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Questa breve raccolta di testi (Sette poeti rumeni, gratuitamente disponibile qui in vari formati da scegliere nella colonna di destra; qui il pdf) non pretende in alcun modo di rappresentare un quadro esauriente ed oggettivo della poesia rumena contemporanea.
Essa è e vuole essere, semplicemente, una testimonianza del tutto soggettiva, da parte del curatore, di letture, predilezioni, in alcuni casi di incontri intellettuali veicolati da occasioni e canali diversi; e, volutamente, trascende ‒ nella peculiare diacronia acronica, o sincronica, dei fatti letterari, che vedono spesso accostarsi, sovrapporsi e intrecciarsi, nello stesso punto del tempo, della testualità o del mondo editoriale, autori disparatissimi per sensibilità, storia, anagrafe ‒ ogni divisione di generazioni, scuole, movimenti veri o presunti.
Volutamente, ad alcuni autori ormai classici, ad altri giovani ma in certo modo già consacrati, già portati alla ribalta della grande editoria (in un panorama editoriale infinitamente più attento del nostro ai fermenti della poesia e della sua costante ricerca espressiva, e alle nuove voci in cui essi trovano risonanza), si accostano poeti che hanno per decenni coltivato e meditato la propria Musa assorta, sommessa e levigata lontano dai grandi centri e dalle grandi realtà, in una marginalità e in una provincialità che sono divenute punto di forza, difesa dalle mode, dalle correnti, dalle innovazioni spesso irrigidite in imperativi e in stereotipi, spazio e respiro di autenticità e di autonomia.
Nel complesso, sembrano essersi prolungate, nella poesia romena degli ultimi decenni, come una vibrante onda lunga che si spinge fino alle rive dell’oggi, una peculiare, mossa e tesa, dialettica, una contaminata e contaminante interpenetrazione di moderno e postmoderno ‒ nel senso di lirismo analogico ed evocativo, di soggettivismo esistenziale ed introspettivo, da un lato ‒ e, dall’altro, frantumazione percettiva, perdita di coordinate e riferimenti, «enumerazione caotica» di elementi difformi e codici eterogenei.
È stata proprio una delle autrici qui incluse, Magda Cârneci, a caratterizzare, come studiosa, la modernità quale una persistente «fertile ossessione» che ‒ in un «ritmo storico» aperto, ricorsivo, più simile ad una circonferenza che a un centro ‒ dev’essere sempre «continuata, compiuta e consumata» nel momento stesso in cui viene sottoposta, postmodernamente, a critica e decostruzione.
Il cammino che, in Francia, conduce da Baudelaire a Mallarmé a Valéry (dunque dalla soggettività accesa, postromantica dei maudits all’assoluto della poésie pure), in Italia dal simbolismo dannunziano all’ʺattraversamentoʺ compiuto da Montale fino alla cristallizzazione intellettualistica degli ermetici, e poi alle espansioni oniriche e visionarie del neo-orfismo, trova forse, in Romania, un parallelo, un riflesso e un riverbero nella linea che va dalle atmosfere cupe e allucinate di Bacovia alla matematica e cesellata perfezione di Barbu agli allucinati straniamenti ‒ naturali e insieme, diremmo con Baudelaire, surnaturali ‒ di Nichita Stănescu.
Antecedenti e suggestioni, questi, più o meno diretti e prossimi, che nella migliore poesia romena degli ultimi decenni (come, del resto, in quella italiana, fra ricerca sperimentale, straniamento prosastico, suggestione evocativa fra neo-orfismo e neo-ermetismo, quotidianità quasi diaristica e rivisitazione dei grandi archetipi), trovano nuove incarnazioni e fusioni, e sprigionano nuove potenzialità espressive.
Ma, nel contempo (sebbene sia difficile, e forse anche rischioso, caratterizzare in modo univoco un’intera traduzione culturale), malgrado i tanti contrasti, svolte, fratture del divenire storico, la poesia rumena sembra essere rimasta, nel complesso (malgrado la necessaria impurità, le inevitabili contaminazioni, suggerite e quasi imposte dalla realtà odierna), fedele alla natura, aderente alla mobile immobilità, al diveniente sostrato, al ciclico reiterarsi, della vita vegetale, della luminosa evidenza che avvolge il quotidiano miracolo, il trepido «mistero in piena luce», della materia e dei fenomeni.
La poesia rumena, recente e meno recente, pare, tendenzialmente, caratterizzarsi per una peculiare e potente cifra metaforica che associa stati d’animo, situazioni esistenziali, scandagli introspettivi, riflessioni sapienziali ai fenomeni, anche minimi, organici, vegetali, ma anche disanimati e minerali, della realtà naturale.
Forse sopravvive e persiste, nella coscienza poetica rumena contemporanea, qualcosa di quello che Lucian Blaga chiamava lo «spirito mioritico»: una condizione di fluttuazione emotiva, di sinuosa oscillazione esistenziale associata, anche visivamente, al profilo sottile, imprevedibile, delicatissimo e vibrante, delle colline millenarie e feconde; uno spirito vicino, insomma, ai grandi miti della Mioriţa, della Pecorella che annuncia il suo inesorabile fato al Pastore senza che questi ‒ eroe tragico, ma disarmato e mite ‒ possa o voglia fare nulla per cercare di scongiurarlo; o di Mastro Manole, che arriva a sacrificare se stesso e il proprio amore alla creazione artistica, la vita alla forma, la realtà alla poesia ‒ dissolvendo, sacrificalmente, ogni cosa in quest’ultima.
È una poesia costantemente accompagnata (come, forse, è sempre la poesia nelle sue manifestazioni più alte e culturalmente consapevoli) dalla riflessione critica, che spesso si affianca e si sovrappone ai versi nella parabola e nel lavoro di uno stesso autore.
Si va dall’intensa adesione stilistica, ai limiti della mimesi metaforica, della saggistica di Grigurcu (secondo il quale, in Poeți români de azi, del ’79, il critico proietta sui testi la propria «ombra fatale, così come la luce è una condizione dell’occhio che vede divenuto assurdo nella propria esistenza», e la «responsabilità» della critica si fonde, anzi si identifica, con quella della poesia là dove il compito sottile e vitale dell’esegesi assume «la forma di un destino») ai saggi di Radu Vancu (basti pensare a Eminescu, trei eseuri, del 2011) con la sua «critica di identificazione» (quasi «coincidence de deux consciences», come nell’École de Genève ‒ ma senza intellettualistici o estetistici autocompiacimenti, e anzi a testimonianza di un sofferto vissuto, quasi di una tortura interiore), secondo la lezione di Lucian Raicu e della sua scrittura ermeneutica come «risonanza con il testo»; dalla complessa dialettica di evento e testimonianza, sostrato storico e discorso intellettuale, fatto ed espressione (secondo una tensione dinamica che sembra tipica della cultura romena, segnata dal problema delle «forme fără fond», delle parole-idee svuotate di sostanza, rese quasi ectoplasmatiche, dalla sfasatura e dalla discrasia di una modernità recepita e riverberata, ma non assimilata e interiorizzata e metabolizzata pienamente ‒ tensione che è vissuta, con non meno viva inquietudine, da un Ibsen, un Simmel, un Pirandello), che attraversa la ricerca storica e la riflessione saggistica di Magda Cârneci, alla poetica tragica di Ana Blandiana, segnata da una sacralità quasi misterica, da una percezione (in ultimo raddolcita, come rasserenata, nei testi più recenti che qui presentiamo) del mysterium tremendum, nel solco profondissimo e dolente scavato fra la parola e l’indicibile, come fra l’umano e il divino; fino al potente sguardo metapoetico di Chris Tanasescu, che rivisita la grande concezione mallarmeana del Livre, del Libro-Mondo a cui tutto deve far capo, alla luce di una continuità, che sembra tipicamente rumena, di natura e cultura, cicli vitali, vegetali e creazione intellettuale.
E si potrà segnalare come la notevolissima poesia femminile rumena (pur tipicamente vicina ad una vitalità e ad una fecondità primigenie, vegetali, ad un ancestrale inanellarsi e susseguirsi di cicli naturali, ad un magma originario in cui si fondono profondità ed altezza, e che tende a cristallizzarsi e a consistere in forme vitali che nella loro fissità pur conservano l’iniziale impulso, il primevo aurorale respiro) sia tutt’altro che appiattita su una corporeità, un’emotività o un biografismo ingenui ed irriflessi, ma poggi, al contrario, su un sottile, spesso sofferto equilibrio di vissuto interiore e coscienza letteraria.
E allora varrà, in generale, ciò che scrive ancora Grigurcu in uno dei suoi acuminati e lucidissimi aforismi: ossia che poesia e riflessione sulla poesia sono della stessa sostanza, così come della stessa sostanza sono la vita e la morte; ché l’immediatezza, l’intensità, la fluidità ardente e magmatica della sensazione, del vissuto, della memoria trovano, nella consapevolezza critica, fra scrittura saggistica e scrittura poetica, una forma, una consistenza, un compimento ‒ e insieme l’abbraccio chiarissimo e raggelante della consapevolezza che nasce dal dolore ‒ del mathos in cui, tragicamente, si trasfonde la ferita aperta, perdurante e pulsante, del pathos.
Del resto, anche se i testi qui riportati (che in essi prevalgano l’introspezione o lo straniamento, meditazione lirica o tratti d’incisivo realismo) non contengono espliciti riferimenti storici, sociali, civili, è come se il contesto storico e civile della Romania post-comunista (questo quarto di secolo di «dolorosa libertà», come la chiama Ana Blandiana nel suo recentissimo Istoria ca viitor, Storia come futuro, testimonianza umana, intellettuale e poetica di consapevolezza e rilevanza assolute ‒ una libertà che è stata anche foriera di postmoderno e globalizzato smarrimento, e da cui, spesso, secondo una feroce e ricorsiva legge della storia, «il Male ha tratto profitto più del Bene») vibrasse e si riverberasse, dietro di essi, come da remote quinte, come in un sottofondo soffocato e mormorante, eppure sottilmente percettibile.
E, forse, in questa ritrovata, caotica libertà che rischia di essere, per identità, valori, consapevolezza, equilibri, non meno insidiosa della sua limitazione, può perdurare ‒ salutare stavolta ‒ quella sapiente autodisciplina, tra parola e silenzio, tra dire e non dire, che negli anni dell’oppressione aveva costretto il poeta a divenire spesso ‒ dice ancora la Blandiana ‒ «autore dei propri silenzi».
Poeta cosciente che la Parola, nel suo tendere alla necessità, all’assolutezza, all’essenzialità, nel suo ostinato rimuovere e scuotere via da sé l’accidentale, l’esteriore, il transitorio, l’impuro, danza costantemente sul solco sottilissimo che divide l’esistente dall’inesistente, la forma dal vuoto, e vive proprio della sua sublime e potentissima fragilità, della sua apparente, e preziosissima, marginalità ‒ quasi del suo doloroso ed operoso esilio.