Giorni fa ascoltavo un videomessaggio di Renzo Piano rivolto alle nuove generazioni. Diceva più o meno così: noi “vecchi” non vi abbiamo lasciato un bel mondo, ora tocca a voi costruirne uno migliore. Sono due giorni che mi chiedo se caricare una generazione di una tale enorme responsabilità non equivalga a chiedergli di rattoppare i nostri fallimenti.

I media tirano in ballo i giovani solo per parlarne male: eccoli, gli irresponsabili, seduti sui muretti o accalcati fuori dai bar per l’aperitivo…ma sarà necessario fare l’aperitivo?

A domandarselo sono gli adulti, cioè i responsabili di tutte le catastrofi che stiamo vivendo. Quegli adulti che hanno continuato a lasciare aperte le fabbriche, perchè in quel caso andava bene mettere l’economia davanti alla salute; gli stessi adulti che gestiscono bar e locali, che fremevano per riaprire e tornare a servire i disobbedienti dello Spritz , avallati da campagne pubblicitarie strappalacrime per scongiurare la riapertura veloce.

Oggi stiamo faticosamente uscendo da una pandemia e, se è pacifico che dobbiamo ancora impegnarci, trovo infinitamente ingiusto caricare i ragazzi di colpe. Sarebbe utile ricordare come vivevano fino ad una manciata di settimane fa: scuola mal funzionante, precarietà, lavori sottopagati, nuove forme di schiavismo e diritti solo per pochi privilegiati.

Per loro si è passati dal confinamento totale alle uscite col contagocce senza tenere conto delle esigenze proprie di ogni adolescente: lo stare insieme.

Si può andare nei luoghi di lavoro ma non a scuola e nelle università. Si è potuto far visita ai parenti ma non agli amici. Si è consentito di uscire per le file al supermercato ma non per sedersi su un muretto a chiacchierare. Per non parlare dei cinema, delle biblioteche, dei parchi, dei pub, dei concerti, insomma di tutti i loro luoghi di socializzazione. Il lockdown nelle sue varie fasi è andato abbastanza bene per gli adulti ma ha penalizzato molto di più gli adolescenti, che si sono limitati a fare quello per cui vengono quotidianamente rimbrottati: stare tutto il giorno attaccati al computer.

Ora, ad ascoltare tg e talk show, sembra quasi che il nostro futuro sarà scandito da un distanziamento sociale perpetuo, e loro come reagiscono? Incontrandosi, magari proprio per confrontarsi sul futuro.

Chi la chiama irresponsabilità, rivolta, disobbedienza, dimentica che gli adolescenti sono quelli che hanno osservato il confinamento senza fiatare e senza lagnarsi ogni giorno sui social come invece abbiamo fatto noi. Si sono adeguati al confinamento, sono stati responsabili per il bene della comunità, nonostante venisse ripetuto ogni giorno che il virus non li colpisce direttamente. Ma ora è come se si sentissero di aver portato a termine il proprio dovere, di aver fatto la loro parte, e ci stanno facendo capire che se non gli concediamo un po’ di spazio se lo prenderanno da soli.

A che serve avere riaperto bar e allestito plateatici per poi appostarsi come segugi per scovare il gruppetto di quindicenni che parlano tra loro?

A cosa è servito accogliere le lagne quotidiane per riaprire i parchi per poi selezionare chi li frequenta? Bambini si, runner solitari si, anziani si…giovani no? I giovani, si sa, si muovono in branco, ma noi siamo passati dalla critica all’immunità di gregge al voler trattare gli adolescenti come mucche al pascolo da far rientrare velocemente nella stalla.

A noi grandi interessano i parrucchieri, le estetiste, i ristoranti, le seconde case, le passeggiate nei campi, la visita ai nonni? A loro la chiacchierata con gli amici. Anche perché è l’unica cosa che gli viene concessa. Finora abbiamo costruito solo il nostro orizzonte ideale, ma per un diciottenne esistono beni inquantificabili come l’amicizia, la socializzazione e l’appartenenza ad una comunità.

Noi forse ci siamo dimenticati delle proteste fatte quando gli adolescenti eravamo noi, di quel voler sempre essere contro.

Quelli nei bar e nei parchi sono gli stessi che fino a 3 mesi fa si spostavano ogni giorno schiacciati come sardine nel retro di un autobus pieno all’inverosimile, o in piedi nel vagone di un treno, per andare a scuola carichi come muli a imparare che un futuro certo non ce l’hanno.

Sono gli stessi che se non facciamo qualcosa invecchieranno nei call center da pochi spiccioli l’ora dove la gente al telefono ti risponde male. Sono i riders che pedalano pericolosamente nelle città inquinate per consegnarci le pizze. Sono quelli dei miseri contratti a chiamata che poi non ti chiamano mai, ma che quando stanno a casa perché lavoro non ce n’è diventano dei bamboccioni viziati. É a loro che, ad ogni crisi, arriva puntuale la minaccia di venire mandati a lavorare nei campi di pomodoro, che solo così impari cos’è il sacrificio.

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I giovani ci guardano. Giorni fa una ragazza rapita è tornata a casa e noi grandi, i politici, i responsabili dell’informazione, tutti quanti, siamo riusciti a sporcare quella notizia perché l’unica cosa nella quale siamo tutti d’accordo è litigare, ecco gli esempi che gli stiamo dando.

Ogni anno assistiamo impotenti alla partenza costante e silenziosa di migliaia di ragazzi, disposti a spostarsi dall’Italia o altrove nel mondo pur di conquistarsi un passaporto per il futuro in cambio della propria autonomia. Ne lasciamo altri sommersi tra apatia e depressione, schiacciati da un grosso punto di domanda sul loro domani. E loro, pur essendo cresciuti in un mondo digitalizzato che ha quasi azzerato i rapporti sociali, nonostante tutto non ci vogliono rinunciare.

Il Covid19, oltre ai fotografi col grandangolo rei di spacciare quel tanto di terrorismo mediatico quotidiano che ci costringa a uscire meno, ci manda anche gli assistenti civici, come se le mobilitazioni fossero necessarie solo per punire: dov’erano i controllori nei parchi dello spaccio dove i ragazzi muoiono? Perchè non c’erano nelle vie dove le ragazze non si sentono al sicuro di sera? Come mai non li hanno dispiegati nelle periferie pericolose, o fuori dai locali che servono alcolici a tutto spiano, e potrei continuare.

Il mondo post pandemia gli viene dipinto come un futuro ancora più incerto di prima, dal quale dovranno sottrarre l’inutile. E sia. Purchè non pretendiamo di essere sempre noi adulti a decidere quale sia la linea che separa il loro utile dall’inutile, perché per loro, forse, l’inutile è il nostro parrucchiere. Con la loro rivolta silenziosa, fatta senza sbraitare, i giovani ci stanno comunicando, basta saper cogliere il loro messaggio, nella sua spudorata evidenza.

(di Agatha Orrico)