Sulla BrecciaÈ il romanzo d’esordio dell’autrice che nel 1999 vinse il premio Teramo.
La storia si svolge «in una cittadina antica che aderiva come una cuffia alla cima di una collina tondeggiante.» Siamo nella provincia di Teramo, dove la Falconi è nata nel 1963.
Silvia Mancini appartiene a quella gioventù annoiata che non ha ancora avvertito il proprio destino. I genitori sono riusciti a farle prendere il diploma magistrale e stanno trafficando per trovarle un lavoro. La ragazza trascorre il suo tempo passeggiando con l’amica Cinzia, una che non si fa mancare i suoi amorucci estemporanei. Rimprovera a Silvia di non fare altrettanto.
Un rapporto analogo si ripete tra Marco e Angelo, il primo impiegato da poco nell’ASL, il secondo appena laureato in medicina e praticante come guardia medica. Angelo ha perduto la fidanzata Rirì investita da un’auto pirata e ancora non è pronto ad affrontare un nuovo amore.
Dietro l’angolo del loro destino li attende l’incontro con le due ragazze, un incontro fatale.
L’autrice ha una scrittura piacevole e disinvolta che a tratti ricorda quella della scrittrice lucchese Francesca Duranti. Lo stesso brio saporoso che fa trasparire ogni tanto qualche malizia.
Silvia, che avrebbe voluto sposare Angelo e invece sposa Marco, è schiava di questo errore e la sua vita si consuma tra delusione e noia. La sua è una esistenza contaminata e repressa, rappresentativa di una condizione abbastanza diffusa anche ai nostri giorni, in cui la fretta di sentirsi emancipati e liberi impedisce una analisi attenta dei propri sentimenti. Un tempo, la scelta del proprio partner era preclusa ai diretti interessati da una tradizione che impegnava i futuri sposi sin da bambini in forza di una decisione che spettava soltanto ai genitori. Non si aveva la possibilità di manifestare i propri sentimenti e si andava incontro ad un destino desolato. Oggi che si potrebbe evitare l’infelicità coniugale, la si provoca con la smania di una emancipazione ricercata con dissennatezza e a qualunque costo.
Così, per tutta la vita, come accade a Silvia, si è rosi dal rimorso e si vagheggia una via d’uscita che ci riserbi un po’ di felicità: «Presto qualcosa sarebbe accaduto.» È questo il tema principale del romanzo. L’attesa di un dono che non può non esserci riservato, un dono rischioso, a cui abbiamo diritto soprattutto nella sventura. Il problema sarà, caso mai, non perdere la testa e cadere in un nuovo precipizio.
Il dono, dunque, come possibile trabocchetto, come ulteriore prova della nostra insufficienza a trattenere la felicità.
Il linguaggio dell’autrice si fa duro, scarnifica la sofferenza, frusta l’indecisione e lo smarrimento. Angelo non ha il coraggio di andare avanti in un rapporto d’amore qual è quello anelato da Silvia. Silvia avverte la solitudine e il pericolo della disperazione. Si lascia andare, si dà ad altri uomini tradendo il marito e Angelo: «Era convinta di non meritare niente di meglio». Sente tuttavia che può ancora farcela ad afferrare un po’ di quella felicità che le spetta. Ma come? Scrive l’autrice: «In un giorno la vita di Silvia si impennò e virò bruscamente. Come spesso accade quando un nuovo destino ci assale, il mutamento arrivò da dove nessuno se lo aspettava.»
Si passa attraverso delle vere e proprie disintegrazioni perfino allucinatorie, come se il mutamento del proprio destino non possa nascere che da una deflagrazione la quale faccia tabula rasa del passato confondendo per un istante morte e vita, e mettendoci alla prova di una scelta che non può fallire, poiché sarà l’ultima e definitiva. Silvia e Angelo sono così il simbolo di una infelicità prodotta dalla mancanza di coraggio, che può essere risolta solo a costo di una lacerazione che, liberando noi, va però ad abbattersi sugli altri.

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