l’ultima voce di un uomo insanguinò il vento
tutti gli angeli persero la vita
fuorché uno con le ali mozze
Rafael Alberti, Degli angeli
Siete voi angeli
che persuadete l’uomo a diventare sogno,
che spingete l’uomo verso l’amore
Alda Merini, Magnificat
Poesia d’intelletto in forma di romanzo in versi, eminentemente meditativa, quella di Massimo Scrignòli, espressione e occasione di conoscenza che coagulano l’anima, il sentire, l’amore e persino il «trasumanar», lo sguardo metafisico verticale che trae l’uomo dalle cure terrene durante il suo indecifrabile cammino nel mondo.
«Per vivere, occorre morire a se stessi» (ultima lettera di Van Gogh da Londra al fratello Theo): quasi un aforisma che si traduce nel poemetto dell’autore in una domanda reiterata all’esistere, all’attraversamento, costante e necessario, del linguaggio della vita, le cui lettere compitano, inesorabile ricerca e non esperienza estetica, il modo di spiegarsi in parole e di tradursi in musica e riflessione: «Lo ben che fa contenta questa corte | Alfa e Omega è di quanta scrittura | mi legge Amore o lievemente o forte», scrive Dante nel Paradiso (XXVI v16-18).
Non ferisce gli occhi dell’autore un sole montaliano, illumina invece e cerca anche nella notte di codificare l’inesprimibile della «parola seconda», come suggeriva Roland Barthes. Una parola «altra», «esatta», sottratta all’usura e al logoramento, nonché alla mistificazione, della consuetudine del linguaggio ordinario. Da subito «la vista sull’angelo» mi è sembrata coincidere con lo sguardo dell’autore, angelo egli stesso, tremula palpitazione cromatica sull’insondabile frontiera panteistica dell’anima: «vaghi angeli color malva | spegnevano le verdi stelle», scriveva Jimenez.
E in questo testo, non percepisco precisamente cosa, ma qualcosa accade tra lettore ed autore, si avverte un incontro desiderato, una convergenza di sintonie, il respiro di un cosmo che si espande all’ascolto di pulsioni sollecitate, evocate, invocate dal poeta, il quale, senza sovraccaricare la parola di significati aggiunti e sottoporla a una ampia dilatazione semantica, ma con modalità insieme serene e doloranti, e al contempo lontane dall’accettazione della sconfitta esistenziale, si fa traghettatore di anime sulle acque del suo fiume, che si apre a delta amplissimo ed accogliente per dischiudere la musica «dove la parola non si spegne». E per adombrare con dolce nostalgia il suo programma poetico: «ma i miei fiumi hanno scelto | la clausura delle mareggiate, hanno | condiviso i misteri impazienti di Orfeo | e tutta questa libertà inquieta dove | il pane è una luce verticale».
L’angelo trasmuta l’emotività, il fluire dei sentimenti in una enigmatica sostanza dell’anima, controlla la follia e ogni sconfinamento, il perdersi nel vuoto di senso, creatura non spaziale argina lo spazio ed impedisce il tracimare dei fiumi, le mareggiate, gli sconquassi. Scaldato, e illuminato dalla luce verticale, il pane che ne diviene soggetto concreto e figura sostanziale sembra invertire il simbolo come in correlativo oggettivo, questo sì, di montaliana memoria, efficacissimo a designare la intima essenza delle cose, la loro luce, il rito, e la preghiera.
È alta la tonalità del salmo che si irradia da questi versi, alla lettura dei quali la sacralità del vivere e la presenza dell’angelo costituiscono quanto mai dovremmo dimenticare; e forse, non a caso, i versi tornano più volte nel poemetto, in significative ripetizioni, come canti di chiesa, ricorsività sacrali, deserti, fiumi, mari. Le immagini ricorrenti costituiscono una sosta espressa in una musicalità che si fa attimo di eternità sospesa e silenziosa, istante che abbraccia e comprende il tempo nel suo fluire incessante, incremento sostanziale prima di ripartire e pausa di condivisione.
E rinasce ogni volta, ogni giorno, ogni ora, la vista sull’angelo, fino a delinearsi quasi quale figura archetipica del mondo, origine e durata di esso, proprio nel suo formarsi dalla terra verso un tempo cronologicamente non connotato, circolare, dove l’attimo costituisce un varco allo scorrer via del tempo: «da mille anni l’albero delle pagode | osserva l’Angelo seduto sul silenzio | abbracciato alle ginocchia, arenato | nel segreto delle sue ali | ma quali sono i limiti di un segreto? | Né ombra né inverno. Forse soltanto | l’alfabeto infedele perduto | a nord, un soffio antico | dolce trasumanar della vista | su questa terribile felicità». È forse la parola a rivelarsi infedele compagna se non educata ed accudita? È l’abbandonarsi alla sua essenza fino al segreto che forse, non conosce neanche l’angelo? Ma il segreto resta il privilegio da custodire e da non rivelare, sogno-reale che ci avventura alla ricerca «come rondine illusa | fruga tra le rose di sasso | la verità nascosta agli uomini»?
Qualsiasi luogo si dilata in spazio esistenziale, stilizzazione di moti interiori: «Ho visto la malattia di un grande | albero di clausura che da secoli fiorisce | tra i muri muti dentro la città […] Tutto quello che resta è poco | è un impronta antica ma ancora calda | sopra l’erba di radici: forse | un pensiero di Dio, un largo istante | fatale a chi ritorna qui | dove noi | non possiamo rimanere». Non è concessa la sosta, ma inflessibile resta la speranza della permanenza di un dio pietoso anche se congetturale, che sollevi le angosce, il dolore, la stessa morte dai limiti del nostro io, che rimandi al cuore la memoria, che cancelli la dimenticanza, che permetta la coscienza di quanto terribile sia il sublime nel suo postulare l’umana tensione in un’ipotesi di ricerca e, di conseguenza, quanta passione, patimento e salvezza dolorosa comporti la scelta dello sguardo sull’angelo.
Lo stile di Scrignòli, ricco di varianti e di ritorni, modulato in versi quasi ermetici che coesistono con spazialità atemporali anche nella stessa composizione, diventa voce recitante di uno spettacolo della vita in cui il poeta-attore dispare e rinasce ad ogni pagina in un confine labilissimo tra realtà e sogno, apparizioni fugaci, spiritualizzazione e profezia, in una orchestrazione che trova voce altissima a Toblach. Lì giungerà «la Cherubina del vuoto» a fermare le note di Mahler «nell’estremo finale incompiuto | ad alzarsi in compagnia dell’Angelo | verso l’ultimo burlesco rifugio | della vita». Il mondo raccoglierà il suono della sua voce, i suoi capelli saranno chiome di faggi e la morte non lo rapirà al tempo, perché il sublime non si perde, si trasforma per chi vorrà coglierlo e sentirne il suono, magari darà «la via di fuga | per un tordo | inseguito da un falco pescatore | o dal richiamo di un messaggero innocente».
Quasi visibilmente Mahler risuona negli articolati versi di Scrignòli: in essi si concertano come indissolubili suono e parole. Forse le parole costituiscono un dono per l’angelo perché permanga, strappi il cielo e lo porti a terra. Anche l’immagine di copertina, il cui autore fu contemporaneo di Mahler, si fa unito corpo alle parole e alla musica e riproduce un particolare dell’originale. Emblematica ed inquietante, la Cherubina risalta la sublimità della fine, inquadrata in una cornice viola, colore di tramonti e di dissolvimento, molto amato dal nostro poeta, e insieme all’albero delle pagode diventa simbolo dello slancio verso la vita e tentata conoscenza, contro la maschera della caducità.
Patrizia Garofalo
ottobre 2009