Nella prefazione a questa raccolta di poesie, Gabriele Scaramuzza scrive con sicurezza che «la poesia è la vocazione più autentica della vita di Tiziana Altea» (p. 5). Cosa che, conoscendola, mi sento di sottoscrivere integralmente.

Sapendo il pudore di Tiziana – di tanto maggior valore in un mondo dove sembra conti solo l’apparire – desta sorpresa la pubblicazione, finalmente, della sua prima raccolta poetica [Tiziana Altea, Mappe, collana “Interno Libri” n° 36, Interno Poesia Editore, Latiano (BR) 2019, pp. 98, € 11,00, ISBN: 978-88-85583-31-3]: 68 poesie selezionate tra quelle scritte nel decennio appena trascorso.

Se proprio è necessario individuare delle linee principali, mi sembrano tre: l’impegno civile, l’amore e la natura vissuta con spiccata sensibilità. Ma la prima di queste linee è quella che predomina e riassume in sé le altre; con la tipica (e benedetta) concretezza femminile, Tiziana non cede alla tentazione di uno sguardo ideologico ma si carica dell’altro nella sua concretezza storica.

Ho pensato opportuno – più che azzardare una mia, quasi sicuramente imprecisa, sintesi – dare spazio a un dialogo con l’autrice.

In questi tuoi versi con frequenza emerge il dolore per l’ingiustizia e la sofferenza da essa generata, il tuo sconcerto al vedere «negato di continuo il nostro umano» (p. 20), il desiderio di capire come è possibile che il cuore umano si chiuda: «e si affollano sconcertate/ le domande» (p. 23).

I primi versi che citi sono da Roma amor, lirica che ho dedicato a Maricica Hahaianu, infermiera romena morta nell’ottobre 2010, dopo una settimana di coma, per il pugno infertole, causa diverbio, da un giovane ventenne romano alla stazione della metropolitana Anagnina, a Roma. Le prime lettere di ogni verso formano un acrostico: “indifferenza”. Quella mostrata dai passanti verso la donna tramortita a terra. Quella che bisogna trasformare con tutti i mezzi a disposizione per aprire l’umanità all’umano, in senso politico: solidarietà, rispetto, accoglienza, tutela, dignità delle persone, educazione emotiva, cultura sono parole, se elencate. Diventano realtà se agite, dando qualità e benessere alla vita.

Le domande che si affollano sconcertate sono quelle di fronte agli orrori della nostra storia e i campi di sterminio ne sono luoghi per eccellenza negativa. La poesia Auschwitz 2011 – Le prime parole è figlia del viaggio fatto con il Treno della Memoria di Cgil Cisl Uil Lombardia ai campi polacchi di Oświęcim. Gennaio 2011 è stato gelido (anche a scapito di alcuni vagoni del nostro treno), ma non è stato quello a gelare me e compagne e compagni di viaggio: è stato vedere con i nostri occhi le geometrie del massacro pianificato, la sua organizzazione. Il campo di Auschwitz è stato per me straniante, quello vicino di Birkenau poi… ricordo addosso l’angoscia che mi prese, non volevo scendere dal pullman. Da quell’esperienza indimenticabile si torna con un obbligo che scuote dentro: raccontare, far sapere, pungolare le coscienze. Oltre che con la sensazione di poter affrontare il proprio quotidiano più agevolmente: di fronte a tanta sofferenza, i propri problemi vengono ridimensionati. Anche per questo ti ringrazio molto per questa intervista, hai rinnovato in me un momento prezioso.

Ancora, voglio sottolineare che il gelo di Auschwitz non ha potuto gelare il cuore: in tante e tanti abbiamo pianto. In questo senso il dolore è segno di speranza: è compassione o rabbia, o entrambe. Il contrario dell’indifferenza.

«Lasciarsi abitare. Per poi/ abitarlo, il dolore» (p. 69). Se questo verso non rimane solo una dichiarazione, ma trama di sé la vita quotidiana (e, conoscendoti, so che così è per te), richiede molto coraggio. Richiede la responsabilità di farsi carico, di investire le energie migliori per l’altro: «la vita è per come/ decidi di risponderle» (p. 70).

Assumersi la responsabilità della propria vita è il primo passo per capire come si vuole e si può risponderle. Sì, ci vuole coraggio e a volte può essere durissima. Il dolore non va respinto ma accolto. Certo, ognuno può avere le proprie personali forme per farlo e se non lo avete ancora provato, cercatele! Non rinchiudersi poi nella propria esclusiva dimensione ma dedicarsi agli altri dà senso alla vita ed è anche un modo per guardare le proprie fragilità, accettarle, provare a farvi fronte.

Viceversa, non siamo soli, questa è una buona notizia. Aiuto, amicizia, amore ci sono. Siamo parti di un tutto che pulsa. Ascoltatevi cuore.

Oltre all’agire concreto, conferisci una grande responsabilità alla parola: «In-canto/ parole/ a soffiar via/ il velo» (p. 12). O, ancora: «E soli insieme siamo fiaccole/ che ora devono dire» (p. 23). Come agisce la poesia a ridonare umanità?

Le parole creano mondi. Le parole possono essere pietre, possono infangare, uccidere. Possono far tornare a credere nella vita. Possono occultare o svelare. Riportare giustizia e verità. La poesia tocca l’umano nella sua complessità, nelle sue luci e ombre, nelle sue debolezze e miserie e nella sua nobiltà e intelligenza. La domanda che poni è immensa. Inizio a risponderti così: io provo con la poesia a fare denuncia, a scuotere, a far pensare e insieme a dare fiducia e speranza. Io provo con la poesia a tradurre un’emozione individuale perché venga condivisa. Un comune sentire può farsi leva, ad esempio, per lottare contro le ingiustizie. Partecipare la gioia è energia di bene, entusiasmo.

C’è una percezione dell’umanità e della sua violazione che, senza smettere di essere razionale può essere (dovrebbe essere) intima, profonda, direi “viscerale”. In questo la donna – per il suo stesso modo di essere – è più penetrante dell’uomo. Aspetto che torna spesso nei tuoi versi: «Con la conchiglia all’orecchio,/ nella mia pancia di donna,/ non echi sento/ ma gelido/ orrore –» (p. 35); «il mare infuria/ nella mia stanza –» (p. 62); o, ancora: «Pensare con le mani» (p. 66). Se questo nostro mondo non muore è per qualcuno di più alto della nostra umanità; e anche perché almeno pochi continuano a custodire la compassione. Quale il ruolo della donna oggi?

A questa domanda potrei risponderti con: Dio è donna. Ogni donna potenzialmente, fisicamente, è generatrice. Per generare deve farsi campo, curare, proteggere. La dimensione più propria di una donna è quella relazionale. Gli uomini lo sanno e nei secoli ne hanno approfittato sbilanciando a proprio favore un rapporto che dovrebbe essere paritario. In un mondo patriarcale non è facile essere donna e lo mostrano per prime quelle donne che assumono schemi mentali e comportamenti maschili. Evito in questa sede di parlare di discriminazioni – a tutti i livelli da sanare – per sottolineare che forse il ruolo che una donna dovrebbe avere oggi è quello di essere valorizzata e compresa in quanto tale. A partire da se stessa, come portatrice di una sua differenza. Non parlerei, quindi, di ruolo, ma più specificamente di sostanza: non di cosa deve o dovrebbe fare una donna ma di come può farlo per quelle che sono le sue caratteristiche e avendo pari opportunità. Rivendicando autodeterminazione e l’intelligenza della sensibilità.

Parlando a un uomo violento, affermi: «C’è un po’ di terra/ sulla luna/ e pure nei tuoi occhi/ in cui a vita/ resterà/ un po’ della madre/ di cui hai bevuto/ linfa e amore» (p. 43). Che è come proclamare la possibilità che l’amore torni a farsi spazio anche in un cuore inaridito, proprio grazie all’amore che un giorno ricevette.

Un bambino non nasce violento; lo diventa, più spesso, da adulto. Un bambino amato, che ha come esempio l’amore, non è violento, conosce un altro linguaggio. L’amore è fertile e rende fertili. Il punto è che tutto è interconnesso e va interconnesso: individuo, famiglie, scuola, lavoro, società, istituzioni. Tutto deve essere indirizzato all’amore – uso il termine nell’accezione umanamente, spiritualmente e politicamente più ampia possibile –: la persona è il fine ma deve essere anche il mezzo. Perché se il mezzo è umano – dando, anche qui, la più alta dignità alla parola – il risultato sarà a misura dell’umanità. Anche in questo senso va letta la poesia C’è un po’ di terra, insieme al valore imprescindibile della madre da cui veniamo e che ci resta nel sangue.

La violenza sulle donne è da sconfiggere come male umano.

L’amore e la compassione che reagiscono alla chiusura e alla violenza (il senso di umanità, insomma) sono un atto di libertà. Il più grande. Tra i tuoi testi tornano a più riprese quelli dedicati al 25 aprile, «Perché il domani/ viva libero» (p. 32). Al di là dell’ovvio riferimento storico, cosa rappresenta per te questa data?

L’amore è libertà. Essere davvero liberi e amare davvero non sono atti semplici: implicano una costante messa in discussione di sé e consapevolezza, rispetto profondo dell’altro, coraggio, desiderio e non bisogno, indipendenza, equità, spirito critico, generosità, partecipazione, fiducia. Il 25 aprile per me sta in queste voci, è liberazione: partendo dal riferimento storico, in quanto tale imprescindibile, diventa metafora di vittoria sulle oppressioni, siano esterne o siano indotte, interiorizzate: da violenze e soprusi a lacci mentali e affanni. Riscatto delle ferite, rinascita dalle cicatrici.

 

Un’ultima osservazione. Questi non sono i versi di un’esordiente. Hanno in sé una maturità stilistica e umana; e l’urgenza di fare la propria parte perché il mondo non muoia. La loro cifra mi pare sia ben riassunta nella terz’ultima lirica, intitolata non a caso Fiducia (p. 89):

«Mi maledirei per questo cuore /se non fosse sempre/ una benedizione l’amore.

Passare oltre, mi dici Efraim./ È che io passo attraverso».