Incontro di nuovo molto volentieri Mario Desiati, dopo che nel 2003 avevo letto il suo romanzo “Neppure quando è notte” e successivamente, nel 2006, “Vita precaria e amore eterno”, vincitore del premio per l’impegno civile Paolo Volponi.
Martina Franca è la cittadina del Sud che ci accompagnerà nella storia: “città di trulli, vino bianco e belle fanciulle, dove anche le matte sono donne affascinanti.” È questo il caso di Annalisa D’Efebo, giovane originale e ammaliatrice: “Era sempre in mezzo ai maschi e agli ultimi, i pazzi e gli ammalati.”
C’è una località, in paese, che ha una fama lugubre, Monte Oro, costituito da case bianche. Lassù le spose infelici, che non vogliono sposarsi, condannate dalla famiglia a farlo con uomini sgraditi, si gettano nel baratro suicidandosi: “si buttavano per non andare incontro ai loro destini nuziali e preconfezionati.”
Desiati, attraverso il protagonista narrante Francesco Rasoschi, detto Veleno, scorre i suoi ricordi, ci presenta con dolente nostalgia i personaggi della sua adolescenza, che sono gli stessi che circondano le infanzie di tutti noi. Le monellerie, le farse, le liti, le comicità, le burle uniscono nella stessa tonalità e negli stessi colori le infanzie di tutto il mondo.Ma ogni tanto compare la luce singolare e fascinosa di Annalisa, che dà allo scorrere monotono del tempo un guizzo fantasioso, accende suggestioni, sogni e speranze. Annalisa compare ogni volta che la malinconia sembra intraprendere una strada senza via d’uscita, nel momento in cui lo smarrimento ci inoltra nel buio di una maledizione; illumina d’un tratto il percorso della solitudine e con una selvaggia ed esplosiva liberazione rende visibili, anche se solo per un istante, le nostre aspirazioni e le nostre fantasie. Annalisa ha il volto della bellezza corruttrice (“un angelo sterminatore”), patinata dal vizio della turpitudine e della follia. Il contatto con lei risuona di una vibrazione torbida e rivelatrice, che incarna le dolorose ambiguità dei sogni, le sensazioni e i sentimenti del degrado e del desiderio. Sapremo poi che tutto ciò nasce da una lontana disperazione. Al personaggio l’autore dedicherà pagine molto belle, come quella che la vede giocare sulla sabbia prima dell’incontro con due bruti.
Ogni qualvolta che Annalisa è assente o all’improvviso sparisce dai nostri occhi, l’esistenzasi disperde oltre confini incontrollabili e indefiniti.
Taranto, ammorbata dai fumi tossici dell’Italsider (“mostro di ferro, paccottiglia e carbone la uccideva e la manteneva.”), la politica chiassosa e inconcludente (sono gli anni del sindaco Giancarlo Cito), ne prendono il posto e si distende, allora, sotto i nostri occhi tutta la potenza di una disgregazione che, complice la passività indotta dalla miseria, non risparmia nessuno, né i giovani, distrutti dalla droga, né gli anziani, consumati dagli altiforni e ridotti a scheletri, storditi e umiliati.
I ricordi dell’autore tracciano vite spente, desolate. Un vento di smemoratezza e di follia sembra impadronirsi di esse. La vocazione del Sud, scrive Desiati, “è decisamente tragica”. Ma a Martina Franca lo è ancora di più, con quella vecchia storia delle spose infelici che si gettano dalla rupe e con il ricordo di quella giovane vestita di bianco che si immerge nel Taras, un fiumiciattolo di quei luoghi. Restano ad incupire l’aria le loro ombre: “Ogni estate si toglieva la vita qualche studente depresso gettandosi nei pozzi artesiani, qualche vecchio contadino intristito si legava ai rami nudi di un noce, ma le mogli infelici la facevano da padrone.”; “La notte i fantasmi di queste donne giravano per le strade deserte e bianche del borgo antico.” Solo Annalisa, quando appare, è capace, con la sua enigmatica bellezza, attraverso la sua tragica generosità, di accendere un po’ di luce. Non abbandona nessuno, si carica del dolore e della tristezza altrui come una condanna e una espiazione; chi è caduto nella polvere trova in lei una reviviscenza che porta in dono un attimo di felicità: “Ero convinto, avrei spergiurato su qualunque cosa che Annalisa si portava sulle spalle le mille anime suicide di questo territorio. E oggi so che, in un certo senso, era esattamente così.”
Annalisa è comunque una risposta alla malinconia della memoria, alla sensazione di finitudine che attraversa l’esistenza: “quando tutti i tuoi luoghi trascorsi ti sembrano meglio di quello che vivi, vuol dire che ti stanno uccidendo e tu stai trapassando.” Con lei dentro, il segmento triste della memoria cessa il suo assedio mortale alla vita, la fa di nuovo risplendere, le dà l’abbrivo che spinge a lottare ancora e a credere. Con lei, scendere nel degrado e nella depravazione equivale a risorgere: “c’era la mia depravazione, la mia distruzione. Non ci avrei mai sperato, ma forse la salvazione era il tuo, il mio, il nostro dannato degrado.”; “Annalisa, era vertiginosa, in poche mosse poteva toccare le corde più abiette o quelle più sublimi.”
Ci troviamo in un luogo, dunque, dove la perdizione è insieme morale e materiale, dove vivere richiede di adagiarsi nella follia, spremere la tristezza e la solitudine con le tenaglie dell’illusione: “in un paese in cui le spose erano infelici la volontà di illudersi era più forte di qualunque cosa, dare per un breve periodo un senso ai propri sogni, alla propria vanagloria.” Fulco Mastronunzio, il regista millantatore e sbruffone, altro non è che il simbolo in carne e ossa di questa morbosa e mortale illusione.
A poco a poco, però, lo splendore e la vitalità di Annalisa si avviano a consumarsi. La ragazza che riusciva a infondere negli altri un momento di sublime felicità e di sconvolgente irragionevolezza si sta spegnendo. Come se la breve illusione che essa ha incarnato fosse stata sconfitta e uccisa. Due illusioni diverse quelle suscitate da Fulco e Annalisa. Quella del regista è l’illusione di chi imbroglia la vita, quella di lei, della sfortunata Annalisa, è l’illusione di chi la vita la ama con tutte le sue forze (i suoi “demoni”) e vi si dona e vi si sacrifica senza limiti e senza riserve. È questa illusione che, infine, viene sconfitta e muore; essa fugge e esce dalla vita per trasferirsi nel mistero: “Annalisa risorgeva la notte e accompagnava le anime delle spose infelici per le strade antiche di via Montedoro, camminava lungo le feritoie della cinta muraria, si portava appresso le bende sacre delle piccole donne infelici di San Vito che morivano accanto ai muri in bugnato della omonima chiesa storta.”
Scomparsa Annalisa, inizia la discesa all’inferno del protagonista. Le più turpi depravazioni si impossessano di lui, che annaspa nel buio di un desiderio che non potrà più essere appagato. Annalisa è il simbolo magmatico della vita, quell’incandescente effervescenza eterogenea che, se viene meno, ci smarrisce e ci brutalizza. In Annalisa peccato e innocenza si mescolano in un unicum in forza del quale noi possiamo di nuovo sentirci i figli disubbidienti e peccatori di Eva. In lei, disperazione, vendetta e morte si fondono nella magia seducente di una bellezza tragica dentro la quale naufragare e perdersi: “Annalisa era una sposa infelice. Annalisa non era la regina delle bestie, ma la regina delle spose infelici.” Com’era possibile, ora che non c’era più, raggiungere Annalisa, tornare a vivere con lei quegli attimi brevi ma intensi di dimenticanza e di felicità? Ci riuscirà non solo Francesco, pur confuso e sconvolto dalla verità su di lei (“mi furono rigurgitate addosso le viscere arroventate della verità”), ma anche il suo grande amico scavezzacollo, finito più volte in carcere, il grande amore non contraccambiato di Annalisa, Domenico Copertino, da tutti conosciuto come Zazà, ed ora divenuto un uomo dallo “sguardo nullo”, lontano, assente. Confesserà al magistrato: “Per ogni chiodo sentivo Annalisa chiamarmi da lì dentro.”
La scrittura, sempre nitida, che ha saputo disegnare una delle figure femminili più tragiche della letteratura dei nostri tempi, raggiunge spesso la densità dei grandi narratori meridionali, coloro, ossia, che ci hanno donato i forti colori e gli afrori di una terra che ancora si nutre di vita e di morte.