Di Laure K. Phoenix, scrittrice francese, ho già presentato altrove l’opera poetica e teatrale. Traduco ora alcuni brevi passaggi del suo primo romanzo, Blondes, edito da L’Harmattan alla fine del 2013.

Anche nel romanzo, la scrittura dell’autrice ha quella stessa essenzialità venata di poesia, quella stessa secchezza punteggiata di silenzi evocatori, di enigmi suggeriti e sfiorati, di sentimenti e sensi taciuti e intuìti, che contraddistinguono il suo teatro e i suoi versi.

Viene in mente l’école du regard per la scrittura rapidissima, a schegge, frammenti, inquadrature cangianti, che quasi mimano i tratti del pennello o il susseguirsi dei fotogrammi cinematografici.

E certo uno dei possibili nomi che si potrebbero fare (anche per il legame fra scrittura narrativa e rappresentazione teatrale, e per l’idea della sofferenza e della morte che si mescolano, come per unità degli opposti, al piacere nella passione amorosa) è quello di Marguerite Duras, ad esempio quella di Les yeux blues cheveux noirs.

I personaggi, come in quelle pagine, si spingono fino «all’estremo limite del mondo là dove i destini svaniscono, dove non sono più sentiti come personali e neppure forse umani». Eppure, sulla scena del testo narrativo (non rappresentata, né presupposta, non implicita nello statuto della scrittura, ma piuttosto evocata e suggerita alla mente del lettore dal tessuto stesso, e dallo sguardo, del discorso, come tratteggiata e descritta e illuminata dalla voce fuori campo della narrazione), sembra infine affacciarsi, inattesa, la speranza di una nuova vita: speranza che riscatta, in modo quasi disperatamente ironico, il buio della follia e la fiamma del dolore. (Matteo Veronesi)

(…)

Ti guardo, il tuo corpo sprofondato sulla sedia di legno chiaro, senza più la forza di mangiare, senza più nemmeno la forza d’amare, solo il tuo sesso eretto. Un corpo assente, fluttuante come in questo corridoio delle ombre dove sono venuta a vederti. Ombre al posto d’uomini e donne, alcune in pigiama, altre no. Pigiami blu. Sono entrata in questo corridoio una volta, una sola, avevi insistito perché io ti riaccompagnassi nella tua stanza, non volevi lasciarmi. Abbiamo in comune questa sindrome d’abbandono. Ci siamo abbandonati l’un l’altro. Dalla tua bocca socchiusa, un fiotto ininterrotto di suoni e di parole. Te li lascio sgranare uno ad uno. È sempre stato così. Per ore intere, non mi ascolti se non di rado. Io sono il ricettacolo della tua parola e dei tuoi mali.

Non vedi più il tuo dottore da sei mesi, segui una cura, niente più soldi, cento euro a seduta, non viviamo più insieme, a tratti, più o meno. Tutti questi anni non mi hanno insegnato a tacere. Sarebbe stato meglio. Non si scende a patti con la follia. Si impara.

(…)

Sei così bello nel sole della Spagna, il viso pieno, luminoso, i tuoi occhi verdi, sottili, di un verde così pallido, quasi trasparente. Nell’acqua dolce, il tempo radioso. Sono felice.

Non ami il rumore, ancor meno la folla, fuggi il mondo come fuggi la vita. Ti ritiri in te stesso, dove non so, non posso raggiungerti. Amo il mondo, anch’io mi ritiro. L’amore è devianza.

Mi sono intestardita. Davanti a me, l’impossibile. Non sei guarito, né guarirai. Mi piego ma non mi spezzo.

Faccio del tuo corpo un deserto.

(…)

Non so più cosa mi unisca a te. Non conosco nulla di questo legame potente e immemoriale. Mi riduce in schiavitù. Ti amo e mi annienti.

Ripenso a quei tempi felici e benedetti, bianchi come cieli d’inverno dove l’oro del sole si fa roseo, ai nostri abbracci dolci e quieti, ai nostri ventri pieni d’amore, alle tue grida di gioia, alla nostra follia, alla tua bellezza.

Dov’è fuggito tutto questo?

Avrei dato la vita perché tu potessi essere felice, perché potessimo esserlo insieme. Ti ho dato la vita. Io sono viva.

Un’ora, nel mio letto, le lenzuola sono gelide. Non ci sei più.

Non mi chiamerai più.

Hai marchiato con il tuo sangue le piastrelle verdi della cucina. Sangue sull’acqua. Vene aperte, le sei di sera, Maison-Blanche, Bichat. Tre tentativi, uno solo insieme a me, il costante ricatto. Non si può fare nulla. Nessuno. Ho firmato, per questa volta soltanto. Boulevard Ney, le due del mattino, la tua mano nella mia, un uccello. Sommersi. Cammino nella notte.

Sono divenuta il tuo peggior nemico. Viva. Insopportabile. Tu mi vuoi folle e rinchiusa. Raggiungerti in quelle zone indefinite, terra di nessuno, linea di confine, campi inariditi, infiniti, vicini, ignoti.

Mi hai tanto amato, lo so, mi vuoi felice anche con un altro uomo. «Ho fatto ciò che ho potuto». Devastazione, grido. Il dolore.

Annientata.