«L’uomo prova la propria esistenza entrando ed uscendo da porte oscure»
Pablo Neruda
« […]Un dì vedrete/ mendìco un cieco errar sotto le vostre/ antichissime ombre, e brancolando/ penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne/ e interrogarle […]».
Il mendìco cieco, a tentoni, abbraccia le tombe, le rende fisiche esistenze, le strappa al freddo della pietra, al tempo e anche al dolore inconsolabile,restituendo loro parola che chiede e aspetta risposte ad interrogativi che permettono la coesistenza della vita con la morte.
Nel prologo di Matteo Veronesi, l’immagine di Omero assume la connotazione della cecità che vede l’uomo nomade a se stesso; non è oblio, ma immersione nel fiume di Siddartha (secondo l’etimologia tedesca del «colui che cerca») per risorgeretramite la poesia. Essa può infliggere dolore ma è l’unica Sibilla a fornire responsi. Ascoltati, essi ridonano vita e resurrezione, erba viva e tenera al passare delle stagioni, penetrazioni nella terra e nell’anima e coesistenza con chi sembra averci lasciato per sempre.
Il vivere per ricordare e il morire per rimanere cordone d’argento palpitano nella penna dell’autore, nella casa dei ricordi, nelle fotografie rimaste, nell’infanzia, nelle parole degli avelli e diventano poesia eccezionalmente compiuta erestituzione d’eternità. Entra piano, quasi di nascosto, a passo leggero nei versi-frammenti, l’autore; cita da Omero a Pessoa, li ridefinisce nel dolore comune degli uomini e se ne fa schermo: «a casa del poeta non si piange».«E nell’oblio ho cercato la memoria/ nel silenzio la voce, le mute/ armonie dell’inchiostro -/ io ho cercato la vita/ nella morte/»
Quattro ossimori («oblio/memoria», «silenzio/ voce», «mute/ armonie», «vita/morte») iniziano e segnano la percorrenza della raccolta insieme al contrasto dei titoli. «Cordone d’argento» viene ad indicare una permanenzache si oppone al significante « frammenti». Dal grembo inscindibile della madre, l’esistere del figlio si frantuma nei singhiozzati versi per la sorella. Nell’ampia spazialità del respiro poetico le antitesi dell’animo armonizzano musiche e silenzi, e proprio da essi vibrano in realtà contrapposte ma com-prese.
«Che possa ora il pianto/ farsi ritmo, musica, il lamento/ possano ancora questi versi lievi/ incantare l’abisso».
E nell’equilibrio di tematiche tragiche espresse in uno stile che dipinge il cielo e sale come una preghiera senza affondare mai nella cupezza, la poesia di Veronesi acquista la pienezza di un volo.
«Nel buio della mente come un soffio d’organo», la memoria del mare, la luminescenza della lacrima, la quotidianità di gesti comuni, del gatto di casa («forse sentiva stringersi/ intorno alla tua luce il cerchio d’ombra»), il tempo lungo ed estenuante della malattia («forse era solo il ritmo stento/ di quei poveri versi il cordone/ d’argento che ancora ti teneva/ legata al tempo»; «e dolce come il miele o il sonno, e tenue/trema nella memoria la tua immagine»).
Tutto viene a scandire lentamente il dissolversi di noi per un abisso di pace: «Il più grande/ dei piaceri è la fine/ del dolore mormoravi/ con un sorriso stanco, quando ancora tenevi la tua via/ celata, con amore, ai nostri occhi», in spazi ampi e tempi lunghi (anche il verso 4del poeta è inconsueto nellametrica alla sua normale brevità di stile), sacrificalmente donati nel silenzioconsapevole della fine.
Un passero che vola subito via dalla stanza, una fotografia («il fermo simulacro/ che di te mi rimane») accompagnano con corone di versi la morte come catarsi del dolore per una vita «altra» dove potremmo in verità scorgere l’intreccio vero della menzogna terrena che ha retto i fili di uno stolto burattinaio, clownesco , fingitore , «buffone».
Nei «Frammenti per la sorella» il poeta si apre al lettore ancora schermatoda un breve prologo o «inusuale coro», atto a distanziare il tempo della sofferenza, i sommovimenti, le cadute, lo stordimento, »lo schianto» e «la mortale quiete».
La poesia si fa verso frantumato, spazio bianco, spesso lapidario, amore amato, perso e non del tutto perdonato, più che frammenti si colgono brandelli di carne, lacerti, strappi, disagio profondo; è la caduta, scrive e spiega lo stesso poeta, della « trinità del dolore». «Tu cercavi la gioia/ che splende oltre il buio/ e oltre la luce, l’amore/ che non chiede un volto o una voce/ per essere vivo»; «ho cercato/ in lungo e in largo un codice per i miei pensieri».
La parola non sempre trova se stessa, si sillaba in fogli, nella condizione disarmante di non riuscire a definirsi e immaginarsi argine al dolore; si sovrappone ad altre, si cancella, si riscrive, macchia il foglio, lo brucia, lo carezza ed è sempre inadatta proprio quando cerchiamo smarriti il nostro codice d’amore e dolore: «Forse è in quel bianco nulla/ in quella pace ghiacciata che ora giace/ per l’eterno velata/ la tua voce»; «Forse era la tua sorte […] fattasi bianca tenebra a confondere/ l’esile trama dei miei giorni»; «Perdonami se non vedrò gocciare nel silenzio/ del cuore le tue ardenti lacrime di porpora». Tornano le figure retoriche care all’autore, ma in un ritmo incalzante, ossessivo; il ritmo si spezza, diventa pianto trattenuto, balbuzie dell’anima, precipizio del sé verso una solitudineabissale, urlo tacito e assordante. Neanche il silenzio ha pace e si colora di porpora, di sangue.
E in queste continue dissimmetrie l’autore si misura con la vita e con la morte come un gigante dal cuore fragile.
Patrizia Garofalo
Il libro può essere scaricato gratuitamente da qui:
http://www.archive.org/details/IlCordoneDargento-FrammentiPerLaSorella