fanno riferimento. Quello sguardo Elena Bono vide una volta e il suo talento di penetrazione degli animi non glielo fece più scordare.