Sono piuttosto note le pagine che a Gozzano dedicò Renato Serra nelle Lettere, sottolineandone il delicato intimismo e lo stile colloquiale e sommesso; meno noti gli appunti gozzaniani – incompiuti, frammentari eppure ridondanti, a testimonianza di un rapporto ermeneutico protratto, meditato ed insistito, di una lunga pazienza e una dimestichezza assidua – che dello stesso Serra pubblicò, in appendice al libro Il lettore di provincia, Ezio Raimondi: pagine, queste ultime, in cui critico e poeta paiono legati da una sintonia assoluta che si dispiega e si articola nello spazio culturale e spirituale di una provincia metatemporale e metafisica, di una marginalità e una distanza dal centro che trovano il proprio riflesso nella chanson grise, nella sonore, vaine et monotone ligne di un simbolismo in tono minore, insomma nella temperie sommessa, monologante-dialogante, di un raccolto e sentito discorso interiore.
In ciò sta il profondo «umanesimo», l’opaca, ma in fondo autentica sin nelle sue maschere, nei suoi artificiosi pigmenti, nei suoi «sottili schermi», humanitas di Gozzano: il quale, con il romitaggio, l’«esilio», l’«appartenersi» e il «meditare» dei suoi alter ego, delle sue proiezioni, delle sue maschere, pare rievocare la solitudine cogitante, l’introspezione, lo scavo interiore, e insieme l’«immergersi spiritualmente», il «transferirsi», in altre epoche attraverso la lettura e la meditazione, che rappresentano, da Petrarca a Machiavelli fino, appunto, alla religio litterarum carducciana e vociana, uno dei tratti essenziali dell’umanesimo.
«Egli è l’uomo che assapora il piacere di un vocabolo staccato, il valore di un nome proprio (…) e adopera le parole come una pasta piena e fluente, che riempie tutto lo stampo del verso (…) e si incastra con delizia nella rima». Evidentemente, Serra riusciva a cogliere, per citare Flaubert, il sublime d’en bas (non meno nobile, levigato e lavorato del sublime d’en haut) di cui potevano essere investite e circonfuse anche le piccole ed umili cose dopo che vi si fosse posato l’artificio, sempre laborioso e vivo, dello stile.
Come avrebbe ripetuto Montale in pagine rimaste celebri, Gozzano restava comunque, proprio per la sua perizia nel far stridere l’aulico col prosaico, un raffinatissimo stilista, addirittura un parnassiano, nel qualeglioggettiumilieleatmosferepiù dimesse non sono meno ricercati, studiati e finemente cesellati dalle più dannunziane sofisticazioni, dalle quali egli, pur antidannunziano convinto, non seppe sempre (con una delle sue mobili e fecondissime contraddizioni) mantenersi immune. Non è casuale che proprio in Mallarmé (poeta più di ogni altro ricercato, cerebrale, raffinato), per l’esattezza quello dei poemetti in prosa, fosse già cantata la «grâce des choses fanées», e si incontrassero (come del resto si incontreranno nel Joyce dei Dubliners) molte delle situazioni tipiche della poesia crepuscolare.
In Totò Merùmeni – osserverà Serra nelle annotazioni edite postume – «si nasconde un poeta che ha sete di musiche grandi e vaghe, che riempiano paesaggi fantastici»: di là dalle angustie delle vecchie cose e delle stanze asfittiche, si aprono spazi suggestivi, risonanti, tramati di analogie, come in Leopardi o nel Baudelaire «berçant son infini sur le fini des mers». E può darsi, a proposito di humanitas serriana, che il richiamo, fin dal titolo Totò Merùmeni, all’Heautontimoroùmenos di Terenzio sia più profondo di quanto non paia: e non già per la fin troppo citata concezione dell’uomo da cui humani nihil est alienum, quanto piuttosto per l’idea di un teatro dialogato ed introspettivo fatto di mera parola e di parola pura, di «pura oratio», e dominato dall’ambiguità, dall’infingimento, scena su cui «non vere vivitur» e in cui gioia e dolore, anche quando autentici, sono pur sempre doppiati dall’artificio e dalla dissimulatio.
Scrivendo proprio a Serra per ringraziarlo dell’invio delle Lettere, ed evocando il fascino e l’incanto di un’amicizia pura ed assoluta proprio perché in absentia, mediata solo dalla perennità della parola, Gozzano (che, per la nota ritrosia di Serra, non avrebbe mai ricevuto risposta) citava, non solo per preziosismo, esotismo o sfoggio erudito, ma per autentica passione culturale, Asvaghosa, il poeta del buddismo, l’epico e mistico cantore del percorso iniziatico affrontato da Gautama, giunto (come l’ultimo Gozzano alle soglie di una morte da tempo presagita, e infine sentita come imminente, ed accettata con tenue e mite eroismo, con delicato ma genuino stoicismo) a contemplare con ferma serenità il Nulla eterno, il Vuoto senza fine, oltrepassando il velo cangiante ed ingannevole dell’immanenza, dell’impermanenza, della vita sensibile (anche gliechipetrarcheschichepervadonola poesia gozzanianasono intrisidi eraclitismo,tendonoaconcentrarsi intorno al motivo, già oraziano, del tempo che corre vola fluisce nel momento stesso in cui il poeta parla, in cui ritma ed inanella le sillabe, fondendosi così esperienza e scrittura sotto il segno del divenire che tutto travolge e cancella).
Alla fine dei Colloqui, come Dante nel Paradiso, Gozzano preannunzia – alludendo alla palingenesi segnata dalle Farfalle – di poter tornare poeta «con altra voce». Voce altra, certo, rispetto a prima, rispetto alla gelida ironia, all’amaro disincanto, al disilluso distacco, all’«aridità larvata di chimere», delle opere precedenti; ma altra, forse, anche in senso assoluto, nel senso di un petrarchesco alieniloquium, di un discorso il cui ricorsivo anello, il cui cerchio concluso, la cui tessitura endecasillabica sempre su sé ritornante si «aprono», in modo quasi heideggeriano, al totaliter Aliud, all’Altro, al Mistero, al Senso ulteriore – quasi al Vide, all’Abîme, all’Azur di Mallarmé, che paiono evocati già nell’Assenza, splendido testo che se da un lato richiama Pascoli, dall’altro prefigura, fin dal titolo, motivi ed aree semantiche che saranno dell’ermetismo.
Nelle Farfalle, però, alterità ed immanenza, spirito e materia, noumeno e fenomeno, Mistero celato oltre i limiti del conoscibile e conoscenza scientifica trasfusa, lucrezianamente, nel dettato poetico, paiono fondersi.
In ciò, Gozzano segue, ad un tempo, l’idea di ciclicità dell’essere, di eterno ritorno dell’uguale che trovava nelle sue fonti orientali così come in Nietzsche, contaminandola con il più o meno esplicito panteismo, di stampo stoico o deistico, dei poeti didascalici cinque-settecenteschi che pure figuravano fra i suoi antecedenti.
Su tutto, si staglia il nitore di un’autocoscienza, di un’autoriflessione poetiche le quali ricalcano, aderendovi, quella stessa ricorsività ontologica. Gautama, nel poema di Asvaghosa, incede «incrollabile nella sua gloria, rendendo omaggio alla sacra raccolta dei versi emanati dall’eterno creatore di se stesso (Buddhacarita, II, 51). Il sapiente perviene ad «abolire se stesso con se stesso», a «riconoscere che nulla esiste» (XII, 63); egli supera la simultaneità di coscienza ed incoscienza (quella stessa che presiede alla creazione poetica, intrisa di creazione eriflessione,ispirazione e lavorio tecnico, «gioco disillabaedi rima»)pergiungeread una sfera assoluta, che non è più né l’una né l’altra cosa, identificandosi con l’«illuminazione immobile e sottile», con il mare che scintilla nella sua immensa profondità (XII, 83 sgg.).
Gli «oggetti», le «cose» che rappresenterebbero, e in parte effettivamente rappresentano, la cifra essenziale della poesia gozzaniana rivelano così, nel disegno complessivo del cammino conoscitivo ad essa sotteso, di non essere, infine, platonicamente e schopenhauerianamente, che ombre, maschere, illusioni, simulacri, parvenze, destinati ad essere infine trascesi e dissolti dalla luce della conoscenza (anche la sceneggiatura su San Francesco, da Gozzano implicitamente accostato, in quanto maestro di verità e d’illuminazione, a Buddha, si apre e si chiude con un’ineffabile e fulgida dissolvenza incrociata di chiarori e splendori).
Su tutta la poesia precedente si proietta il cono di luce della finale pacificazione di cui le Farfalle(ricomponendo in placido lume conoscitivo la turbinosa e vana ruota degli eventi, e insieme il vacuo artificio di sillabe e di rime) serbano la tersa testimonianza.
Eppure, l’esito ultimo di questa svolta, di questa Kehre diremmo con Heidegger, non è una poesia mistica nel senso convenzionale, fatta di rapimenti, empiti, slanci, aneliti, ma al contrario una poesia scientifica, sulla linea che, in Francia, va da Delille a Sully Prudhomme e a René Ghil: endecasillabi pacati, fluidi, raziocinanti, a tratti finanche monotoni, eppure sottesamente animati, agli occhi di chi sappia scorgerlo, da quello che Leopardi chiamava l’entusiasmo della ragione.
È in quest’ottica che entra in gioco, al di là delle precise reminiscenze testuali, o dei «plagi», che pure sono stati additati, l’influsso esercitato dal Maeterlinck, capace di sciogliere ed effondere il concetto positivistico del Mistero,dell’ineffabile Spirito (l’Unknown spenceriano) che pervade e vivifica la natura in una splendida, immaginifica e musicale, prosa simbolista.
Nell’alveare, per Maeterlinck, l’esistenza dell’individuo «non è che sacrificio incondizionato all’essere infinito e perpetuo di cui fa parte». Tale processo è, sul piano della natura, simile al naufragio mistico nel nulla infinito e primordiale, in cui tutto è come non fosse mai stato. Per l’uomo, la natura è insiemeunospaziovitale edunlimite,uno strumentod’esistenzaedipercezioneeun ostacolo frapposto ad ogni slancio conoscitivo vòlto all’oltre.
Negli ultimi anni (ma già nei vagheggiamenti di terre lontane, come la Barberia, in Torino e nella Signorina Felicita), Gozzano identificò l’altro, l’oltre, il lontano, con uno spazio indo-africano, un sostrato dravidico (qualcosa di idealmente simile, quasi, all’indistinta ed indeterminata India-Lybia-Aethiopia-Africa in cui l’antichità e il medioevo confinarono il remoto, il confuso, l’ibrido, il multiforme, il mescidato) in cui vide rappresentati, quasi incarnati l’ignoto e il mistico e in cui arrivò, nel contempo, ad intravedere l’impossibile speranza di una terrena guarigione dal mal sottile.
Agli occhi di Gozzano, l’India, l’Africa, il lontano e l’ignoto equivarranno, quasi, ad una sfera altra, remota, salvifica, in cui (quasi come, poi, in modo più sentito e complesso, per Pavese, per Conrad, per Pasolini) varcare la shadow line del remoto e dello sconosciuto e volgersi alla possibilità di una salvezza, di una catarsi che possono assumere la forma della redenzione o dell’annullamento, del rinnovamento o dell’immersione nell’abisso del nulla.
Malgrado l’ironia (sempre ambigua, antifrastica, non univoca, in Gozzano come in Serra) indirizzata verso Camôes (visto come popolaresco, bizzarro, estroso cantore) in Verso la cuna del mondo, il poeta dei Lusiadi può avere offerto qualche suggestione in tal senso: le «isole in cerchio», i vaghi e ancora indistinti segni (si pensi all’«Isola non trovata» di una poesia dispersa) che Magellano scorge in lontananza (I, 43-44); i mirifici bassorilievi di un tempio indo-africano (le «fiabe defunte delle sovrapporte») che rivelano, al pari della poesia, una verità più profonda attraverso l’ombra, l’inganno, l’illusione («Pela sombra conhece a verdadeira», VII, 51).
Maeterlinck, Asvaghosa, Camôes: gli antecedenti più disparati paiono fondersi in questo umanesimo, in questa rinnovata perennis humanitas. Il poeta delle piccole cose, che come il suo Gianduia ridarello parrebbe temere gli orizzonti troppo vasti, rivela in realtà, al lettore d’oggi che riconsideri la sua vicenda e la sua opera nella loro interezza e senza schematismi, una vastità, una profondità, unaulteriorità, per così dire, di messaggi e di sensi, forse insospettate.
«Décadente, Mystique, les Écoles… adoptent, comme recontre, le point d’un Idéalisme qui (pareillement aux fugues, aux sonates) refuse les matériaux naturels». In questa accezione simbolista si colloca la mistica di Gozzano, che già nel 1905, parlando del Misticismo moderno e la rievocazione del Serafico, associava artificio e mistica come mezzi per trascendere la greve brutalità della materia, investendo la pagina di «armonie artificiosamente efficaci di sillabe rare» (e strumenti ed elementi di siffatta armonia sono, si noti, anche le dame e i cavalieri, «a similitudine dei decameroni boccacceschi», che adornano gli affreschi pisani del Trionfo della morte – onde tutt’altro valore da quello più superficiale, un valore non triviale, ma esso stesso a suo modo idealizzato, stilizzato, prezioso, potranno assumere le «gaie figure di decamerone», del resto già verlainiane e dannunziane, di una più tarda poesia). Misticismo, certo, avverte Gozzano, «non sincero», simile ai paradisi artificiali delle droghe – ma ugualmente vòlto a superare le strettoie di un crudo realismo.
Gozzano – si legge nelle lettere alla Guglielminetti dell’estate del 1909, le quali indirettamente e a posteriori avallano l’interpretazione serriana di Gozzano come prezioso e ricercato poeta puro – compone i Colloqui, a prima vista circoscritti ad un ombroso e polveroso microcosmo, sentendosi «aperto ai sogni», avendo davanti agli occhi «il vuoto smeraldino della valle». Sempre alla Guglielminetti, l’anno prima, Gozzano confidava di avere in animo un libro «organico e ciclico», nato quasi come ideale compositivo, come schema mentale a priori, prima che come opera compiuta: un’idea musicale, insomma, un organismo compositivo calcolato, una struttura adamantina, simile al baudelairiano «livre qui soit un livre», con un principio e una fine, una testa e una coda, per quanto ciclici, speculari, ricorsivi – se non proprio all’inattingibile, metafisico ed assoluto Livre di Mallarmé.
Può darsi che, in quest’ottica di umanesimo simbolista, i Colloquia di Erasmo abbiano, fin dal titolo, esercitato sui Colloqui un indiretto influsso. Esercizi di conversazione, in fondo, i Colloquia; dialoghi virtuali, potenziali, incorporei, in absentia, sospesi sulle trame di un latino ideale, stilizzato, astratto, irreale. «Qui fieri potest,utrebus obscuris lucem adferat umbra?» (Convivium religiosum). «Bona pars bene dicendi est scitementiri»(Pseudocheiet Philetymi). Oscurità e menzogna. Sortilegio ed ombra. «Obscurum per obscurius, ignotum per ignotius», come per gli alchimisti (l’alchimie du Verbe dei simbolisti). «Confabulatione librorum solitudinis taedium fallere» (De captandis sacerdotiis). Meditazione solitaria, introspezione, come fuga dal tempo e dal mondo. Dialogo con le parole dei morti come discorso infinito, perpetuamente sospeso.
Dialogo è anche il confronto intertestuale con gli antecedenti letterari. E anche questo è un dialogo in absentia, che si snoda in uno spazio e in un tempo d’ombra e d’incorporeo. Il «buono / sentimentale giovine romantico» rinvia al «jeune homme des temps anciens que je suis» della Huitième Élegie di Jammes. Nel testo di Jammes, quel «jeune» è una sorta di puer senex, di puer antiquus, fisso e remoto in un passato senza tempo, indefinito, sospeso, perso nelle «années fanées». Quell’uomo perduto e dissolto in un passato insondabile è, quasi, l’incarnazione, la personificazione del «sogno nutrito d’abbandono» di Cocotte, che rinvia al Règne du Silence di Rodenbach («Ã‚mes dont l’amour n’aime / que ce qui pouvait être et n’aura pas été»): dimensione, in fondo, dello stesso discorso poetico, che pure è a sua volta infinita possibilità espressiva, realizzata o irrealizzata, sconfinata galassia di alternative possibili; sogno di città lontane che dilegua come sulle vie dell’acqua, simili a «chemins de silence». Nelle Farfalle, è riecheggiato il Maeterlinck dell’Intelligence des fleurs ; in particolare, non un principio astratto, ma la viva ed operante forza vivificatrice del polline e del nettare è rappresentata attraverso una metafora alata e vaga, un’analogia di gusto simbolista: «i colori magnifici, i profumi / ineffabili» («la séduction des parfums, l’appel des couleurs harmonieuses et éclatantes»). Come in Baudelaire, «les parfums, les couleurs et les sons se répondent». Ma le analogie sono lo specchio della morte e della perdita; in esse, nel loro impalpabile vortice si dissolvono il corpo e il tempo.
Il tono elegiaco dei crepuscolari (più dolce e pallido in Corazzini, più amaramente ironico in Gozzano, un poco estroso e bizzarro in Govoni, come in Laforgue) si spiega in questa luce. Come nella poesia di Rodenbach, i volti e le figure e le memorie paiono dissolversi al paridelghiaccioincuisisonospecchiate, come le increspature delle acque («les eaux vides, les eaux veuves…») che li hanno riverberati.
Ed è qui che l’elegiaco gozzaniano, per i comuni antecedenti simbolisti, si sposa con quello del Rilke delle Duinesi. Fra vita e morte trema un limbo indeciso. «L’eterna corrente / ogni età fra i due regni trascina e sovrana risuona». «La morte / tutta la morte prima della vita /chiudere ancora tanto dolcemente, / senza rancore – vince ogni parola». «Ma essere stato una volta, anche una volta: / essere stati terreni, irrevocabile sembra». Nell’irrevocabilità (almeno apparente, ma perpetuamente insidiata dalla possibilità dell’eterno ritorno) del passato, vita e morte possono forse riconciliarsi. E luogo di questo nodo, di questo vincolo durevole oltre il tempo, è, ancora e sempre, il Verbo, la Parola assoluta e pura.
Matteo Veronesi
(da Gozzano dopo cent’anni. Antologia delle opere per l’anniversario dei Colloqui, Nuova Provincia, Imola 2011)