Ideale Cannella
Le ali dell’Angelo
a cura di Carlo Trotalli
Editrice LABOS, Morbegno 2010
pp. 192
€ 15,00
Nella grande casa dal giardino incantato, la cui bella foto è riportata ad inizio testo senza tralasciare la fontanella a forma di gnomo e la variopinta e quasi sfacciata bellezza di una della cavallette della riserva naturale del Paluaccio presso il Forte di Oga, non si tace la guerra. Si distraggono con il sorriso di due angeli il dolore, il logoramento del fronte e «il mal di paese». Si vive e ci si vuole bene con quel sentire gratuito che è proprio dei bambini e degli angeli. È talmente complessa la loro strada per toccare la terra dal cielo lungo il sentiero di «polvere di stelle» che quando arrivano per un po’ se ne avverte il fruscìo dell’ali!
Si gode della voce degli Alpini o dei montanari (i montanari sono sempre alpini) che si fonde con quella delle montagne , della natura circostante e tutto insieme racconta e canta come spiega per primo il giovane Antonio ai bambini.
«La montagna parla anche con la tormenta: sembra allora che il cielo inquieto voglia ristrappare alla terra la neve e la risolleva in turbine, la riporta in alto e la disperde lontano».
La Santa Licenza sta per essere festeggiata da Settimio, tre più due giorni di licenza! «I soldati che vanno in licenza hanno il sacco quasi vuoto, ma il cuore pieno di felicità; al ritorno il sacco sarà gonfio gonfio ma la gioia si sarà persa per strada». Cristina e Gianfranco osservano tutto con gli occhi estasiati, sognanti dei bambini per i quali la guerra è ancora un «avvertimento» più che una dolorosa realtà che farà loro smarrire «il volo dell’angelo». E Antonio insegna, scandendola piano la canzoncina della vecchietta ma la interrompe prima della fine però, perché al dolore della madre per il figlio che non torna, lui non lo vuole neanche pensare.
«Lassù in una casetta d’Italia sul confin
viveva una vecchietta – la madre di un alpin […]
Un dì fra le vette – tra i bianchi nevai
fra gole e ghiacciai – una voce ascoltò […]
Su parti mio figlio, la patria ti chiamò
E t’accompagni Iddio, per te io pregherò»
Con entusiasmo invece spiegherà come si organizza un campo tra le montagne per poter avere un po’ di raccolto e mostrerà con orgoglio le vettovaglie della « mammetta». Tralucono infinito amore le parole della mamma di Antonio: «Di’, Toni, perché non ti fai trasferire, lassù? Potresti fare guerra vicino a casa tua: abitiamo ad un passo dalla frontiera!». La guerra sarebbe meno crudele, l’assenza più misurata dalla vicinanza del luogo, sarebbe come andare con lui o essere al fianco del figliolo […] un po’ come se si combattesse vicino o ci si aspettasse poco lontano. Sono sempre gli occhi dei due bambini a vedere «la vestizione degli alpini». Stazionano nel magazzino e riempiono l’aria di canti e nostalgia, di «canta che ti passa» e fondono i suoni di tutte le città. Cristina comincerà a capire cosa sia la guerra dalla curiosità che la spinge a leggere il grande libro degli appunti che il caporale sistematicamente aggiorna e a chiedere «cosa vuol dire deceduto?».
La guerra semina morte e la febbre spagnola divora più dei combattimenti; i bambini diventano grandi anzitempo e l’adorata bambola di Cristina dorme sonni più lunghi. «Ma non sanno i grandi che non ci si può divertire solo perché essi l’hanno consigliato?».
Un piccolo sacrario (fotografia a pagina 62 del testo) allestito al Forte di Oga raccoglie oggi gli oggetti personali di tutti i caduti, austriaci, italiani e italiani di Napoli, di Calabria, di Messina e il ferro di un mulo testimonia la comunanza che accompagna, nel destino della guerra, gli alpini ai loro muli. «Il conducente Gennaro P, disperatamente attaccato al collo del mulo, nello sforzo immane di trattenerlo era caduto con la bestia nel precipizio».
Nella riserva del Paluaccio di Oga splende la drosera, un’antichissima pianta carnivora, antiche stoviglie sono esposte al Museo Vallivo di Valfurva e l’oggi si fonde con quell’allora trascorso dai bambini con Settimio nei boschi e nelle vallate dove ancora s’incontra «di quando in quando un Crocefisso di legno scuro e i piedi piagati di Gesù sono ricoperti di fiori montani […]». Si era dimenticata per un po’ la guerra, anche se molto vicina «laggiù si diramano le strade che portano al Gavia, ai Forni, al Cevedale, al Cristallo, al Tresero». La leggenda dei boschi, dei fiori, delle cantilene s’incupisce lentamente delle scure tonalità del sangue alpino. «Scendono a valle i feriti e restano lassù i morti, nei piccoli improvvisati cimiteri di montagna/». La parola «confine» indica qualsiasi luogo dal quale si possa difendere la patria. È guerra di logoramento e di trincea, Cristina conosce così la quarta guerra d’indipendenza, la parola irredento, il termine martire. Finirà la favola dei giochi, delle scoperte, dei boschi, diverrà storia e il peso dei fatti sarà macigno indelebile e brusca interruzione dell’infanzia. Ma anche in questo percorso, nella raccolta dei soldi per acquistare indumenti e medicine da inviare ai prigionieri (senza organizzare feste!, pensa candidamente Cristina) accogliamo con commozione la favola vera del gigante buono. Giubba è grosso sporco, dicono che porti via i bambini, che mangi i topi, che sia un losco figuro ma i soldi lui li darà tutti per i prigionieri lasciando stupefatti i bambini. Avrà un paio di scarpe nuove ma avrà donato qualcosa di veramente grande, patrimonio inalienabile dell’animo di Cristina e Gianfranco. Nessun cuore è più generoso spesso, di quello che non ostenta altro che una «brutta faccia».
Parole di guerra si aggiungono al vocabolario dell’anima e la Ghirba non è solo un giornale satirico […] vuole dire «lasciare la pelle in guerra», vuol dire morte e mentre la spagnola dilaga e la presenza dolorosa della fine accompagna, lamenti, dolori, e strazi, piccoli oggetti-ricordo rinnovano l’insana follia di uomini contro, di ragazzi contro […], di soldati mandati al fronte. È immediato il rimando alla canzonetta che Antonio non aveva voluto finir di recitare. «Nel cavo delle mani tiene un orologio, un portafoglio e un piastrino di riconoscimento». Il pittore Oga Gianluigi Colturi ci offre un quadro che coglie la meraviglia bambina dell’infanzia, è illustrato subito dopo l’incontro con la vecchina di cento anni ed è forse l’ultimo volo dell’angelo. Cosa partorisce la guerra, Cristina lo vedrà nei cartelloni incollati sul muro della casa di fronte. «Ha rabbrividito nell’osservare quella figuretta di bimbo che tende in alto due moncherini grondanti sangue […]»; un altro anche […] «anche lui vorrebbe tendere le mani e alza verso il cielo i moncherini […] il fanciullo del cartellone è biondo, bello e ha gli occhi carichi di dolorosa preghiera. No. Cristina non ha mai visto nessun Gesù così in disordine come quello del manifesto che ricoperto di una misera camiciola, più nudo di un bimbo nudo,sembra sia stato svestito da mani brutali».
Cristina si misurerà presto anche con la morte della madre e il peso della sua assenza, nell’aggirarsi tra le stanze, tra i suoi oggetti, negli abiti appesi, flosci e obliati del corpo ma diventerà necessità ingoiare lacrime per consolare il fratellino.
Quando la Bajona suona e l’eco giunge nelle valli circostanti forse ricomincerà lentamente la vita, la vicinanza della gente «alimenterà» una serenità fragile e nuova ma Cristina stenterà a comprendere perché a lei l’Angelo non presta più le sue ali neanche per addormentarsi.
Forse la coscienza del dolore le ha fatto perdere il filo del percorso di stelle e senza volerlo l’ha portata a restituire le ali per il volo di altri bambini. Custodirà ricordi conscia che «la guerra finisce solo per i morti».