L’esistenza quotidiana è una fuga davanti alla morte e un incessante sfaldarsi delle cose, acquisizione che nel romanzo assume la positiva connotazione ad essa attribuita da Heidegger. Il dolore ed i contrasti, e con essi la ricerca e la creatività, nascono e si partoriscono in seguito alla scoperta del vuoto e delle inevitabili smentite della vita.
Ecco quindi che l’analisi continua e assillante – per una decodifica degli stilemi della contemporaneità, nonché dei vincoli della propria memoria – che si pone in essere nella struttura del romanzo coglie in Alfredo dubbi, tensioni e conflitti propri dei nostri tempi. Aveva bene visto Montale nel vaticinare l’avvenire di un pragmatismo e di un materialismo così soffocanti che avrebbero imperiosamente determinato la necessità di ricercare nel profondo scandaglio dell’animo una ridefinizione del sé, dell’essere e del sentire per scongiurare lo stabilizzarsi dell’inaridimento. Alberto Carollo nel suo romanzo, di ricerca e di verificazione, non di formazione, ristabilisce un patto di fedeltà e di comunicazione con il lettore, spesso dimenticato o disconosciuto dalla letteratura contemporanea e senza infingimenti si affida ad un colloquio sommesso, ironicamente triste e debolmente mediato. Nonostante la desoggettivazione nelle vicende del personaggio di Alfredo – che tende a riversarsi, a mimetizzasi quasi, in altre forme adombrate nel romanzo, a riconoscersi, o tentare di svelarsi, in quelle memoriali e in quelle dell’arte – si sfogliano pagine e storie in filo diretto con lo scrittore che passa dall’annotare poesie a indulgere a riflessioni su opere d’arte, a passioni e trascinamenti come oggetti-soggetti della sua infinita solitudine, a perplessi tentativi di accoglienza nel mondo che ruota distratto, disfatto, arido e immotivato, con rare increspature di verità. Alfredo, fin da giovane timido e ritroso, comunicava con i suoi coetanei tramite disegni sorprendenti e da subito è evidente come l’approccio con il mondo passi quasi costantemente attraverso significativi silenzi, matite colorate, occhi che da dietro spesse lenti apriranno letture interiori del mondo, dei fatti, del quotidiano. Anche dell’amore, che da angelicato – come spesso si configura nell’evocazione della sua compagna di classe – trasmuta in passione intellettiva ed emozionale per Alina, ma mai si riduce a carnale sessualità e vibrando piuttosto in una potente lacerazione che gli graffia l’anima e lo investe di subitanei silenzi, mentre defilato nella silenziosa solitudine del suo studio scrive:
Cavalco bizzosi cavalli/ dal bianco crine sui pianori/ e attraverso i sentieri scoscesi del POI.
Desidero cambiare ancora/ coglierò il comparire effimero/ di un volto fra i tanti/ in quel prisma indefinito, godrò del mio respiro che si fa nuvola / sotto un cielo alcionio./
Non disporre del mortificante pendolo/ o dello spazio/ lambito dalle acque del fiume/( ci siamo guardati alle spalle e con sconcerto /abbiamo scoperto che il vuoto era stato colmato)
Accade che ho notti come questa,/ impalpabili/ alle quali non so dare nome./ Accade/ che è solito farmi visita un Demonio di Donna/ avvolta in una pelliccia grigia/ una Donna fredda come l’inverno che ho dentro.
Invece lo conosce Alfredo quest’inverno che come una malattia spirituale e del corpo non passa, e lo disegna nei versi, ne parla con sé nelle pause del giorno. Il prisma indefinito, il cielo color alcionio, le acque del fiume, la Donna fredda in maiuscolo come assoluta Domina è la melanconia di cui le pagine lievitano come nuvole che incastrano l’anima in colorazioni trascorrenti e non definibili. Alfredo la invita al suo tavolo, le parla, le scrive, la scopre nei dipinti e la ferma in grafia diversa, come per le poesie, ne fa l’anima del romanzo nel quale le vicende diventano marginali o sostanziali solo se viste da questa lente di amoroso ingrandimento. Hugo Van Der Goes sembrava soffrisse di melanconia perché la provvidenza divina voleva salvare l’artista dal peccato di vanità per le sue aspirazioni estetiche o forse perché non vedeva adeguatamente realizzarsi le sue ambizioni artistiche. Una punizione al dogmatismo delle convinzioni, alla tracotanza umana di greca memoria o l’ansia che la dedizione all’arte sottende? Il dipinto di Dürer, l’autoritratto di Munch, le parole e i volti di Van Gogh, il trittico Portinari: tutto per Alfredo è vista e oggetto ed introiezione della sua ricerca spesso inconsapevole, che avviene anche mentre le giornate segnano il normale calendario della quotidianità, e l’incedere inappellabile della caducità. È significativo, e alla fine preponderante, anche se spesso sbilanciato dall’armonia di un unicum vitale, il tema dell’erotismo. Esso viene a segnare la melanconia proprio nel momento che converge nell’intelletto, nella tensione di afferrare inutilmente la donna amata e si esprime in una forte fisicità quasi sovrasostanziale che tende all’eterno e rapisce l’anima. Il protagonista percepisce persino l’idea, l’essere della morte a cui l’amore è oscuramente collegato nello slancio di un amore scorporato che sottolinea comunque la coraggiosa fragilità di viversi nell’assoluto. La rigidità delle strutture sociali, gli amici che gli lasceranno tra le mani briciole di sogni, insieme congetturati e sofferti, la perdita di Ilaria gli precludono l’ipotesi di cogliere l’erotismo come elemento metafisico. Alfredo ne vive e ne sperimenta il doppio ritratto delle «maschere nude» di Pirandello. C’è sangue sotto la maschera del clown e il doppio ritratto non è solo il dipinto di Giorgione e il titolo del romanzo, ma è suo ritratto e sua pena per un accaduto che era stato diversamente desiderato. Ma è anche altro. Un romanzo circolare dove la Donna in grigio non costituisce un enigma da sciogliere ma forse la com-prensione che alla vocazione artistica si accompagna sempre la solitudine con la quale bisogna venire a patti:
«non posso fare a meno di trovarla ammirabile, con quella pelle levigata, quei suoi capelli corvini e l’espressione languida che assume quando si regge il mento con la mano».