Sarebbe, quella postmoderna, un’epoca segnata, per antonomasia, dalla finis historiae, dalla definitiva eclisse delle «grandi narrazioni», epiche ed onnicomprensive, se non addirittura dall’irrevocabile morte della letteratura, ormai dissolta in forme espressive ibride, contaminate, multimediali: l’epoca «liquida» dell’effimero, del transeunte, dell’evento appariscente ed ingannevole, che vanificano ogni possibilità di conoscenza e di comprensione attraverso la cultura della parola e del testo, la riflessione etica e filosofica, l’attitudine tutta umanistica al raccoglimento e alla meditazione. Come dice una poesia di Derek Walcott, l’uomo si fa incontro alla Storia, ma la Storia non lo riconosce, non gli offre più un senso e una collocazione.
Scrivere, e nello stesso tempo teorizzare con rigore, come fa Marco Marangoni rispettivamente con Aetas mirabilis (Azeta, Bologna 2007) e Nati sotto Mercurio. Gli spazi del Rinascimento nella narrativa contemporanea (Gedit, ivi 2006), un romanzo storico di ambientazione rinascimentale, sulle orme di Manuel Vazquez Montalban (ludico, illusivo e giocosamente inquietante) e di Maria Bellonci, rigorosa ed «esatta» (ma si potrebbe aggiungere Artemisia di Anna Banti, prosatrice policroma e fastosa, pittorica e insieme introspettiva), equivale dunque (a meno che non si ceda al gusto facile, esteriore e pretestuoso dei «romanzi da treno», orientati al semplice intrattenimento, sui quali l’autore ironizza) ad una sorta di laico, coraggioso atto di fede nella parola, nella cultura, nel testo, nella coscienza storica, nella consapevolezza di un passato che ci interessa e ci attrae proprio per la sua radicale estraneità, per il suo esser-altro dalla logica odierna dell’esteriore e del transitorio.
Alla fuga vorace degli istanti, al frenetico e logorante susseguirsi delle mode, la letteratura risponde con un di più di coscienza storica, di consapevolezza culturale, di ricerca stilistica. E, in questo accostare e fondere ricerca storico-critica ed avventura creativa, Marangoni si avvicina ad altri esponenti (da Roselia Irti ad Antonio Castronuovo, da Andrea Pagani, del quale andrà ricordato il recente, chiaroscurale e insieme lucidissimo, L’alfiere d’argento, a Giuseppe Mazzanti) dell’appartata ed umbratile, ma proprio per questo più libera, incondizionata, intellettualmente viva, provincia letteraria imolese.
È praticamente impossibile riassumere la trama (mobile, tortuosa, imprevedibile) di Aetas mirabilis, una sorta di spy story calata nel «Rinascimento inquieto» della Ferrara estense, sulla quale aleggia, ineffabile, lo spirito sfaccettato, versicolore ed infingevole del Manierismo; una narrazione, questa, in cui tra l’alto si inseriscono via via (ma niente affatto scontate o superflue) varie brevi narrazioni secondarie, che fanno pensare a certe pagine dell’Aretino o dell’Alberti, o magari all’Erasmo degli Adagia, tutti rivisitati con un accentuato gusto, intelligentemente e vigilatamente postmoderno, della mescolanza e dell’estro.
È significativo che tanto nel romanzo, quanto nel saggio, venga evocata l’arte enigmatica – fatta di mute allegorie, di «imprese» criptiche ed inarrivabili – di Dosso Dossi (e in particolare Mercurio e la virtù, che visualizza e spazializza il segreto, l’interdetto, l’indicibile, e allude velatamente ad un significato ulteriore, criptico, inarrivabile); e che il romanzo – gremito d’inganni, sotterfugi, raggiri, misteri, che fanno pensare ai zigzaganti intrecci di Boiardo e di Ariosto – sia tutto pervaso dall’arte versicolore, antinaturalistica e straniante, del Pontormo.
Un’arte che – come implicitamente la stessa letteratura – il potere, il Palazzo credono di poter dominare ed orientare, di poter sfruttare come strumento di raggiro, come specchio deformante o abbagliante che induca il nemico (e il popolo stesso) nell’inganno, nello smarrimento, nell’alienazione esistenziale e storica, rendendoli così più vulnerabili, più facili da controllare e da manipolare; mentre l’arte, l’artificio, con la loro astuzia estrema, con il loro sorriso sovrano e lieve, con la loro inutilità superba e aristocratica, riescono comunque a conservare la propria fragile, e forse illusoria, autonomia, a tutelare il proprio eburneo margine di libertà – a «fallere fallentes», ad «ingannare chi cerca di ingannarli», come i seduttori di Ovidio.
Si sarebbe tentati di richiamare certi scenari cangianti ed illusori della letteratura italiana fra Rinascimento maturo e Manierismo – dall’ariostesco castello di Atlante alla demoniaca fantasmagoria della tassiana selva di Saron. Ma preferisco rifarmi ad un altro autore caro a Marangoni, cioè il Boiardo. Come la fontana dell’Amore e dell’Odio, che effonde il suo insidioso lucore d’oro e avorio «candidi e politi» – come la «zuffa oscura e tenebrosa» che coinvolge, e quasi confonde l’uno con l’altro, Orlando e il drago, la determinata volontà dell’eroe e l’informe e proteiforme snodarsi e dibattersi del mostruoso -, così la pagina narrativa cattura lo «sguardo itinerante» (come lo chiama Wolfgang Iser) del lettore, lo fa smarrire nel suo labirinto, fra i suoi echi e riflessi di voci e di maschere, trasmettendogli, per contatto empatico, la nitida fiamma – o almeno la virtuosa e feconda illusione – dell’adesione intellettuale e dell’illuminazione ermeneutica.
La narrazione – che organizza ed orchestra, per prospettive intersecate e sfuggenti, gruppi di figure, giochi d’ombre, intrichi di voci e di sguardi, di storie e di silenzi – è simile ad un quadro – ad un vasto affresco, ad un arazzo multicolore e screziato, ad un bassorilievo mosso e chiaroscurale -, secondo una tradizione che dal romanzo ellenistico arriva, almeno, fino al Balzac del Capolavoro sconosciuto. «Ut pictura fabula», si potrebbe dire, parafrasando un detto oraziano che godeva, nel Rinascimento, di larga fortuna.
Ma la narrazione-pittura, l’allegoria metanarrativa rappresentano, senza rimuoverla né mistificarla, l’angoscia strisciante della modernità al tramonto.
I narratori contemporanei più avveduti e culturalmente consapevoli guardano al Rinascimento attraverso un michelangiolesco «cronòtopo del non-finito», una suggestione di forme abbozzate, volutamente incompiute, ancora aperte a possibilità molteplici, e come sospese nella penombra, divise e fluttuanti «su ciò che è stato detto e ciò che ancora è dicibile». Lo sguardo e la parola si districano, sottili e vacillanti, fra i gorghi e le spire di quel «maelström di cronòtopi» di cui Marangoni parlava, tempo addietro, a proposito di Ariosto.
Il postmoderno proietta sul Rinascimento il proprio spazio-tempo frastagliato, onnidirezionale, all’apparenza privo di un centro e di un significato. Ma la letteratura (pur senza la pretesa di dare risposte definitive, e anzi aprendo nuovi, inesauribili dubbi ed interrogativi) non abbandona, ma al contrario rafforza, il suo valore e il suo impegno di riflessione e di conoscenza. Essa rinnova, insomma (direbbe Calvino), la sua infinita, sempre incerta «sfida al labirinto».